lunedì 6 giugno 2016

La moneta cartacea al tempo della Rivoluzione Francese

[..] (PDF) C'è pochissimo in economia che chiami in causa il sovrannaturale. Ma c'è un fenomeno che è stato per molti una tentazione in questo senso. Guardando un foglio rettangolare, spesso di mediocre qualità, che raffigura un eroe nazionale o un monumento o un'immagine classica vagamente ispirata a Pieter Paul Rubens o a Jacques-Louis David o un mercato di verdura particolarmente ben fornito e stampato con inchiostro verde o marrone, essi (i francesi ndr.) si sono posti questa domanda: perché una cosa che in sé è così priva di valore deve essere così evidentemente desiderabile? Che cosa le dà, a differenza di una simile massa di fibre ritagliata dal giornale di ieri, il potere di ordinare merci, di assicurarsi servizi, di suscitare cupidigia, di ispirare avarizia, di invitare al crimine? Deve certamente entrare in gioco un elemento magico; ci deve essere una spiegazione metafisica o extraterrestre. Abbiamo già accennato alla reputazione quasi sacerdotale e alla tendenza di coloro che si occupano di moneta per professione. Esse sono in parte dovute al fatto che si ritiene che sappiano a che cosa è dovuto il valore di un pezzo di carta che in sé non ne ha alcuno.

La spiegazione è totalmente laica e la magia non c'entra. I teorici della moneta hanno solitamente distinto tre tipi di valuta: 1) quella che, come l'oro o l'argento, deve il suo valore a una desiderabilità intrinseca derivata da riconosciuti servizi all'orgoglio del possesso, al prestigio della proprietà, all'ornamento professionale, alla posateria o all'odontoiatria; 2) quella che può essere automaticamente cambiata in qualcosa che abbia questa desiderabilità intrinseca o che contenga, come i biglietti della baia di Massachusetts, la promessa di tale convertibilità; 3) quella che in sé non vale nulla e non contiene alcuna promessa di convertibilità in qualcosa di utile o di desiderabile, ma è sostenuta, al più, dalla volontà dello Stato di farla accettare. In realtà queste tre versioni sono solo delle varianti su un tema unico. John Stuart Mill, come abbiamo visto, faceva dipendere il valore della moneta dalla sua disponibilità in rapporto all'offerta di cose da acquistare. Se la moneta era d'oro e d'argento, non era molto probabile, se non in casi eccezionali di sovrabbondanza come per San Luis Potosi o il mulino di Sutter, che la sua quantità aumentasse eccessivamente. Il suo limite intrinseco era la sicurezza di una quantità limitata e quindi di un valore costante. La stessa garanzia di offerta limitata valeva per la moneta cartacea interamente convertibile in oro e in argento. O per quella che non poteva essere convertita in niente, purché la sua emissione non superasse certi limiti. L'importante era la scarsità, non la mancanza di valore intrinseca. Ma il guaio della carta era che, una volta eliminata la convertibilità, non c'era nulla che potesse limitarne l'offerta. Era dunque passibile di un aumento Illimitato che ne avrebbe diminuito o annullato il valore. Il fatto che la carta in sé non valga nulla è solo un particolare. Delle pietre estratte a caso dalla superficie terrestre e divise In unità di una libbra o più non sarebbero molto indovinate La loro disponibilità sarebbe infatti talmente grande da rendere insopportabile anche il peso delle pietre necessarie per una piccola transazione. Ma quelle estratte sulla luna e portate sulla terra, una volta divise e munite di debito certificato sul loro peso e sulle loro origini, anche se geologicamente non distinguibili dalle pietre terrestri, sarebbero invece una buona possibilità; almeno fino a quando i viaggi sulla luna fossero ancora pochi e le rocce lunari conservassero così la scarsità necessaria.

L'ingegnosità degli assignats era nel bene in cui potevano essere convertiti, ed era la scarsità di questo bene a conferire loro un valore. Non si trattava di oro o di argento, metalli non disponibili in quantità sufficiente, poiché, come si può facilmente immaginare, appartenevano in massima parte a coloro contro i quali era scoppiata la Rivoluzione. E che di conseguenza erano stati nascosti o mandati o portati all'estero. L'attività che fungeva da garanzia e da limite era la terra, cioè proprio la cosa che la Rivoluzione rendeva disponibile e che ne era stata, in buona parte, la causa. La terra non la si poteva nascondere. E non poteva portarsela appresso neanche il più ingegnoso degli emigrati. Era inoltre impossibile che ne aumentasse la quantità complessiva. Per questa ragione chi era rimasto in Francia desiderava possederla come se fosse stato oro.

