martedì 7 giugno 2016

Le privatizzazioni peggiori d'Europa

      (PDFPrendiamo la vicenda della Interflug. La linea aerea di Stato della Rdt nel 1990 è appetibile per diversi motivi: il primo è che i conti sono tutt’altro che disastrosi (100 milioni di utile nel primo semestre: soltanto a seguito dell’unione monetaria, e soprattutto della prima guerra del Golfo, peggioreranno – come del resto quelli di tutte le compagnie aeree), il secondo è il valore strategico dell’aeroporto di Schönefeld a Berlino. Per questo motivo già a gennaio si fa avanti la Lufthansa (di cui lo Stato tedesco-occidentale detiene il 51 per cento) e stipula un accordo per l’acquisizione del 26 per cento della società. L’antitrust tedesco però sembra non gradire un monopolio, e per di più statale, delle linee aeree tedesche: il suo parere deve però essere confermato da una decisione del governo – che non arriva.

      Sembra comunque profilarsi all’orizzonte una soluzione ottimale, almeno dal punto di vista di un’«economia sociale di mercato» rispettosa della concorrenza: nel maggio 1990 anche la British Airways avanza un’offerta. Successivamente spunteranno altri pretendenti: un consorzio formato dalle linee aeree irlandesi Air Lingus, la Creditanstalt austriaca e l’asiatica Cathay Pacific. Anche il gruppo americao Wimco International fa un’offerta. Tutti però vengono sono scoraggiati dalla stessa Treuhandanstalt – cui nel frattempo è stata conferita anche Interflug – dal portare avanti la loro offerta, a causa delle presunte condizioni catastrofiche dell’Interflug: decisamente un comportamento singolare da parte di un venditore. La British Airways presenterà anche un ricorso a Bruxelles contro la Treuhandanstalt per ostacolo alla concorrenza. Con l’avvio dell’unione monetaria i conti della Interflug cominciano a peggiorare, e alla società sono per di più addebitati «vecchi debiti» per un valore di 120 milioni di marchi.

      La strategia di Lufthansa a questo punto cambia: il suo interesse non è più l’acquisizione della società, ma impedire che la compagnia sia acquistata da altre linee aeree. La Treuhandanstalt fiancheggia a meraviglia gli interessi di Lufthansa. E nomina un primo liquidatore, il quale però sostiene che la Interflug non deve essere liquidata. Viene licenziato e al suo posto ne viene nominato un altro che a tempo di record (7 giorni) emette il verdetto opposto. Il 30 aprile 1991 viene annunciata alla stampa la liquidazione della società. Nel frattempo la proprietà del suolo dell’aeroporto di Schönefeld è stata regolamentata attraverso un procedimento che ne garantisce l’utilizzo alla Lufthansa. A questo punto il monopolio sui cieli tedeschi e sulle piste d’atterraggio della ex Germania Est è garantito, e senza spendere un marco: come previsto dalla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» pochi mesi prima, la Lufthansa può infatti «rilevare le partecipazioni e i diritti di partenza e di atterraggio di Interflug a costo zero» (sul tema Interflug si possono vedere: Bothmann in Dümcke/Vilmar 1995: 188-194; Laabs 2012: 126 sgg.; Huhn 2009: 75-89).

