[..] (PDF) C'è pochissimo in economia che chiami in causa il
sovrannaturale. Ma c'è un fenomeno che è stato per molti una tentazione in
questo senso. Guardando un foglio rettangolare, spesso di mediocre qualità, che
raffigura un eroe nazionale o un monumento o un'immagine classica vagamente
ispirata a Pieter Paul Rubens o a Jacques-Louis David o un mercato di verdura
particolarmente ben fornito e stampato con inchiostro verde o marrone, essi (i
francesi ndr.) si sono posti questa domanda: perché una cosa che in sé è così
priva di valore deve essere così evidentemente desiderabile? Che cosa le dà, a
differenza di una simile massa di fibre ritagliata dal giornale di ieri, il
potere di ordinare merci, di assicurarsi servizi, di suscitare cupidigia, di
ispirare avarizia, di invitare al crimine? Deve certamente entrare in gioco un
elemento magico; ci deve essere una spiegazione metafisica o extraterrestre.
Abbiamo già accennato alla reputazione quasi sacerdotale e alla tendenza di
coloro che si occupano di moneta per professione. Esse sono in parte dovute al
fatto che si ritiene che sappiano a che cosa è dovuto il valore di un pezzo di
carta che in sé non ne ha alcuno.
La spiegazione è totalmente laica e la magia non c'entra. I
teorici della moneta hanno solitamente distinto tre tipi di valuta: 1) quella
che, come l'oro o l'argento, deve il suo valore a una desiderabilità intrinseca
derivata da riconosciuti servizi all'orgoglio del possesso, al prestigio della
proprietà, all'ornamento professionale, alla posateria o all'odontoiatria; 2)
quella che può essere automaticamente cambiata in qualcosa che abbia questa
desiderabilità intrinseca o che contenga, come i biglietti della baia di
Massachusetts, la promessa di tale convertibilità; 3) quella che in sé non vale
nulla e non contiene alcuna promessa di convertibilità in qualcosa di utile o
di desiderabile, ma è sostenuta, al più, dalla volontà dello Stato di farla
accettare. In realtà queste tre versioni sono solo delle varianti su un tema unico.
John Stuart Mill, come abbiamo visto, faceva dipendere il valore della moneta
dalla sua disponibilità in rapporto all'offerta di cose da acquistare. Se la
moneta era d'oro e d'argento, non era molto probabile, se non in casi
eccezionali di sovrabbondanza come per San Luis Potosi o il mulino di Sutter,
che la sua quantità aumentasse eccessivamente. Il suo limite intrinseco era la
sicurezza di una quantità limitata e quindi di un valore costante. La stessa garanzia
di offerta limitata valeva per la moneta cartacea interamente convertibile in
oro e in argento. O per quella che non poteva essere convertita in niente,
purché la sua emissione non superasse certi limiti. L'importante era la
scarsità, non la mancanza di valore intrinseca. Ma il guaio della carta era
che, una volta eliminata la convertibilità, non c'era nulla che potesse
limitarne l'offerta. Era dunque passibile di un aumento Illimitato che ne
avrebbe diminuito o annullato il valore. Il fatto che la carta in sé non valga
nulla è solo un particolare. Delle pietre estratte a caso dalla superficie
terrestre e divise In unità di una libbra o più non sarebbero molto indovinate La
loro disponibilità sarebbe infatti talmente grande da rendere insopportabile
anche il peso delle pietre necessarie per una piccola transazione. Ma quelle
estratte sulla luna e portate sulla terra, una volta divise e munite di debito
certificato sul loro peso e sulle loro origini, anche se geologicamente non
distinguibili dalle pietre terrestri, sarebbero invece una buona possibilità;
almeno fino a quando i viaggi sulla luna fossero ancora pochi e le rocce lunari
conservassero così la scarsità necessaria.
L'ingegnosità degli assignats
era nel bene in cui potevano essere convertiti, ed era la scarsità di questo
bene a conferire loro un valore. Non si trattava di oro o di argento, metalli
non disponibili in quantità sufficiente, poiché, come si può facilmente
immaginare, appartenevano in massima parte a coloro contro i quali era
scoppiata la Rivoluzione. E che di conseguenza erano stati nascosti o mandati o
portati all'estero. L'attività che fungeva da garanzia e da limite era la
terra, cioè proprio la cosa che la Rivoluzione rendeva disponibile e che ne era
stata, in buona parte, la causa. La terra non la si poteva nascondere. E non
poteva portarsela appresso neanche il più ingegnoso degli emigrati. Era inoltre
impossibile che ne aumentasse la quantità complessiva. Per questa ragione chi
era rimasto in Francia desiderava possederla come se fosse stato oro.
All'inizio la risorsa principale non era costituita dalle
terre degli aristocratici ma da quelle della Chiesa. Secondo le valutazioni più
diffuse, esse erano nel 1789 un quinto delle terre francesi. Gli Stati generali
erano stati convocati in seguito alla spaventosa pressione fiscale cui il regno
era soggetto. Non era possibile ottenere altri prestiti. E non esisteva una
banca centrale cui si potesse ordinare di indirne uno. Tutto dipendeva ancora
dalla disponibilità di mutuanti volonterosi o di persone che si potessero
convincere o costringere a fare il proprio dovere. Era difficile pensare che il
terzo stato acconsentisse a votare nuove o maggiori imposte quando i suoi
membri erano soprattutto preoccupati dalla severità repressiva di quelle che già
venivano riscosse. Così il 17 giugno 1789 l'Assemblea nazionale proclamò
illegali tutte le tasse, attenuando questa sbalorditiva decisione soltanto con
la clausola che sarebbe stato ancora possibile riscuoterle su base temporanea.