All'inizio la risorsa principale non era costituita dalle terre degli aristocratici ma da quelle della Chiesa. Secondo le valutazioni più diffuse, esse erano nel 1789 un quinto delle terre francesi. Gli Stati generali erano stati convocati in seguito alla spaventosa pressione fiscale cui il regno era soggetto. Non era possibile ottenere altri prestiti. E non esisteva una banca centrale cui si potesse ordinare di indirne uno. Tutto dipendeva ancora dalla disponibilità di mutuanti volonterosi o di persone che si potessero convincere o costringere a fare il proprio dovere. Era difficile pensare che il terzo stato acconsentisse a votare nuove o maggiori imposte quando i suoi membri erano soprattutto preoccupati dalla severità repressiva di quelle che già venivano riscosse. Così il 17 giugno 1789 l'Assemblea nazionale proclamò illegali tutte le tasse, attenuando questa sbalorditiva decisione soltanto con la clausola che sarebbe stato ancora possibile riscuoterle su base temporanea. Intanto il ricordo di John Law rendeva i francesi ancora diffidenti di fronte alla normale moneta cartacea: nel 1778 la proposta di un’emissione di biglietti con interesse aveva suscitato una tale opposizione che si era dovuto ritirarla. Ma un’emissione di biglietti convertibili in terra era un altro discorso. Le proprietà immobiliari del clero furono un dono del cielo alla Rivoluzione.

L’azione decisiva fu condotta il 19 dicembre 1789. Venne autorizzata un’emissione di quattrocento milioni di lire che avrebbero, secondo le promesse, “saldato il debito pubblico, stimolato l’agricoltura e l’industria e assicurato alle terre una migliore amministrazione”. Questi biglietti, gli assignats, sarebbero stati riconvertibili entro cinque anni, grazie alla vendita di un valore equivalente in terre della Chiesa e della Corona. I primi assignats assicuravano un interesse del 5 per cento e chiunque ne avesse posseduto a sufficienza poteva scambiarli direttamente con delle terre. Nell’estate successiva si autorizzò una nuova abbondante emissione, eliminando però l’interesse. In seguito ne vennero emessi anche di taglio inferiore. Cominciarono così le perplessità. Si citava ancora il nome di Law. Intervenne persino un anonimo americano con un Advice of the assignats by a citizens of the United States. Egli metteva in guardia l’Assemblea contro gli assignats, partendo dalle foconde esperienze del suo paese con i biglietti continentali. Comunque la reazione iniziale a questa valuta basata sulla terra fu generalmente favorevole.

Se fosse stato possibile limitarli all’emissione originaria o a quella del 1790, gli assignats sarebbero passati alla storia come un’innovazione di singolare interesse. La loro base non era l’oro, l’argento o il tabacco ma, solida e logica, la buona terra di Francia. E nei primi anni il loro potere d’acquisto era rimasto costante. Si parlava con ammirazione del fatto che gli assignats avevano messo in circolazione la terra. Si erano incrementati gli affari, era aumentata l’occupazione ed erano state facilitate le vendite delle terre appartenenti alla Chiesa e ad altri enti pubblici. In certi casi, erano state anche vendute a prezzi troppo buoni. In rapporto con il reddito annuo, i prezzi fissati erano infatti relativamente modesti: gli speculatori che erano riusciti ad arraffare grandi quantità di assignats potevano approfittare di queste occasioni.


Ma in Francia, come già in America, premevano con insistenza le esigenze della Rivoluzione. Le terre erano limitate, ma si potevano aumentare i diritti su di esse. Alla grande emissione del 1790 ne seguirono altre, specialmente dopo il 1792, quando scoppiò la guerra. A questo punto i prezzi indicati in assignats cominciarono a salire, mentre diminuiva rapidamente il loro tasso di cambio in oro e argento, operazione autorizzata a suo tempo dall’Assemblea. Nel 1793 e 1794, con la Convenzione e la gestione finanziaria di Cambon, ci fu un periodo di stabilità. Si stabilirono anche calmieri con un certo successo. E, cosa potenzialmente anche più importante, l’offerta degli assignats venne ridotta con la brillante trovata di invalidare quelli che erano stati emessi durante la monarchia. In quegli anni, se cambiati in oro o argento, avevano ancora un valore pari al 50 per cento circa del nominale. Ma ben presto si tornò in una situazione di emergenza. E si stamparono sempre più assignats. Dopo il 1793, prendendo un’iniziativa del tutto nuova nel campo della guerra economica, Pitt autorizzò i monarchici emigrati a stampare assignats da esportare in Francia. Sperava così di accelerale lo sfacelo. Finì che i torchi francesi stampavano oggi ciò che serviva per le necessità dell’indomani. Ben presto il Direttorio sospese la convertibilità in terre di questi biglietti ormai quasi del tutto senza valore e la Francia dovette abbandonare il sistema a base fondiaria. Si riuscì però a proteggere i creditori dal pericolo di essere rimborsati con assignats. Questo, se non altro, li salvò dall’ignominia di doversi nascondere (come era avvenuto in America) ai loro debitori. Una nuova valuta cartacea, mandats territoriaux, anch’essa con diritto al possesso di terre, fu accolta, non sorprendentemente, con aperta ostilità. Nel febbraio 1797 (il 16 Piovoso dell'anno V) il Direttorio tornò all'oro e all'argento. Ma ormai la Rivoluzione era un fatto compiuto. Era stata finanziata grazie agli assignats. Che di conseguenza meritano di essere ricordati almeno quanto la ghigliottina.

John K. Galbrait - Soldi - BUR - 2013

Nessun commento:

Posta un commento