giovedì 23 giugno 2016

A.Graziani - Dopoguerra e Ricostruzione ( 1945-55 )

(PDFLa lotta contro l'inflazione

I termini del dibattito

Le linee di fondo che il capitalismo italiano si apprestava a percorrere risultavano fissate con sufficiente chiarezza nei dibattiti che abbiamo riferito. Sul piano politico, svuotamento progressivo degli embrioni di controllo operaio sulla gestione dell'economia e riconduzione delle organizzazioni dei lavoratori entro i binari tradizionali dell'attività sindacale, confinata al piano meramente salariale; sul piano della struttura generale del sistema economico accantonamento dell'idea della pianificazione, abolizione progressiva dei controlli, ritorno a una piena economia di mercato; sul piano delle linee concrete di politica economica, scelta decisa dell'obiettivo di integrazione europea, attenzione primaria dedicata alla ristrutturazione industriale e al rammodernamento produttivo, e politica di severo contenimento salariale. Vista in questa chiave, quella che usualmente viene considerata politica della congiuntura e che viene spiegata ricordando esigenze transitorie e accidentali, acquista invece un significato strutturale di raggio assai più vasto.
Su questi aspetti, il dissenso fra le due linee, quella della sinistra riformatrice e quella della destra liberista, era profondo. Le sinistre avevano una visione coerente, che legava in una manovra unitaria il controllo della moneta, dei cambi, dei salari e delle imposte. Veniva in primo luogo il problema del finanziamento della ricostruzione. Qui le sinistre chiedevano l'applicazione di una politica fiscale rigorosa e l'introduzione di un’imposta straordinaria sul patrimonio, in modo da prelevare potere d'acquisto presso le classi più abbienti. Al tempo stesso, le sinistre chiedevano che i salari venissero tutelati controllando l'inflazione; e, per controllare l'inflazione ed evitare che questa redistribuisse troppo violentemente il reddito a danno dei redditi da lavoro e a favore dei profitti, proponevano due misure: a) anzitutto tenere in vita il razionamento dei generi di consumo, per assicurare un reddito reale minimo  distribuito in natura all’intera popolazione; b) effettuare  un cambio della moneta. Questa seconda operazione era destinata non solo ad ridurre la circolazione, sì da combattere l'inflazione, ma era anche intesa come mezzo tecnico per applicare un'imposta sulle giacenze liquide, di cui si sarebbe dovuta trattenere una quota al momento della conversione dei biglietti di banca. Era infatti opinione diffusa che buona parte dei profitti guadagnati da speculatori assumesse la forma di riserve liquide e che un'imposta straordinaria applicata al momento del cambio della moneta avrebbe svolto anche il ruolo di imposta sui profitti.
Veniva in secondo luogo il problema dell’utilizzazione dei fondi disponibili per la ricostruzione. Su questo punto, le sinistre, oltre a richiedere la nazionalizzazione dei colossi dell'industria, proponevano il controllo dei cambi, controllo che avrebbe consentito di amministrare le risorse importate dall'estero, che in quella fase rappresentavano un elemento chiave. La valuta estera disponibile era scarsa, dal momento che scarsa era la capacità di esportazione dell'industria italiana e altissimo il fabbisogno di importazioni, specie di materie prime. La valuta disponibile andava quindi amministrata con parsimonia e convogliata verso i settori più bisognevoli di aiuti per la ricostruzione e più rilevanti ai fini della ripresa delle attività produttive. Liberalizzare i cambi significava viceversa lasciare la valuta nelle mani degli esportatori, e rinunciare implicitamente a qualsiasi controllo sulla natura delle importazioni e, in ultima analisi, anche sul processo di ricostruzione dell’industria nazionale.
Il punto di vista della destra su questi problemi era radicalmente diverso. Anche le  destre tracciavano una linea compiuta e coerente, ma partivano da principi opposti, che erano quelli dell'economia di mercato. Un primo caposaldo era l’idea che l'inflazione dipendesse esclusivamente da un eccesso di spesa pubblica: su questo punto Einaudi era fermissimo e lottava strenuamente per una politica di riassestamento delle finanze dello Stato. Da un lato, si raccomandava quindi il massimo rigore nello stanziamento di fondi pubblici, anche se ciò comportava palesemente una limitazione di quelle opere pubbliche che risultavano vitali per il processo di ricostruzione; dall'altro, si riaffermava una politica di espansione delle entrate, facendo leva sia sulla finanza ordinaria sia su quella straordinaria: prestiti pubblici e imposta straordinaria sul patrimonio, unico punto, quest'ultimo, sul quale anche Einaudi e Corbino si trovavano concordi con le sinistre. Le destre erano invece contrarie al cambio della moneta.
Secondo Corbino, il cambio della moneta andava considerato non solo inefficace contro l'inflazione, ma anche dannoso perché avrebbe ridotto ulteriormente la fiducia del pubblico nella moneta e reso ancora più instabile l'equilibrio monetario. Una volta riportato all'equilibrio il bilancio dello Stato, e quindi arrestata l’inflazione, le destre sostenevano che si sarebbe potuto porre il problema di reperire le risorse per la ricostruzione facendo appello alla classe lavoratrice chiedendo una linea di contenimenti salariale e di sacrifici. Quanto all'utilizzazione delle risorse per la ricostruzione, per le destre non vi erano problemi: si sarebbe dovuto smantellare al più presto ogni residuo di controlli amministrativi, perché soltanto un mercato libero avrebbe assicurato un uso efficiente delle risorse produttive. Si ricordavano inoltre tutti gli inconvenienti che ogni controllo porta con sé, il peso della burocrazia che sarebbe stato necessario tenere in vita, la tendenza alla corruzione che í controlli avrebbero stimolato, le contrattazioni di mercato nero che sarebbero sorte e che avrebbero annullato i vantaggi del razionamento.
In questo quadro, le destre erano, inutile dirlo, contrarie anche al controllo dei cambi. Era infatti convinzione radicata dei teorici dell'economia di mercato che affidando il corso delle valute alle contrattazioni libere degli operatori, e assegnando le valute estere disponibili a chi offriva di pagarle al prezzo più alto, sarebbero state automaticamente assegnate a chi sapeva farne l'uso più produttivo, e, in tal modo, le scarse importazioni possibili sarebbero state utilizzate nel modo più efficiente per la ricostruzione.