      Speculare al caso della Interflug è quello della Vereinigte Transport. Si tratta di una delle prime società per azioni fondata nella Rdt: a giugno 1990, poche settimane prima della formale nascita della Treuhandanstalt (che comincerà a essere operativa da metà luglio), 56 aziende di trasporto «di proprietà del popolo» con 65 mila addetti tra camionisti e altro personale, si fondono. Vengono ingaggiati degli advisor finanziari e viene negoziato un credito con Citibank. Insomma, si cerca di mettersi al passo con l’economia di mercato. Ma già all’inizio dell’estate cominciano i problemi: l’associazione degli autotrasportatori della Germania Ovest sostiene che la socieà, in quanto erede di un monopolio statale, ha una posizione dominante. E non fatica a convincere della cosa il ministro dei trasporti Friedrich Zimmermann della Csu bavarese. Il ministero si rivolge alla Treuhandanstalt, che nel frattempo è diventata la custode fiduciaria anche della Vereinigte Transport come di ogni altra impresa ex statale della Rdt: chiede e ottiene che la società sia liquidata. Essa viene prima suddivisa nei settori spedizioni, autotrasporto e autobus, che vengono venduti separatamente. La liquidazione ufficiale della società ha poi luogo il 17 settembre, due settimane prima dell’annessione politica della Rdt (Laabs 2012: 132).

      La morale della favola di queste due storie, lette dal punto di vista di un tedesco dell’Est, è piuttosto semplice: ai capitalisti della Germania Ovest gli unici monopoli che piacciono sono i loro. E infatti nessuna protesta si leva a Ovest quando, 2 settimane dopo la liquidazione della Vereinigte Transport, il gruppo di supermercati tedesco-occidentale Tengelmann ottiene l’acquisto in blocco di 131 dei 150 negozi della catena HO (Handels-Organisation, ossia organizzazione di commercio) della città di Schwerin, tra cui 27 dei 31 più grandi di essi. In effetti questo è soltanto uno dei lucrosi affari portati a termine dalle catene commerciali occidentali. Le conseguenze della concentrazione del commercio al dettaglio in poche mani furono di tre ordini. In primo luogo, detenendo posizioni di oligopolio (o, come in questo caso, di monopolio quasi totale), le catene tedesco-occidentali aumentarono i prezzi. In secondo luogo, esse privilegiarono in maniera pressoché assoluta i fornitori occidentali e costrinsero di fatto i produttori agricoli locali a vendere sottocosto: già il 14 agosto 1990 si svolse a Berlino una manifestazione di contadini (dai 50 mila ai 150 mila a seconda delle fonti) per denunciare questa situazione. Infine, e quest’ultimo effetto può apparire decisamente ironico, la presenza e la concentrazione delle grandi catene occidentali costrinse alla chiusura molti piccoli negozi privati, in particolare di generi alimentari, che assieme agli artigiani, rappresentavano l’unico comparto di attività economica privata che aveva resistito nei 40 anni di Rdt, anche perché riusciva a colmare in parte i problemi di approvvigionamento che affliggevano la catena di Stato HO (nel 1988 si contavano 39.000 commercianti: Wenzel 1998: 116). Di fatto, i casi in cui le imprese dell’Ovest operarono – quasi sempre con successo – al fine di eliminare concorrenti dell’Est dal mercato non furono l’eccezione, ma la regola. I mezzi adoperati, di volta in volta diversi. Clamoroso il caso del produttore di frigoriferi Foron di Scharfenstein. Monopolista nella Rdt, Foron fabbricava oltre 1 milione di frigoriferi all’anno ed esportava in 30 Paesi sia all’Est che all’Ovest (per esempio, era un fornitore della catena di vendita per corrispondenza Quelle). Nonostante il colpo severo ricevuto con il cambio alla pari tra il marco orientale e il marco della Repubblica Federale Tedesca, la società riuscì a continuare la produzione e nel 1992 conseguì un grande risultato: riuscì a sviluppare e produrre, in collaborazione con Greenpeace e con l’istituto d’igiene di Dortmund, il primo frigorifero del mondo senza fluoroclorocarburi (Fcc): ossia il primo frigorifero che non contribuiva al buco dell’ozono né al riscaldamento globale, in quanto utilizzava come mezzo di raffreddamento il gas butano e il gas propano. La Treuhandanstalt tentò di vietare la conferenza stampa congiunta di Greenpeace e Foron in cui era presentato questo prodotto rivoluzionario, ma non ci riuscì. Nell’agosto 1992 arrivarono 65 mila ordinativi, che in breve crebbero sino a 100 mila. A questo punto il cartello dei produttori occidentali (citiamoli: Siemens, Bosch, AEG, Bauknecht, Miele, Electrolux e Liebherr) emise un comunicato congiunto in cui si diffidavano i rivenditori dall’acquistare questi frigoriferi: non funzionavano, consumavano troppa energia, e per la clientela comprarli sarebbe stato come mettersi «una bomba in cucina» (sic!). Tutto falso, ovviamente. Questi frigoriferi consumavano meno degli altri, e nessuna prova poté essere recata per l’affermazione diffamatoria delle ditte del cartello dell’Ovest. Ma al primo frigorifero senza Fcc del mondo fu sottratto in questo modo truffaldino il suo mercato. E le ditte dell’Ovest poterono intanto cominciare a sostituire il Fcc con il tetrafluoretano (che a differenza di butano e propano è dannoso per l’ambiente: dal 2011 l’Unione Europea ne ha proibito l’uso anche negli impianti di climatizzazione delle automobili), e pochi mesi dopo furono in grado replicare la tecnologia di Foron e di vendere in prima persona quella «bomba da cucina».