Intanto il ricordo di John Law rendeva i francesi ancora diffidenti di
fronte alla normale moneta cartacea: nel 1778 la proposta di un’emissione di
biglietti con interesse aveva suscitato una tale opposizione che si era dovuto
ritirarla. Ma un’emissione di biglietti convertibili in terra era un altro
discorso. Le proprietà immobiliari del clero furono un dono del cielo alla
Rivoluzione.
L’azione decisiva fu condotta il 19 dicembre 1789. Venne
autorizzata un’emissione di quattrocento milioni di lire che avrebbero, secondo
le promesse, “saldato il debito pubblico, stimolato l’agricoltura e l’industria
e assicurato alle terre una migliore amministrazione”. Questi biglietti, gli assignats, sarebbero stati
riconvertibili entro cinque anni, grazie alla vendita di un valore equivalente
in terre della Chiesa e della Corona. I primi assignats assicuravano un
interesse del 5 per cento e chiunque ne avesse posseduto a sufficienza poteva
scambiarli direttamente con delle terre. Nell’estate successiva si autorizzò
una nuova abbondante emissione, eliminando però l’interesse. In seguito ne
vennero emessi anche di taglio inferiore. Cominciarono così le perplessità. Si
citava ancora il nome di Law. Intervenne
persino un anonimo americano con un Advice
of the assignats by a citizens of the United States. Egli metteva in
guardia l’Assemblea contro gli assignats,
partendo dalle foconde esperienze del suo paese con i biglietti continentali. Comunque la reazione iniziale a questa valuta basata sulla terra fu
generalmente favorevole.
Se fosse stato possibile limitarli all’emissione originaria
o a quella del 1790, gli assignats
sarebbero passati alla storia come un’innovazione di singolare interesse. La
loro base non era l’oro, l’argento o il tabacco ma, solida e logica, la buona
terra di Francia. E nei primi anni il loro potere d’acquisto era rimasto
costante. Si parlava con ammirazione del fatto che gli assignats avevano messo in circolazione la terra. Si erano
incrementati gli affari, era aumentata l’occupazione ed erano state facilitate
le vendite delle terre appartenenti alla Chiesa e ad altri enti pubblici. In
certi casi, erano state anche vendute a prezzi troppo buoni. In rapporto con il
reddito annuo, i prezzi fissati erano infatti relativamente modesti: gli
speculatori che erano riusciti ad arraffare grandi quantità di assignats potevano approfittare di
queste occasioni.
Ma in Francia, come già in America, premevano con insistenza
le esigenze della Rivoluzione. Le terre erano limitate, ma si potevano
aumentare i diritti su di esse. Alla grande emissione del 1790 ne seguirono
altre, specialmente dopo il 1792, quando scoppiò la guerra. A questo punto i
prezzi indicati in assignats
cominciarono a salire, mentre diminuiva rapidamente il loro tasso di cambio in
oro e argento, operazione autorizzata a suo tempo dall’Assemblea. Nel 1793 e
1794, con la Convenzione e la gestione finanziaria di Cambon, ci fu un periodo
di stabilità. Si stabilirono anche calmieri con un certo successo. E, cosa
potenzialmente anche più importante, l’offerta degli assignats venne ridotta con la brillante trovata di invalidare
quelli che erano stati emessi durante la monarchia. In quegli anni, se cambiati
in oro o argento, avevano ancora un valore pari al 50 per cento circa del
nominale. Ma ben presto si tornò in una situazione di emergenza. E si
stamparono sempre più assignats. Dopo
il 1793, prendendo un’iniziativa del tutto nuova nel campo della guerra economica,
Pitt autorizzò i monarchici emigrati a stampare assignats da esportare in Francia. Sperava così di accelerale lo
sfacelo. Finì che i torchi francesi stampavano oggi ciò che serviva per le
necessità dell’indomani. Ben presto il Direttorio sospese la convertibilità in
terre di questi biglietti ormai quasi del tutto senza valore e la Francia
dovette abbandonare il sistema a base fondiaria. Si riuscì però a proteggere i
creditori dal pericolo di essere rimborsati con assignats. Questo, se non
altro, li salvò dall’ignominia di doversi nascondere (come era avvenuto in
America) ai loro debitori. Una nuova valuta cartacea, mandats territoriaux, anch’essa con diritto al possesso di terre,
fu accolta, non sorprendentemente, con aperta ostilità. Nel febbraio 1797 (il
16 Piovoso dell'anno V) il Direttorio tornò all'oro e all'argento. Ma ormai la
Rivoluzione era un fatto compiuto. Era stata finanziata grazie agli assignats. Che di conseguenza meritano
di essere ricordati almeno quanto la ghigliottina.
John K. Galbrait - Soldi - BUR - 2013
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