Inflazione e cambio della moneta

Il conflitto fra le due linee si risolse ben presto a favore della linea liberista. Nel giugno del 1945 venne costituito il primo governo dell'Italia unita dopo la Liberazione. Esso fu presieduto da Ferruccio Parri e vide il comunista Scoccimarro al ministero delle Finanze, mentre il ministero del Tesoro andò al conservatore Soleri (poi sostituito da Ricci). Governatore della Banca d'Italia era Luigi Einaudi. Il governo trovava una situazione di inflazione ormai dilagante. Durante gli anni di guerra, l'inflazione era stata contenuta, almeno in parte, e soltanto alla fine delle ostilità l'aumento dei prezzi era divenuto vorticoso. L'indice dei prezzi all'ingrosso, su base 1938 = 100, nel 1944 era pari a 858, e doveva salire ancor più velocemente negli anni seguenti, toccando il livello 2060 nel 1945, 2884 nel 1946, 5159 nel 1947. La fine della guerra aveva portato con sé non soltanto la fine dei meccanismi che in precedenza erano stati messi in opera per sottrarre liquidità al settore privato (quali le collocazioni forzate di titoli pubblici presso banche e privati), ma anche l'immissione di moneta cartacea da parte delle autorità militari alleate, immissioni sulle quali le autorità monetarie italiane non avevano alcun controllo. A partire dal giugno 1943, quando era cominciata l'occupazione delle regioni '91' meridionali, e fino al febbraio 1946, le autorità militari alleate emisero moneta a corso legale (le Allied Military Notes, o «amlire»), utilizzate per il pagamento degli stipendi ai militari e per l'acquisto di beni e servizi nei territori occupati. Era chiaro che immissioni di mezzi di pagamento così cospicue non potevano che provocare pressioni inflazionistiche violente. All'inizio, l'emissione di amlire venne effettuata senza alcuna contropartita per l'economia italiana, quasi una sorta di imposta fatta gravare sul paese sconfitto, e commisurata di volta in volta al fabbisogno delle truppe occupanti. Fu soltanto nel marzo 1945 che gli Stati Uniti, seguiti dal Canada, concessero al governo italiano aiuti supplementari (per 140 milioni di dollari) intesi come controvalore (counterpart funds) delle emissioni di amlire. In tal modo, almeno parte delle emissioni venne recuperata sotto forma di importazioni.
Un ulteriore fattore di inflazione fu costituito, secondo numerosi osservatori, dal cambio fra lira e dollaro che le autorità militari fissarono in ragione di 100 lire per un dollaro (quattrocento per una sterlina). Questo livello del cambio rappresentava un brusco adeguamento rispetto al cambio prebellico, che era stato di 19 lire per un dollaro, e integrava una svalutazione implicita di oltre cinque volte, misura che non pochi ritennero eccessiva rispetto alla perdita di potere d'acquisto verificatasi fra il 1938 8e il 1943. A tale sottovalutazione iniziale della lira molti attribuirono in buona parte l'origine dell'inflazione. È certo che un cambio più basso avrebbe significato  un minore potere d'acquisto per le truppe occupanti, e quindi avrebbe comportato una spinta inflazionistica più tenue. Ma è anche certo che se la politica monetaria delle forze militari alleate era un fattore di inflazione, essa lo era assai più attraverso le emissioni incontrollate di amlire che non a causa della sottovalutazione iniziale della lira.
Il governo Parri, che fin dall’inizio nasceva con un programma economico piuttosto limitato, pose in primo piano la decisione di effettuare cambio della moneta, come misura di lotta all'inflazione e di rastrellamento dei profitti speculativi.
In un primo momento, il piano per il cambio della moneta ebbe l'appoggio degli esperti angloamericani (Ellwood 1977, 337). Operazioni di cambio della moneta erano state effettuate in Norvegia, in Grecia, nel Belgio, in Corsica e in altri paesi ancora. Ma gradualmente, le autorità militari alleate si andarono distaccando dall'idea, anche a causa delle argomentazioni martellanti di Corbino.
Il piano per il cambio della moneta venne approntato dalla Banca d'Italia e l'operazione fissata per il marzo 1946. Questa lentezza di attuazione, che indeboliva in partenza l'efficacia della manovra, scaturiva dai contrasti che l'operazione suscitava all'interno della compagine governativa. Avversario feroce della manovra era Corbino, che la considerava imitazione tardiva delle esperienze della Francia e del Belgio, la dichiarava controproducente e le riconosceva una funzione meramente materiale e tecnica di cambio delle unità di conto. In queste condizioni, l'unico provvedimento contro l'inflazione che il governo Parri riuscì a prendere fu quello di estendere alle regioni del Nord, ora liberate, il prestito della Liberazione, che era stato lanciato nell'aprile 1945 dal prece ente governo Bonomi.  Nel novembre 1945, Parri si dimise e fu sostituito da De Gasperi, che nel formare il nuovo governo affidò il dicastero del Tesoro proprio a Corbino, dando così a intendere la propria avversità all'operazione di cambio della moneta. Scoccimarro, rimasto ministro delle Finanze, ripropose il cambio della moneta nel programma di governo, insieme all'introduzione di un'imposta progressiva sul patrimonio e all'avocazione dei profitti di guerra. Alle richieste di Scoccimarro, restato peraltro solo nell'ambito del governo a sostenere il cambio della moneta, venivano opposte continue difficoltà e richiesti nuovi rinvii. Si scoprì infine che le matrici apprestate per stampare i nuovi biglietti erano state trafugate e che la Banca d'Italia non riteneva di poter distribuire alle sedi provinciali i quantitativi di valuta necessaria, a causa della scarsa sicurezza dei trasporti. Dell'operazione di cambio non si parlò più. Del resto, anche se essa fosse stata realizzata, i suoi effetti non sarebbero stati più quelli che si sarebbero potuti ottenere un anno prima.

Cambi esteri e aiuti internazionali

La sconfitta subita dalle sinistre sul tema del cambio della moneta doveva ripercuotersi inevitabilmente sull'intera politica economica del governo. Con il 1946, cominciò la politica di liberalizzazione progressiva e di abolizione graduale dei controlli, a cominciare dal controllo del corso dei cambi Fino a quel momento, il cambio ufficiale era rimasto al livello iniziale di 100 lire per un dollaro, con un regime di rigorosa assegnazione delle valute agli importatori. Le pressioni degli esportatori si esercitavano ovviamente in direzione opposta. In prima linea si trovavano i tessili, che godevano di una posizione di favore sui mercati internazionali e che, riuscendo a sviluppare le proprie esportazioni con particolare successo, desideravano disporre liberamente sui mercati di importazione della valuta estera di cui venivano in possesso.
Nel marzo e nell'aprile 1946, con due decreti successivi, vennero prese misure che servirono in parte a soddisfare le esigenze degli esportatori. In primo luogo, venne concesso agli esportatori un premio di esportazione di 125 lire per ogni dollaro; questo equivaleva a portare il cambio per gli esportatori da 100 a 225 lire. Si trattò di una misura ragionevole nella sostanza, in quanto la svalutazione facilitava le esportazioni (alcuni ritennero che, data la rigidità della domanda internazionale, le esportazioni si sarebbero sviluppate anche senza svalutazione, e giudicarono negativamente questo provvedimento); fu anche una misura realistica, in quanto la lira si era effettivamente svalutata considerevolmente anche sul mercato interno. In secondo luogo, con provvedimento assai criticabile, si concesse agli esportatori la libera disponibilità del 50 per cento della valuta ricavata dalle esportazioni. Metà della valuta poteva quindi essere commerciata su un mercato libero (che venne detto mercato parallelo), mentre l'altra metà doveva essere ceduta all'Ufficio italiano dei cambi, al prezzo ufficiale. Il mercato parallelo registrava automaticamente la svalutazione progressiva della lira e, altrettanto automaticamente, le aspettative di inflazione degli operatori, con tutte le caratteristiche speculative accennate in precedenza. Il corso su tale mercato era inoltre necessariamente più elevato del cambio di equilibrio, in quanto il cambio di equilibrio doveva risultare da una media fra cambio libero e cambio ufficiale fissato a 225 lire. Il regime dei cambi diveniva così piuttosto complesso, come tutti i sistemi basati su cambi multipli. Esistevano simultaneamente fino a quattro prezzi del dollaro: il cambio ufficiale di 100 lire, per spese dei turisti e rimesse degli emigranti; il cambio commerciale di 225 lire, che si applicava alla metà dei proventi delle esportazioni; il cambio libero, che si applicava al rimanente 50 per cento, e che fluttuava giorno per giorno; infine il cambio stipulato volta per volta negli accordi commerciali con singoli paesi.
Nel luglio 1946, dopo l'espletamento del referendum istituzionale e le elezioni per l'Assemblea costituente, si formò un secondo governo De Gasperi. In quei mesi, sembrava che l'inflazione avesse subito una battuta d'arresto: fra l'aprile e il settembre l'indice dei prezzi all'ingrosso rimase pressoché stazionario. Le autorità economiche continuarono tuttavia nella politica contenimento della spesa pubblica e di limitazione delle opere pubbliche, indipendentemente dall'utilità che queste potessero avere per il processo di ricostruzione; e, al tempo stesso, nella convinzione che, contrariamente alla spesa pubblica, l'investimento privato non esercitasse alcun influsso inflazionistico, lasciavano crescere il flusso di liquidità a favore del settore privato e consentivano l'espansione incontrollata del credito bancario. A loro modo di vedere, la spesa pubblica era mera «creazione di biglietti», mentre il credito al settore privato avrebbe alimentato la produzione e ridotto la scarsità di prodotti sul mercato. Coerentemente con questa visione, la politica governativa continuava nella abolizione progressiva dei controlli, sostenuta in questo da Corbino che, come ministro del Tesoro, attuava gradualmente il suo programma di liberalizzazione dell'economia. Nel mondo della produzione soltanto il carbone e pochissime altre materie prime rimasero soggette ad assegnazione, senza peraltro che vi fossero ulteriori controlli sulle utilizzazioni successive, il che favoriva il fiorire del mercato nero e della speculazione. Con la motivazione di coprire la spesa_pubblica, venne allora lanciato un nuovo prestito pubblico detto della Ricostruzione. Al fine di assicurarne la sottoscrizione, fu però necessario incoraggiare l'intervento delle banche, le quali ottennero ammontare cospicui di liquidità dalla Banca d'Italia. Accadde così che il prestito invece di raccogliere liquidità giacente presso il pubblico, come era accaduto con il precedente prestito della Liberazione, ebbe l'effetto di immettere liquidità fresca nel circuito monetario. L'inflazione riprese vorticosa.
In questa linea di azione, rientrava con coerenza l'idea che gli aiuti esteri dovessero essere utilizzati anzitutto per accrescere le riserve valutarie e consolidare la posizione della lira, piuttosto che per accelerare il processo di ricostruzione. Nei primi anni del dopoguerra l’Italia ricevette aiuti attraverso l'organizzazione dell'Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), emanazione delle Nazioni Unite. Tali aiuti consistettero soprattutto in sussidi alimentari, ma in un momento successivo presero anche la forma di mezzi di produzione che venivano ceduti a imprenditori privati, mentre il governo italiano tratteneva il ricavato. Nel 1948, agli aiuti di carattere internazionale somministrati dalle Nazioni Unite si sostituirono gli aiuti forniti direttamente dagli Stati Uniti con il Piano Erp (European Recovery Program). Questo prese avvio dal discorso pronunciato il 5 giugno 1947 alla Harvard University dall'allora segretario di Stato Marshall, il quale lanciò l'idea di un vasto intervento in aiuto dei paesi europei, allo scopo di accelerare la ricostruzione e la ripresa postbellica. Era chiaro che ciò rispondeva all’esigenze dell’economia statunitense, che in tal modo si metteva al riparo da un’eventuale crisi economica conseguente alla fine delle delle spese belliche; ed era anche chiaro che, con questo programma di aiuti venivano  a creare un rapporto specifico fra paesi europei e Stati Uniti d'America, cosa questa che determinò un immediato raffreddamento del Partito comunista italiano nei confronti degli aiuti. stessi. Nell'aprile 1948, il Congresso americano approvò il programma, e nel giugno successivo l'Italia sottoscrisse il protocollo di accettazione. Con il Piano Erp (più comunemente noto come Piano Marshall) venivano forniti prestiti e contributi ai paesi europei; gli importatori acquistavano le merci loro occorrenti pagandole direttamente al governo italiano, il quale diventava titolare di un fondo lire, che avrebbe potuto utilizzare a scopi di ricostruzione. Ma, come_dicevamo, specialmente agli inizi, il fondo lire venne utilizzato soprattutto per accrescere le riserve valutarie  (che  infatti nel corso del 1948 passarono da 70 a 440 milioni di dollari). A questa utilizzazione si opponevano gli esperti inviati per assistere l'Italia nell'applicazione del piano; costoro premevano per una utilizzazione dei fondi che alleviasse il problema della disoccupazione, nel timore che i disagi da questa provocati potessero ulteriormente rafforzare il Partito comunista. Soltanto nel 1949, quando il programma di ristrutturazione dell'industria italiana venne avviato concretamente, si notò una utilizzazione del fondo lire a scopi produttivi, e si ebbe un accrescimento sostanziale delle importazioni di macchinari e di materie prime. Vennero al tempo stesso approvati alcuni importanti interventi di spesa pubblica: la legge Tupini, destinata a finanziare le opere pubbliche eseguite dai Comuni, e la legge Fanfani per la costruzione di alloggi per i lavoratori. Nel 1959, come diremo, vennero avviati i primi massicci interventi a favore del Mezzogiorno.