      Quanto a Foron, la società fu prontamente privatizzata vendendola a un fondo d’investimento che cambiò il management e precipitò la società nel baratro finanziario. Sembra che un interessamento della coreana Samsung sia stato prontamente ritirato allorché un fax proveniente dalla Siemens informò il management della società che l’acquisizione di Foron sarebbe stata considerata «un atto ostile». Nel 1996 la fabbrica fu rilevata dal gruppo industriale olandese Atag. Ma la produzione continuò a scendere, e con essa il numero dei dipendenti. Alla fine rimase solo il marchio, che nel 2000 fu comprato per 3-4 milioni di marchi dall’italiana Merloni (Wenzel 2003: 46-47; Huhn 2009: 131-135). Il 18 dicembre 2009 anche la società del gruppo Merloni proprietaria del marchio, la tedesca Efs, ha presentato istanza di insolvenza presso il tribunale di Duisburg. A Scharfenstein ormai soltanto un museo ricorda la storia di questa fabbrica e delle 5 mila persone che ci lavoravano.

      La storia della Treuhandanstalt è costellata di truffe. Alcune meritano un posto nella storia economica della Germania, sia per l’entità abnorme di danaro pubblico dilapidato, sia per l’assoluta assenza di professionalità – o peggio – da parte degli uomini della Treuhand. Lo merita senz’altro la vendita della società berlinese Wärmeanlagebau (Wbb) a una società svizzera sconosciuta, la Chematec. Artefice dell’operazione il tedesco occidentale (di Oberhausen) Rottmann, il quale acquistò la società per 2 milioni di marchi (il suo valore fu poi calcolato in 70 milioni di marchi), senza assumere nessun impegno vincolante né in termini di conservazione dei posti di lavoro, né di investimenti. Ma il meglio deve ancora venire. Infatti Rottmann svuotò la società della cassa e ne vendette gli immobili e i terreni (per gli immobili furono incassati oltre 145 milioni, mentre la Treuhandanstalt ne aveva stimato il valore in appena 38 milioni). Poi trasferì su conti all’estero 200 milioni di marchi della società stessa. La Wbb fece fallimento nel 1995, gettando sul lastrico 1.200 lavoratori. Rottmann fece perdere le sue tracce, nel 2000 venne arrestato a Londra e rilasciato su cauzione. Fu estradato soltanto nel 2009. Nel 2005 era iniziato il processo, al termine del quale l’accusato è stato condannato a restituire 20 milioni di marchi e a 3 anni e 9 mesi di reclusione. Ma è stato scarcerato dopo neppure un anno per avvenuta prescrizione del reato (Luft 2005: 31-32; Huhn 2010: 110-119).