Augusto Graziani - Lo Sviluppo dell'Economia Italiana

giovedì 16 giugno 2016

Le idee cardine della Costituzione italiana

 di Norberto Bobbio (PDF)


Il testo qui proposto è stato scritto dall'autore come introduzione allo studio della Costituzione Italiana per un testo scolastico, in adozione negli anni 1980.
Bobbio mostra come la nostra Costituzione sia la risultante, nei suoi principi ispiratori, di quattro "idee cardinali" maturate nella cultura giuridica della vecchia Europa.

A. L'idea liberale

L'idea fondamentale del liberalismo è che l'individuo ha un valore assoluto, indipendentemente dalla società e dallo Stato di cui fa parte, e che pertanto lo Stato è il prodotto di un libero accordo tra gli individui (contrattualismo). Il liberalismo nasce dalla crisi della concezione autoritaria e gerarchica della società, propria del pensiero medioevale. Si afferma in un primo tempo nel corso delle guerre di religione - soprattutto per opera delle sette  non conformiste che affermano i diritti della coscienza individuale contro la supremazia delle Chiese organizzate e contro gli Stati confessionali -, come liberalismo religioso, cioè come affermazione della libertà religiosa, ovvero della libertà di credere secondo coscienza e non per imposizione. Nell'organizzazione della società, il frutto più alto del liberalismo religioso è il principio di tolleranza, secondo cui nessuno deve essere perseguitato a causa della propria professione di fede. Il liberalismo si sviluppa poi nelle idee dei primi teorici dell'economia e in genere nei pensatori illuministi come liberalismo economico, cioè come affermazione del diritto dell'individuo ad essere affrancato dai vincoli alla disposizione e alla circolazione dei beni d'origine feudale, a cui si erano sovrapposti, durante il periodo della monarchia assoluta, i vincoli derivanti dal protezionismo statale (mercantilismo), e a svolgere la propria iniziativa nel campo dell'economia, secondo le proprie capacità e non seguendo altra regola che quella del proprio interesse individuale sino al limite in cui questo non contrasta con l'interesse altrui. Alla concezione liberale della vita economica è connessa l'idea di concorrenza e quindi della lotta disciplinata dal diritto, come metodo di convivenza e pungolo del progresso sociale. L'idea liberale trova infine la sua conclusione nel liberalismo politico, la cui patria è l'Inghilterra, ossia una determinata concezione dello Stato, nella concezione appunto dello Stato Liberale: secondo questa concezione, il fine dello Stato non è già un fine positivo, di provvedere, ad esempio, al bene comune, di rendere i sudditi moralmente migliori, o più saggi, o più felici, o più ricchi, ma è il fine negativo di rimuovere gli ostacoli che impediscono al cittadino di migliorare moralmente, di diventare più saggio, più felice, più ricco, secondo le proprie capacità e a proprio talento.
Contro lo Stato assoluto, in cui il sovrano, ha un potere senza limiti giuridici, cioè legibus solutus, lo Stato liberale è uno Stato limitato, cioè uno Stato in sui si tende ad eliminare il più possibile gli abusi del potere, e quindi a garantire la libertà dei cittadini dall'ingerenza dei pubblici poteri. Questi limiti derivano, in sede di principio, dai compiti ristretti che vengono attribuiti allo Stato, inteso come arbitro nella gara degli interessi individuali e non come promotore esso stesso di interessi comuni. Rispetto alla struttura giuridica i limiti del potere dello Stato vengono posti mediante due istituzioni caratteristiche: anzitutto mediante il riconoscimento che esistono diritti naturali dell'individuo anteriori al sorgere dello Stato, che lo Stato non può violare, anzi deve garantire nel loro libero esercizio (dottrina del diritto naturale); in secondo luogo, mediante l'organizzazione delle funzioni principali dello Stato, in modo che esse non vengano esercitate dalla stessa persona o dallo stesso organo (come accadeva nelle monarchie assolute), ma da diverse persone o organi in uno o altro modo cooperanti (dottrina della separazione e dell'equilibrio dei poteri).

B. L'idea democratica

Mentre il liberalismo ha per principio ispiratore la libertà individuale, il principio ispiratore dell'idea democratica è l'eguaglianza. Liberalismo e democrazia non sempre si possono facilmente distinguere, perché rappresentano due momenti della stessa lotta contro lo Stato assoluto. Il quale, come Stato senza limiti, offende la libertà, ma, come Stato fondato sul rango, sui privilegi di ceto, sulla distinzione dei cittadini in diversi stati con diversi diritti e doveri, offende l'eguaglianza. Ciononostante sono due momenti distinti, e spesso nella storia costituzionale, appaiono contrapposti, anche se oggi, essendo confluiti l'uno nell'altro, hanno dato origine a regimi che sono insieme liberali e democratici.
Partendo dall'idea dell'uguaglianza, la teoria democratica afferma che il potere deve appartenere non ad uno solo o a pochi, ma a tutti i cittadini. Nonostante i molteplici significati assunti nel linguaggio politico contemporaneo dal termine "democrazia", vi è un concetto fondamentale a tutti comune, quello di sovranità popolare. Secondo la teoria democratica, la sovranità, cioè il potere di dettar leggi e di farle eseguire, risiede nel popolo: se il popolo può trasmettere questo potere, o meglio l'esercizio di questo potere, temporaneamente ad altri, per esempio ai suoi rappresentanti, come accade nel sistema parlamentare, non può rinunciarvi e alienarlo per sempre. A questa stregua, mentre il liberalismo tende a proteggere essenzialmente i diritti civili, per esempio la libertà di pensiero e di stampa, di riunione e di associazione, la dottrina democratica ha come suo fine principale la difesa dei diritti politici, con la quale espressione si intendono i diritti di partecipare direttamente o indirettamente al governo della cosa pubblica. Uno Stato è tanto più democratico quanto più numerose sono le categorie dei cittadini a cui estende i diritti politici, sino al limite del suffragio universale, cioè dell'attribuzione dei diritti politici a tutti i cittadini con la sola limitazione dell'età, e quindi prescindendo da ogni differenza riguardante la ricchezza, la cultura o il sesso. Il che spiega, tra l'altro, come vi possa esser un divario tra uno Stato liberale puro e uno Stato democratico puro: uno Stato in cui fossero riconosciuti i principali diritti civili, ma il suffragio fosse ristretto, come accadeva in Italia sino al 1912, poteva dirsi liberale, ma non democratico; d'altra parte, uno Stato a suffragio universale può, servendosi degli stessi congegni della democrazia, instaurare un regime illiberale, come è accaduto in Germania nel 1933, quando il nazismo si impadronì del potere attraverso le elezioni.
Strettamente connessi con l'attribuzione dei diritti politici sono altri due istituti che caratterizzano lo Stato democratico: il sistema elettivo, che si differenzia dalla ereditarietà e della cooptazione, e in tal guisa permette l'esercizio del potere dal basso, o dello Stato fondato sul consenso; e il principio maggioritario, secondo cui le deliberazioni degli organi collegiali debbono essere prese a maggioranza, dal quale deriva il sistema cosiddetto del governo di maggioranza, che si distingue tanto da quello autocratico del governo di minoranza o di uno solo, quanto da quello, del resto irrealizzabile, dell'umanità. Questi diversi principi hanno contribuito alla formazione di una particolare forma di governo, che è andata attuandosi in Europa, con alterne vicende, via via che crollavano le antiche monarchie assolute, cioè alla formazione del regime parlamentare.

C. L'idea socialista

Così come l'ideale di uguaglianza politica e giuridica ha via via integrato quello liberale della libertà individuale, così l'ideale dell'uguaglianza sociale ed economica, propugnato dal socialismo, si è sovrapposto e talvolta contrapposto, nel corso dell'ultimo secolo, a quello democratico. Anche il socialismo muove da una aspirazione egualitaria: ma considera l'eguaglianza politica e giuridica, promossa dalla dottrina democratica, un'eguaglianza puramente formale. Che il potere politico si diviso fra tutti i cittadini e che tutti i cittadini siano uguali di fronte alla legge, è, per la dottrina socialista, una conquista necessaria ma non sufficiente. Sarebbe sufficiente se l'unica forma di potere, di cui i detentori potessero abusare per opprimere gli altri, fosse il potere politico. Ma il potere politico è molto spesso uno strumento di dominio nelle mani di coloro che detengono il potere economico: una tesi costante delle dottrine socialiste, nelle differenti e talora opposte correnti a cui hanno dato luogo, è che il potere politico è al servizio del potere economico, perciò la causa delle ingiustizie sociali che generano il disordine delle società non è tanto la differenza tra governanti e governati, quanto quella fra ricchi e poveri, di cui la prima è uno specchio generalmente fedele. Pertanto il socialismo ritiene che, per estirpare alle radici il disordine sociale, occorra instaurare un ordine in cui sia combattuta non solo la diseguaglianza politica, ma anche quella economica.
Il mezzo che il socialismo propugna per eliminare la diseguaglianza economica è l'abolizione, in tutto o in parte, della proprietà individuale, e l'instaurazione di un regime sociale fondato, in tutto o in parte, sulla proprietà collettiva. Il socialismo è sempre una forma, più o meno ampia, di collettivismo. Distinguendo la proprietà dei mezzi di produzione (per esempio la terra) dalla proprietà dei prodotti, si possono avere tre forme diverse di socialismo secondo che l'abolizione della proprietà individuale cada: 1) sui mezzi di produzione; 2) sui prodotti; 3) contemporaneamente sui mezzi di produzione e sui prodotti (collettivismo integrale). Per quel che riguarda i titolari della proprietà collettiva, essi possono essere, essi possono essere tanto piccole o grandi associazioni di lavoratori (come le cooperative, o le fattorie collettive dell'URSS), e in questo caso si parla di socializzazione della proprietà individuale, quanto gli enti pubblici o lo Stato, e in questo caso si parla di statalizzazione o nazionalizzazione (soprattutto delle grandi imprese).
La trasformazione della proprietà implica pure una profonda trasformazione nella funzione dello Stato. Mentre lo Stato liberale si astiene dall'intervenire nei rapporti economici, ed è, come si dice, neutrale, lo Stato socialista considera uno dei suoi principali compiti quello i intervenire per indirizzare le attività economiche verso certi fini di interesse generale, ora limitandosi a proteggere i più deboli economicamente con varie forme di assistenza (Stato assistenziale, nella espressione inglese Welfare State, cioè Stato-benessere), ora dirigendo, attraverso una pianificazione parziale o totale, l'economia del paese (Stato collettivista). In questo senso lo Stato socialista si oppone allo Stato liberale.
Rispetto alle idee sulla organizzazione dello Stato, dunque, mentre democrazie e socialismo possono collaborare ed integrarsi, onde lo forme molteplici di democrazia sociale del mondo contemporaneo, non sembra che eguale collaborazione possa avverarsi tra socialismo e liberalismo. Sino ad ora, almeno, nella misura in cui lo Stato socialista avanza, la dottrina dello Stato liberale declina. Il liberalismo ha una concezione negativa dello Stato, il socialismo una concezione positiva; là lo Stato è un regolatore delle attività economiche altrui, qua è esso stesso il protagonista dello sviluppo economico della nazione; l'uno si propone di esser semplice custode o guar-diano del benessere individuale, l'altro pretende di essere il promotore dell'interesse comune.
Il socialismo è dottrina antica: ma solo nel secolo scorso è passato da una fase utopistica (che va da Platone a Campanella, da Morelly a Fourier), cioè di ideazione più o meno fantastica di una società socialista, alla faserealistica, per opera soprattutto di Marx e di Engels, cioè alla fase di promovimento e organizzazione di movimenti politici in favore del proletariato (i partiti socialisti). Questi movimenti hanno assunto prevalentemente due indirizzi, che si susseguono con alterna vicenda nella storia ormai secolare del socialismo: l'indirizzo riformistico, che tende all'attuazione dello Stato socialista attraverso graduali riforme da ottenersi con metodo democratico e servendosi degli istituti caratteristici del governo parlamentare; l'indirizzo rivoluzionario, per il quale la società socialista non può essere raggiunta se non attraverso lo scardinamento della società capitalista borghese, la distruzione dello Stato di classe, e la conseguente sostituzione della dittatura del proletariato alla dittatura della borghesia. Le manifestazioni storicamente più importanti di questi due indirizzi sono il labourismo, che ha provocato radicali trasformazioni della società e dello Stato in Inghilterra e in alcuni Stati dell'Europa del Nord, e il comunismo, che ha condotto il movimento operaio alla conquista del potere in Russia, con la Rivoluzione d'Ottobre (1917), e dopo la seconda guerra mondiale, per tacere degli Stati minori dell'Europa orientali, in Cina, alla fine della lunga guerra civile e nazionale (1948).