      Ma anche il danno causato dalle attività illecite del sig. Rottmann sparisce di fronte alle cifre della vicenda che ha come protagonista la società Bremer Vulkan. Questa importante società di Brema, attiva nella cantieristica, tra il 1992 e il 1993 acquista dalla Treuhandanstalt cantieri e altre società tedesco orientali: la MTW Meerestechnik di Wismar, i cantieri Volkswerft Stralsund e le società Neptun Industrietechnik e Dieselmotorenwerk di Rostock. Le somme di danaro che a vario titolo fluiscono dalla Treuhandanstalt nelle casse della società acquirente sono considerevoli: si tratta di 3 miliardi e 472 milioni di marchi. Nel 1995 la società dell’Ovest fallisce. Non prima di aver trasferito dalle società dell’Est acquistate alla Bremer Vulkan qualcosa come 854 milioni di marchi, «per accentrare il cash-management» (cosa di cui la stessa presidente della Treuhandanstalt fu informata e cui acconsentì). Questo denaro servì per tentare di colmare i buchi della società dell’Ovest, e poi andò perduto irrimediabilmente nel fallimento della società. La Treuhandanstalt (e il suo successore, la BvS) sono finiti al centro delle polemiche per aver consentito lo storno di questi fondi destinati all’Est. E la Commissione Europea ha aperto una procedura contro il governo tedesco per aver permesso un tale abuso delle sovvenzioni pubbliche. I cantieri navali sono successivamente stati «ri-privatizzati» con ulteriore esborso di fondi pubblici (1 miliardo e 200 milioni). La riprivatizzazione della Dieselmotorenwerk di Rostock, invece, non è riuscita, e la Commissione Europea ha richiesto la restituzione di 118 milioni di aiuti, in quanto «distorsivi della concorrenza». Infine, il processo contro il presidente di Bremer Vulkan, Friedrich Hennemann, e altri 2 membri del consiglio di amministrazione, apertosi nel 1999, si è chiuso in modo farsesco. Dapprima, con una condanna a 2 anni per Hennemann comminata dal tribunale di Brema. Poi però la sentenza è stata annullata, ritenendo che il contratto stipulato da Hennemann con la Treuhandanstalt non prevedesse alcun divieto di utilizzare all’Ovest il denaro ricevuto. Non è stato, invece, annullato il licenziamento dei 15 mila lavoratori dei cantieri navali dell’Est coinvolti nel crack (Wenzel 2003: 33-34; Huhn 2009: 96-105; Huhn 2010: 64-69).

      Le storie da raccontare sarebbero davvero molte. Per il suo valore emblematico, merita di chiudere questo breve excursus la vicenda delle miniere di potassio dell’Est, riunite dalla Treuhandanstalt nella società Mitteldeutsche Kali (MdK) e vendute – su suggerimento dell’advisor Goldman Sachs, che ne stima il valore in 400 milionidi marchi (ma saranno vendute per 250 milioni) – al loro concorrente dell’Ovest controllato dalla Basf, la Kali+Salz di Kassel (K+S), all’epoca in gravi difficoltà economiche (non pagava più dividendi agli azionisti dal 1984). Viene quindi fondata una nuova società di cui il K+S acquisisce il 51 per cento, mentre alla Treuhand resta in mano il 49 per cento. Mentre la K+S non paga un marco (si limita ad apportare alla società le sue miniere), la Treuhand immette 1 miliardo di marchi nella società comune. Ma non è finita qui: l’accordo di fusione prevede infatti che la Treuhandanstalt ripianerà nei tre anni successivi gran parte delle perdite della società (precisamente il 90 per cento nei successivi 3 anni, nel quarto l’85 per cento e nel quinto l’80 per cento), «indipendentemente dalla loro causa». In questo modo chi ha il 49 per cento della società (la Treuhand) non si assumerà mai, per i successivi 5 anni, meno dell’80 per cento delle perdite, chi ne detiene il 51 per cento (K+S) non se ne assumerà mai più del 20 per cento. Chi non vorrebbe stipulare un contratto così vantaggioso?