D. Il cristianesimo sociale

Quando ormai la contesa tra gli ideali liberali e socialisti era divampata, si venne formando, verso la metà del secolo scorso, una nuova dottrina politica e sociale, che prese posizione, con un programma di conciliazione tra i due contendenti, ed ha avuto crescente influsso, in alcuni Stati, sulla vita politica e sociale, soprattutto negli ultimi decenni: la dottrina sociale della Chiesa cattolica, nota col nome di cristianesimo sociale.
Del liberalismo essa rifiuta il presupposto individualistico e la libertà di concorrenza, che condurrebbero ad una lotta di tutti contro tutti, ove il più povero è destinato a soccombere. Ma pure accettando, del socialismo, l'esigenza di proteggere le classi più umili contro quelle dei più potenti, cioè l'impostazione di quella che si chiamò la "questione sociale", rifiuta energicamente la tesi socialista dell'abolizione della proprietà privata. Considerando la proprietà come un diritto naturale, cioè come un diritto senza il quale l'uomo non può sviluppare appieno la propria personalità, la dottrina del cristianesimo sociale aspira, anziché alla sua soppressione, alla sua più ampia diffusione, in modo che possano diventare proprietari dei mezzi di produzione, attraverso forme che vanno dalla frantumazione della grande proprietà agricola alla partecipazione azionaria degli operai alle grandi imprese, il maggior numero di individui. Di fronte all'obiezione messa innanzi dai socialisti, che la proprietà individuale è il maggior fomite di discordia, essa risponde distinguendo il diritto di proprietà, che è privato, dall'uso di essa, che è sociale; e da questa distinzione trae la conseguenza che, se non si può negare all'individuo di avere diritti individuali sui beni economici, gli si può precludere, non solo con il richiamo al precetto evangelico della carità, ma ricorrendo alla regolamentazione coattiva dello Stato, un uso di questi beni che sia nocivo alla società e contrario al bene comune. Con la dottrina del cristianesimo sociale, la proprietà individuale viene riconosciuta, anzi estesa nella sua titolarità, seppur temperata nel suo esercizio.
Anche di fronte al problema dello Stato, il cristianesimo sociale rifugge dagli estremi della concezione negativa dei liberali e di quella considerata troppo positiva dei socialisti. Sin dall'inizio ammise, contro il liberalismo, che lo Stato doveva intervenire nella vita economica soprattutto per proteggere le classi più povere; sostenne contro lo Stato agnostico lo Stato dirigista, e fu fautore e promotore di legislazione sociale. Ma attenuò lo statalismo che giudicava eccessivo dei socialisti, sostenendo la necessità che si formassero fra l'individuo e lo Stato libere associazioni a scopo economico e sociale, le quali permettessero, da un lato, il superamento dell'individualismo l'attuazione dell'idea solidaristica, ed evitassero, dall'altro, il pericolo di cadere nel livellamento collettivistico. Accarezzò l'idea che, favorendo lo sviluppo di associazioni intermedie, si venissero costituendo associazioni di mestiere, composte sia da lavoratori che da imprenditori, che furono dette corporazioni, dalle quali ci si aspettava che la lotta di classe - che il liberalismo non voleva soffocata, perché causa di progresso economico e di elevazione dei ceti popolari, ma giuridicamente regolata, e il socialismo voleva eliminata alle radici mirando ad una società senza classi - fosse conciliata in una mutua comprensione dei rappresentanti del lavoro e del capitale, sottoposti alla stessa legge della morale cristiana.

giovedì 9 giugno 2016

Emilio Lussu e la Ricostruzione dello Stato

(PDF) La ricostruzione dello stato e del paese porrà una vastità di problemi fra i primi, quello dei quadri. Si tratterà di creare tutto in ogni settore del lavoro, dell'economia, della finanza, dell'amministrazione, della cultura. E in ogni settore ha posto una competenza. Anche per i sostenitori tradizionali dello stato italiano centralizzato, la questione delle direzioni locali si presenterà insopprimibile. Non è dal centro, essa dalla periferia, dai comuni, dalle regioni, dalle organizzazioni del lavoro, da tutti, che sorgeranno le difficoltà che reclamano soluzioni immediate. 

La soluzione è sul posto. 

La realtà, ben più che la dottrina, spingerà verso il federalismo. La dottrina ci dice solo che il fascismo italiano ha le sue radici nella centralizzazione dello stato monarchico, che l'Unità ha piemontesizzato, così come il fascismo tedesco, ha le sue nell'avidità di potenza di una Germania prussianizzata. La dottrina ci dice che la rivoluzione francese si è installata nel centralismo dello stato assolutistico di Luigi XIV, come quella russa nel totalitarismo dello stato autocratico. La dottrina ci dice che, per passare dall' impero alla repubblica e per rendere più difficile un colpo di stato asburgico, nella confusione del dopo-guerra, la piccola Austria si organizzò in provincie federali, e che lo stato, così formato, ha potuto, in condizioni che nessun altro paese ha conosciuto peggiori; resistere non un giorno, ma anni, Vienna dieci, agli assalti della reazione cui mancava un punto d’appoggio. 

La dottrina ci dice che la Spagna, paese che sotto molti aspetti rievoca il nostro, se avesse avuto il tempo di presentare al pronunciamento dei generali l'organizzazione federale della repubblica, avrebbe evitato la disfatta, nonostante gli aiuti dati ai ribelli da Mussolini e da Hitler.
L'Italia, di centro politico vitale, non aveva che Roma. Presa Roma, il fascismo, pur ancora inviso
universalmente al popolo dal Veneto alla Sicilia, si è considerato definitivamente trionfante. Noi non
possiamo ricostruire quell'Italia.

La costituzione di uno stato federale esige una coscienza generale federalista: altrimenti si costruisce sulla sabbia. Esige una tale coscienza nazionale per cui le regioni si considerino i baluardi più validi dell'unità nazionale. Se noi abbiamo questa coscienza nazionale, non del federalismo dobbiamo aver paura ma del centralismo. Bisogna che risorga, ricca e multiforme, la vita locale, e interessi sul posto tutti, compresi quei milioni di candidati alla bassa burocrazia e ai piccoli servizi mercenari che il mezzogiorno e le isole allevano come parassiti del paese, e che le provincie scompaiano coi prefetti si che non si senta più parlare di questi centri fittizi e correttori di vita locale. E che si spogli Roma, diventata una città pletorica, di pretoriani e di postulanti.

La preoccupazione, che in taluni arriva fino allo sgomento, per cui lo stato federale sarebbe privo di autorità è degna di un commissario di pubblica sicurezza. L'autorità dello stato democratico non deriva già dalle cariche di polizia, ma dalla coscienza che ogni cittadino ha di essere partecipe della vita dello stato. Nello stato federale, il potere centrale coordina, influenza e dirige: governa, non domina. Il fascismo e l'impero hanno la loro tomba naturale nella repubblica federale. Lo Stato federale non salva obbligatoriamente una democrazia dalla corruzione, ma le dà obbligatoriamente più centri essenziali di vita. Per l'Italia, esso si presenterà come l'organizzazione più razionale della democrazia post-fascista.

martedì 7 giugno 2016

Le privatizzazioni peggiori d'Europa

      (PDFPrendiamo la vicenda della Interflug. La linea aerea di Stato della Rdt nel 1990 è appetibile per diversi motivi: il primo è che i conti sono tutt’altro che disastrosi (100 milioni di utile nel primo semestre: soltanto a seguito dell’unione monetaria, e soprattutto della prima guerra del Golfo, peggioreranno – come del resto quelli di tutte le compagnie aeree), il secondo è il valore strategico dell’aeroporto di Schönefeld a Berlino. Per questo motivo già a gennaio si fa avanti la Lufthansa (di cui lo Stato tedesco-occidentale detiene il 51 per cento) e stipula un accordo per l’acquisizione del 26 per cento della società. L’antitrust tedesco però sembra non gradire un monopolio, e per di più statale, delle linee aeree tedesche: il suo parere deve però essere confermato da una decisione del governo – che non arriva.

      Sembra comunque profilarsi all’orizzonte una soluzione ottimale, almeno dal punto di vista di un’«economia sociale di mercato» rispettosa della concorrenza: nel maggio 1990 anche la British Airways avanza un’offerta. Successivamente spunteranno altri pretendenti: un consorzio formato dalle linee aeree irlandesi Air Lingus, la Creditanstalt austriaca e l’asiatica Cathay Pacific. Anche il gruppo americao Wimco International fa un’offerta. Tutti però vengono sono scoraggiati dalla stessa Treuhandanstalt – cui nel frattempo è stata conferita anche Interflug – dal portare avanti la loro offerta, a causa delle presunte condizioni catastrofiche dell’Interflug: decisamente un comportamento singolare da parte di un venditore. La British Airways presenterà anche un ricorso a Bruxelles contro la Treuhandanstalt per ostacolo alla concorrenza. Con l’avvio dell’unione monetaria i conti della Interflug cominciano a peggiorare, e alla società sono per di più addebitati «vecchi debiti» per un valore di 120 milioni di marchi.

      La strategia di Lufthansa a questo punto cambia: il suo interesse non è più l’acquisizione della società, ma impedire che la compagnia sia acquistata da altre linee aeree. La Treuhandanstalt fiancheggia a meraviglia gli interessi di Lufthansa. E nomina un primo liquidatore, il quale però sostiene che la Interflug non deve essere liquidata. Viene licenziato e al suo posto ne viene nominato un altro che a tempo di record (7 giorni) emette il verdetto opposto. Il 30 aprile 1991 viene annunciata alla stampa la liquidazione della società. Nel frattempo la proprietà del suolo dell’aeroporto di Schönefeld è stata regolamentata attraverso un procedimento che ne garantisce l’utilizzo alla Lufthansa. A questo punto il monopolio sui cieli tedeschi e sulle piste d’atterraggio della ex Germania Est è garantito, e senza spendere un marco: come previsto dalla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» pochi mesi prima, la Lufthansa può infatti «rilevare le partecipazioni e i diritti di partenza e di atterraggio di Interflug a costo zero» (sul tema Interflug si possono vedere: Bothmann in Dümcke/Vilmar 1995: 188-194; Laabs 2012: 126 sgg.; Huhn 2009: 75-89).

      Speculare al caso della Interflug è quello della Vereinigte Transport. Si tratta di una delle prime società per azioni fondata nella Rdt: a giugno 1990, poche settimane prima della formale nascita della Treuhandanstalt (che comincerà a essere operativa da metà luglio), 56 aziende di trasporto «di proprietà del popolo» con 65 mila addetti tra camionisti e altro personale, si fondono. Vengono ingaggiati degli advisor finanziari e viene negoziato un credito con Citibank. Insomma, si cerca di mettersi al passo con l’economia di mercato. Ma già all’inizio dell’estate cominciano i problemi: l’associazione degli autotrasportatori della Germania Ovest sostiene che la socieà, in quanto erede di un monopolio statale, ha una posizione dominante. E non fatica a convincere della cosa il ministro dei trasporti Friedrich Zimmermann della Csu bavarese. Il ministero si rivolge alla Treuhandanstalt, che nel frattempo è diventata la custode fiduciaria anche della Vereinigte Transport come di ogni altra impresa ex statale della Rdt: chiede e ottiene che la società sia liquidata. Essa viene prima suddivisa nei settori spedizioni, autotrasporto e autobus, che vengono venduti separatamente. La liquidazione ufficiale della società ha poi luogo il 17 settembre, due settimane prima dell’annessione politica della Rdt (Laabs 2012: 132).

      La morale della favola di queste due storie, lette dal punto di vista di un tedesco dell’Est, è piuttosto semplice: ai capitalisti della Germania Ovest gli unici monopoli che piacciono sono i loro. E infatti nessuna protesta si leva a Ovest quando, 2 settimane dopo la liquidazione della Vereinigte Transport, il gruppo di supermercati tedesco-occidentale Tengelmann ottiene l’acquisto in blocco di 131 dei 150 negozi della catena HO (Handels-Organisation, ossia organizzazione di commercio) della città di Schwerin, tra cui 27 dei 31 più grandi di essi. In effetti questo è soltanto uno dei lucrosi affari portati a termine dalle catene commerciali occidentali. Le conseguenze della concentrazione del commercio al dettaglio in poche mani furono di tre ordini. In primo luogo, detenendo posizioni di oligopolio (o, come in questo caso, di monopolio quasi totale), le catene tedesco-occidentali aumentarono i prezzi. In secondo luogo, esse privilegiarono in maniera pressoché assoluta i fornitori occidentali e costrinsero di fatto i produttori agricoli locali a vendere sottocosto: già il 14 agosto 1990 si svolse a Berlino una manifestazione di contadini (dai 50 mila ai 150 mila a seconda delle fonti) per denunciare questa situazione. Infine, e quest’ultimo effetto può apparire decisamente ironico, la presenza e la concentrazione delle grandi catene occidentali costrinse alla chiusura molti piccoli negozi privati, in particolare di generi alimentari, che assieme agli artigiani, rappresentavano l’unico comparto di attività economica privata che aveva resistito nei 40 anni di Rdt, anche perché riusciva a colmare in parte i problemi di approvvigionamento che affliggevano la catena di Stato HO (nel 1988 si contavano 39.000 commercianti: Wenzel 1998: 116). Di fatto, i casi in cui le imprese dell’Ovest operarono – quasi sempre con successo – al fine di eliminare concorrenti dell’Est dal mercato non furono l’eccezione, ma la regola. I mezzi adoperati, di volta in volta diversi. Clamoroso il caso del produttore di frigoriferi Foron di Scharfenstein. Monopolista nella Rdt, Foron fabbricava oltre 1 milione di frigoriferi all’anno ed esportava in 30 Paesi sia all’Est che all’Ovest (per esempio, era un fornitore della catena di vendita per corrispondenza Quelle). Nonostante il colpo severo ricevuto con il cambio alla pari tra il marco orientale e il marco della Repubblica Federale Tedesca, la società riuscì a continuare la produzione e nel 1992 conseguì un grande risultato: riuscì a sviluppare e produrre, in collaborazione con Greenpeace e con l’istituto d’igiene di Dortmund, il primo frigorifero del mondo senza fluoroclorocarburi (Fcc): ossia il primo frigorifero che non contribuiva al buco dell’ozono né al riscaldamento globale, in quanto utilizzava come mezzo di raffreddamento il gas butano e il gas propano. La Treuhandanstalt tentò di vietare la conferenza stampa congiunta di Greenpeace e Foron in cui era presentato questo prodotto rivoluzionario, ma non ci riuscì. Nell’agosto 1992 arrivarono 65 mila ordinativi, che in breve crebbero sino a 100 mila. A questo punto il cartello dei produttori occidentali (citiamoli: Siemens, Bosch, AEG, Bauknecht, Miele, Electrolux e Liebherr) emise un comunicato congiunto in cui si diffidavano i rivenditori dall’acquistare questi frigoriferi: non funzionavano, consumavano troppa energia, e per la clientela comprarli sarebbe stato come mettersi «una bomba in cucina» (sic!). Tutto falso, ovviamente. Questi frigoriferi consumavano meno degli altri, e nessuna prova poté essere recata per l’affermazione diffamatoria delle ditte del cartello dell’Ovest. Ma al primo frigorifero senza Fcc del mondo fu sottratto in questo modo truffaldino il suo mercato. E le ditte dell’Ovest poterono intanto cominciare a sostituire il Fcc con il tetrafluoretano (che a differenza di butano e propano è dannoso per l’ambiente: dal 2011 l’Unione Europea ne ha proibito l’uso anche negli impianti di climatizzazione delle automobili), e pochi mesi dopo furono in grado replicare la tecnologia di Foron e di vendere in prima persona quella «bomba da cucina».

      Quanto a Foron, la società fu prontamente privatizzata vendendola a un fondo d’investimento che cambiò il management e precipitò la società nel baratro finanziario. Sembra che un interessamento della coreana Samsung sia stato prontamente ritirato allorché un fax proveniente dalla Siemens informò il management della società che l’acquisizione di Foron sarebbe stata considerata «un atto ostile». Nel 1996 la fabbrica fu rilevata dal gruppo industriale olandese Atag. Ma la produzione continuò a scendere, e con essa il numero dei dipendenti. Alla fine rimase solo il marchio, che nel 2000 fu comprato per 3-4 milioni di marchi dall’italiana Merloni (Wenzel 2003: 46-47; Huhn 2009: 131-135). Il 18 dicembre 2009 anche la società del gruppo Merloni proprietaria del marchio, la tedesca Efs, ha presentato istanza di insolvenza presso il tribunale di Duisburg. A Scharfenstein ormai soltanto un museo ricorda la storia di questa fabbrica e delle 5 mila persone che ci lavoravano.

      La storia della Treuhandanstalt è costellata di truffe. Alcune meritano un posto nella storia economica della Germania, sia per l’entità abnorme di danaro pubblico dilapidato, sia per l’assoluta assenza di professionalità – o peggio – da parte degli uomini della Treuhand. Lo merita senz’altro la vendita della società berlinese Wärmeanlagebau (Wbb) a una società svizzera sconosciuta, la Chematec. Artefice dell’operazione il tedesco occidentale (di Oberhausen) Rottmann, il quale acquistò la società per 2 milioni di marchi (il suo valore fu poi calcolato in 70 milioni di marchi), senza assumere nessun impegno vincolante né in termini di conservazione dei posti di lavoro, né di investimenti. Ma il meglio deve ancora venire. Infatti Rottmann svuotò la società della cassa e ne vendette gli immobili e i terreni (per gli immobili furono incassati oltre 145 milioni, mentre la Treuhandanstalt ne aveva stimato il valore in appena 38 milioni). Poi trasferì su conti all’estero 200 milioni di marchi della società stessa. La Wbb fece fallimento nel 1995, gettando sul lastrico 1.200 lavoratori. Rottmann fece perdere le sue tracce, nel 2000 venne arrestato a Londra e rilasciato su cauzione. Fu estradato soltanto nel 2009. Nel 2005 era iniziato il processo, al termine del quale l’accusato è stato condannato a restituire 20 milioni di marchi e a 3 anni e 9 mesi di reclusione. Ma è stato scarcerato dopo neppure un anno per avvenuta prescrizione del reato (Luft 2005: 31-32; Huhn 2010: 110-119).