      Nel 1993 la società decide di chiudere alcune miniere. Sono tutte all’Est. A questo punto, nella miniera di Bischofferode in Turingia, scoppia la protesta. Inizia lo sciopero della fame di alcuni lavoratori della miniera, che ricevono la solidarietà di numerosi esponenti del mondo intellettuale (tra loro l’allieva di Brecht e attrice Käthe Reichel). Ma soprattutto la loro lotta fa il giro della Germania. La scritta sugli striscioni che innalzano i manifestanti rappresenta uno dei più alti momenti di verità sulla vicenda dell’unificazione tedesca: «Non vogliamo essere solo consumatori, ma anche produttori!» A questi appelli la presidente della Treuhandanstalt, Birgit Breuel, risponde con la consueta dose di ideologia: «non si possono garantire ovunque posti di lavoro. Sarebbe la paralisi, sarebbe la morte, e sarebbe in ultima analisi il ritorno dell’economia pianificata». Nell’equivalenza stabilita tra piena occupazione ed economia pianificata si sarebbe tentati di vedere un’inconsapevole elogio del comunismo, ma la verità è che queste parole della Breuel sono consapevolmente mistificatrici. Perché tentano di sviare l’attenzione dal punto essenziale: ossia che non c’era alcun motivo economico generale per chiudere proprio le miniere dell’Est. Infatti, il potassio estratto a Bischofferode era di qualità migliore di quello prodotto all’Ovest. Tant’è vero che il 95 per cento della produzione del 1991 e l’88 per cento di quella del 1992 era stata esportata nei Paesi occidentali. Si trattava di uno dei pochi casi in cui le esportazioni dopo il 1989 erano cresciute e non diminuite (partendo oltretutto da una situazione precedente che già vedeva nella Rdt il secondo maggiore esportatore di potassio del mondo). Ma attenzione: gli acquirenti del potassio di Bischofferode erano i concorrenti della Basf, i quali con quel potassio, e solo con quello, attraverso uno speciale procedimento (il cosiddetto «metodo Mannheimer»), ottenevano dei fertilizzanti di qualità superiore a quello prodotto dalla Basf, che usava il potassio di K+S e adoperava un altro procedimento. Nel momento stesso in cui Bischofferode avesse cessato la produzione, non sarebbe stato più possibile utilizzare il metodo Mannheimer e si sarebbe dovuto acquistare il potassio dalla K+S. Ecco perciò il vero e unico motivo economico della chiusura: aumentare il potere di mercato di K+S e conseguire per questa via una rendita di monopolio. Cosa che K+S non avrebbe potuto conseguire se la MdK fosse stata venduta ad altre società, o se il contratto avesse consentito la vendita delle singole miniere che furono chiuse il 1° gennaio 1994 ai concorrenti di Basf (Wenzel 2003: 34-36; Huhn 2009: 31-67; Laabs 2012: 297-300; Köhler 2011: 57-92).

      Verosimilmente fu proprio questo il motivo per cui il contratto tra K+S e MdK fu segretato: così si espresse, tra gli altri, il direttore dello «Handelsblatt» in un durissimo editoriale (vedi Mundorf 1993). A tutt’oggi, il contratto non è stato reso noto. Tanto è vero che la Linke il 16 giugno 2013 ha presentato un’interrogazione parlamentare affinché, a distanza di 20 anni (!) dagli avvenimenti, esso sia finalmente reso pubblico. L’interrogazione contiene, sotto forma di domande, richieste di chiarimento su tutti i punti ancora non chiariti relativi a questa vicenda. Le domande sono 115 (Ramelow 2013).

Vladimiro Giacchè - Anschluss: l'annessione. L'unificazione della Germania e il futuro dell'Europa - Imprimatur - 2013

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