      Ma anche il danno causato dalle attività illecite del sig. Rottmann sparisce di fronte alle cifre della vicenda che ha come protagonista la società Bremer Vulkan. Questa importante società di Brema, attiva nella cantieristica, tra il 1992 e il 1993 acquista dalla Treuhandanstalt cantieri e altre società tedesco orientali: la MTW Meerestechnik di Wismar, i cantieri Volkswerft Stralsund e le società Neptun Industrietechnik e Dieselmotorenwerk di Rostock. Le somme di danaro che a vario titolo fluiscono dalla Treuhandanstalt nelle casse della società acquirente sono considerevoli: si tratta di 3 miliardi e 472 milioni di marchi. Nel 1995 la società dell’Ovest fallisce. Non prima di aver trasferito dalle società dell’Est acquistate alla Bremer Vulkan qualcosa come 854 milioni di marchi, «per accentrare il cash-management» (cosa di cui la stessa presidente della Treuhandanstalt fu informata e cui acconsentì). Questo denaro servì per tentare di colmare i buchi della società dell’Ovest, e poi andò perduto irrimediabilmente nel fallimento della società. La Treuhandanstalt (e il suo successore, la BvS) sono finiti al centro delle polemiche per aver consentito lo storno di questi fondi destinati all’Est. E la Commissione Europea ha aperto una procedura contro il governo tedesco per aver permesso un tale abuso delle sovvenzioni pubbliche. I cantieri navali sono successivamente stati «ri-privatizzati» con ulteriore esborso di fondi pubblici (1 miliardo e 200 milioni). La riprivatizzazione della Dieselmotorenwerk di Rostock, invece, non è riuscita, e la Commissione Europea ha richiesto la restituzione di 118 milioni di aiuti, in quanto «distorsivi della concorrenza». Infine, il processo contro il presidente di Bremer Vulkan, Friedrich Hennemann, e altri 2 membri del consiglio di amministrazione, apertosi nel 1999, si è chiuso in modo farsesco. Dapprima, con una condanna a 2 anni per Hennemann comminata dal tribunale di Brema. Poi però la sentenza è stata annullata, ritenendo che il contratto stipulato da Hennemann con la Treuhandanstalt non prevedesse alcun divieto di utilizzare all’Ovest il denaro ricevuto. Non è stato, invece, annullato il licenziamento dei 15 mila lavoratori dei cantieri navali dell’Est coinvolti nel crack (Wenzel 2003: 33-34; Huhn 2009: 96-105; Huhn 2010: 64-69).

      Le storie da raccontare sarebbero davvero molte. Per il suo valore emblematico, merita di chiudere questo breve excursus la vicenda delle miniere di potassio dell’Est, riunite dalla Treuhandanstalt nella società Mitteldeutsche Kali (MdK) e vendute – su suggerimento dell’advisor Goldman Sachs, che ne stima il valore in 400 milionidi marchi (ma saranno vendute per 250 milioni) – al loro concorrente dell’Ovest controllato dalla Basf, la Kali+Salz di Kassel (K+S), all’epoca in gravi difficoltà economiche (non pagava più dividendi agli azionisti dal 1984). Viene quindi fondata una nuova società di cui il K+S acquisisce il 51 per cento, mentre alla Treuhand resta in mano il 49 per cento. Mentre la K+S non paga un marco (si limita ad apportare alla società le sue miniere), la Treuhand immette 1 miliardo di marchi nella società comune. Ma non è finita qui: l’accordo di fusione prevede infatti che la Treuhandanstalt ripianerà nei tre anni successivi gran parte delle perdite della società (precisamente il 90 per cento nei successivi 3 anni, nel quarto l’85 per cento e nel quinto l’80 per cento), «indipendentemente dalla loro causa». In questo modo chi ha il 49 per cento della società (la Treuhand) non si assumerà mai, per i successivi 5 anni, meno dell’80 per cento delle perdite, chi ne detiene il 51 per cento (K+S) non se ne assumerà mai più del 20 per cento. Chi non vorrebbe stipulare un contratto così vantaggioso?

      Nel 1993 la società decide di chiudere alcune miniere. Sono tutte all’Est. A questo punto, nella miniera di Bischofferode in Turingia, scoppia la protesta. Inizia lo sciopero della fame di alcuni lavoratori della miniera, che ricevono la solidarietà di numerosi esponenti del mondo intellettuale (tra loro l’allieva di Brecht e attrice Käthe Reichel). Ma soprattutto la loro lotta fa il giro della Germania. La scritta sugli striscioni che innalzano i manifestanti rappresenta uno dei più alti momenti di verità sulla vicenda dell’unificazione tedesca: «Non vogliamo essere solo consumatori, ma anche produttori!» A questi appelli la presidente della Treuhandanstalt, Birgit Breuel, risponde con la consueta dose di ideologia: «non si possono garantire ovunque posti di lavoro. Sarebbe la paralisi, sarebbe la morte, e sarebbe in ultima analisi il ritorno dell’economia pianificata». Nell’equivalenza stabilita tra piena occupazione ed economia pianificata si sarebbe tentati di vedere un’inconsapevole elogio del comunismo, ma la verità è che queste parole della Breuel sono consapevolmente mistificatrici. Perché tentano di sviare l’attenzione dal punto essenziale: ossia che non c’era alcun motivo economico generale per chiudere proprio le miniere dell’Est. Infatti, il potassio estratto a Bischofferode era di qualità migliore di quello prodotto all’Ovest. Tant’è vero che il 95 per cento della produzione del 1991 e l’88 per cento di quella del 1992 era stata esportata nei Paesi occidentali. Si trattava di uno dei pochi casi in cui le esportazioni dopo il 1989 erano cresciute e non diminuite (partendo oltretutto da una situazione precedente che già vedeva nella Rdt il secondo maggiore esportatore di potassio del mondo). Ma attenzione: gli acquirenti del potassio di Bischofferode erano i concorrenti della Basf, i quali con quel potassio, e solo con quello, attraverso uno speciale procedimento (il cosiddetto «metodo Mannheimer»), ottenevano dei fertilizzanti di qualità superiore a quello prodotto dalla Basf, che usava il potassio di K+S e adoperava un altro procedimento. Nel momento stesso in cui Bischofferode avesse cessato la produzione, non sarebbe stato più possibile utilizzare il metodo Mannheimer e si sarebbe dovuto acquistare il potassio dalla K+S. Ecco perciò il vero e unico motivo economico della chiusura: aumentare il potere di mercato di K+S e conseguire per questa via una rendita di monopolio. Cosa che K+S non avrebbe potuto conseguire se la MdK fosse stata venduta ad altre società, o se il contratto avesse consentito la vendita delle singole miniere che furono chiuse il 1° gennaio 1994 ai concorrenti di Basf (Wenzel 2003: 34-36; Huhn 2009: 31-67; Laabs 2012: 297-300; Köhler 2011: 57-92).

      Verosimilmente fu proprio questo il motivo per cui il contratto tra K+S e MdK fu segretato: così si espresse, tra gli altri, il direttore dello «Handelsblatt» in un durissimo editoriale (vedi Mundorf 1993). A tutt’oggi, il contratto non è stato reso noto. Tanto è vero che la Linke il 16 giugno 2013 ha presentato un’interrogazione parlamentare affinché, a distanza di 20 anni (!) dagli avvenimenti, esso sia finalmente reso pubblico. L’interrogazione contiene, sotto forma di domande, richieste di chiarimento su tutti i punti ancora non chiariti relativi a questa vicenda. Le domande sono 115 (Ramelow 2013).

Vladimiro Giacchè - Anschluss: l'annessione. L'unificazione della Germania e il futuro dell'Europa - Imprimatur - 2013

lunedì 6 giugno 2016

La moneta cartacea al tempo della Rivoluzione Francese

[..] (PDF) C'è pochissimo in economia che chiami in causa il sovrannaturale. Ma c'è un fenomeno che è stato per molti una tentazione in questo senso. Guardando un foglio rettangolare, spesso di mediocre qualità, che raffigura un eroe nazionale o un monumento o un'immagine classica vagamente ispirata a Pieter Paul Rubens o a Jacques-Louis David o un mercato di verdura particolarmente ben fornito e stampato con inchiostro verde o marrone, essi (i francesi ndr.) si sono posti questa domanda: perché una cosa che in sé è così priva di valore deve essere così evidentemente desiderabile? Che cosa le dà, a differenza di una simile massa di fibre ritagliata dal giornale di ieri, il potere di ordinare merci, di assicurarsi servizi, di suscitare cupidigia, di ispirare avarizia, di invitare al crimine? Deve certamente entrare in gioco un elemento magico; ci deve essere una spiegazione metafisica o extraterrestre. Abbiamo già accennato alla reputazione quasi sacerdotale e alla tendenza di coloro che si occupano di moneta per professione. Esse sono in parte dovute al fatto che si ritiene che sappiano a che cosa è dovuto il valore di un pezzo di carta che in sé non ne ha alcuno.

La spiegazione è totalmente laica e la magia non c'entra. I teorici della moneta hanno solitamente distinto tre tipi di valuta: 1) quella che, come l'oro o l'argento, deve il suo valore a una desiderabilità intrinseca derivata da riconosciuti servizi all'orgoglio del possesso, al prestigio della proprietà, all'ornamento professionale, alla posateria o all'odontoiatria; 2) quella che può essere automaticamente cambiata in qualcosa che abbia questa desiderabilità intrinseca o che contenga, come i biglietti della baia di Massachusetts, la promessa di tale convertibilità; 3) quella che in sé non vale nulla e non contiene alcuna promessa di convertibilità in qualcosa di utile o di desiderabile, ma è sostenuta, al più, dalla volontà dello Stato di farla accettare. In realtà queste tre versioni sono solo delle varianti su un tema unico. John Stuart Mill, come abbiamo visto, faceva dipendere il valore della moneta dalla sua disponibilità in rapporto all'offerta di cose da acquistare. Se la moneta era d'oro e d'argento, non era molto probabile, se non in casi eccezionali di sovrabbondanza come per San Luis Potosi o il mulino di Sutter, che la sua quantità aumentasse eccessivamente. Il suo limite intrinseco era la sicurezza di una quantità limitata e quindi di un valore costante. La stessa garanzia di offerta limitata valeva per la moneta cartacea interamente convertibile in oro e in argento. O per quella che non poteva essere convertita in niente, purché la sua emissione non superasse certi limiti. L'importante era la scarsità, non la mancanza di valore intrinseca. Ma il guaio della carta era che, una volta eliminata la convertibilità, non c'era nulla che potesse limitarne l'offerta. Era dunque passibile di un aumento Illimitato che ne avrebbe diminuito o annullato il valore. Il fatto che la carta in sé non valga nulla è solo un particolare. Delle pietre estratte a caso dalla superficie terrestre e divise In unità di una libbra o più non sarebbero molto indovinate La loro disponibilità sarebbe infatti talmente grande da rendere insopportabile anche il peso delle pietre necessarie per una piccola transazione. Ma quelle estratte sulla luna e portate sulla terra, una volta divise e munite di debito certificato sul loro peso e sulle loro origini, anche se geologicamente non distinguibili dalle pietre terrestri, sarebbero invece una buona possibilità; almeno fino a quando i viaggi sulla luna fossero ancora pochi e le rocce lunari conservassero così la scarsità necessaria.

L'ingegnosità degli assignats era nel bene in cui potevano essere convertiti, ed era la scarsità di questo bene a conferire loro un valore. Non si trattava di oro o di argento, metalli non disponibili in quantità sufficiente, poiché, come si può facilmente immaginare, appartenevano in massima parte a coloro contro i quali era scoppiata la Rivoluzione. E che di conseguenza erano stati nascosti o mandati o portati all'estero. L'attività che fungeva da garanzia e da limite era la terra, cioè proprio la cosa che la Rivoluzione rendeva disponibile e che ne era stata, in buona parte, la causa. La terra non la si poteva nascondere. E non poteva portarsela appresso neanche il più ingegnoso degli emigrati. Era inoltre impossibile che ne aumentasse la quantità complessiva. Per questa ragione chi era rimasto in Francia desiderava possederla come se fosse stato oro.

All'inizio la risorsa principale non era costituita dalle terre degli aristocratici ma da quelle della Chiesa. Secondo le valutazioni più diffuse, esse erano nel 1789 un quinto delle terre francesi. Gli Stati generali erano stati convocati in seguito alla spaventosa pressione fiscale cui il regno era soggetto. Non era possibile ottenere altri prestiti. E non esisteva una banca centrale cui si potesse ordinare di indirne uno. Tutto dipendeva ancora dalla disponibilità di mutuanti volonterosi o di persone che si potessero convincere o costringere a fare il proprio dovere. Era difficile pensare che il terzo stato acconsentisse a votare nuove o maggiori imposte quando i suoi membri erano soprattutto preoccupati dalla severità repressiva di quelle che già venivano riscosse. Così il 17 giugno 1789 l'Assemblea nazionale proclamò illegali tutte le tasse, attenuando questa sbalorditiva decisione soltanto con la clausola che sarebbe stato ancora possibile riscuoterle su base temporanea. Intanto il ricordo di John Law rendeva i francesi ancora diffidenti di fronte alla normale moneta cartacea: nel 1778 la proposta di un’emissione di biglietti con interesse aveva suscitato una tale opposizione che si era dovuto ritirarla. Ma un’emissione di biglietti convertibili in terra era un altro discorso. Le proprietà immobiliari del clero furono un dono del cielo alla Rivoluzione.

L’azione decisiva fu condotta il 19 dicembre 1789. Venne autorizzata un’emissione di quattrocento milioni di lire che avrebbero, secondo le promesse, “saldato il debito pubblico, stimolato l’agricoltura e l’industria e assicurato alle terre una migliore amministrazione”. Questi biglietti, gli assignats, sarebbero stati riconvertibili entro cinque anni, grazie alla vendita di un valore equivalente in terre della Chiesa e della Corona. I primi assignats assicuravano un interesse del 5 per cento e chiunque ne avesse posseduto a sufficienza poteva scambiarli direttamente con delle terre. Nell’estate successiva si autorizzò una nuova abbondante emissione, eliminando però l’interesse. In seguito ne vennero emessi anche di taglio inferiore. Cominciarono così le perplessità. Si citava ancora il nome di Law. Intervenne persino un anonimo americano con un Advice of the assignats by a citizens of the United States. Egli metteva in guardia l’Assemblea contro gli assignats, partendo dalle foconde esperienze del suo paese con i biglietti continentali. Comunque la reazione iniziale a questa valuta basata sulla terra fu generalmente favorevole.

Se fosse stato possibile limitarli all’emissione originaria o a quella del 1790, gli assignats sarebbero passati alla storia come un’innovazione di singolare interesse. La loro base non era l’oro, l’argento o il tabacco ma, solida e logica, la buona terra di Francia. E nei primi anni il loro potere d’acquisto era rimasto costante. Si parlava con ammirazione del fatto che gli assignats avevano messo in circolazione la terra. Si erano incrementati gli affari, era aumentata l’occupazione ed erano state facilitate le vendite delle terre appartenenti alla Chiesa e ad altri enti pubblici. In certi casi, erano state anche vendute a prezzi troppo buoni. In rapporto con il reddito annuo, i prezzi fissati erano infatti relativamente modesti: gli speculatori che erano riusciti ad arraffare grandi quantità di assignats potevano approfittare di queste occasioni.


Ma in Francia, come già in America, premevano con insistenza le esigenze della Rivoluzione. Le terre erano limitate, ma si potevano aumentare i diritti su di esse. Alla grande emissione del 1790 ne seguirono altre, specialmente dopo il 1792, quando scoppiò la guerra. A questo punto i prezzi indicati in assignats cominciarono a salire, mentre diminuiva rapidamente il loro tasso di cambio in oro e argento, operazione autorizzata a suo tempo dall’Assemblea. Nel 1793 e 1794, con la Convenzione e la gestione finanziaria di Cambon, ci fu un periodo di stabilità. Si stabilirono anche calmieri con un certo successo. E, cosa potenzialmente anche più importante, l’offerta degli assignats venne ridotta con la brillante trovata di invalidare quelli che erano stati emessi durante la monarchia. In quegli anni, se cambiati in oro o argento, avevano ancora un valore pari al 50 per cento circa del nominale. Ma ben presto si tornò in una situazione di emergenza. E si stamparono sempre più assignats. Dopo il 1793, prendendo un’iniziativa del tutto nuova nel campo della guerra economica, Pitt autorizzò i monarchici emigrati a stampare assignats da esportare in Francia. Sperava così di accelerale lo sfacelo. Finì che i torchi francesi stampavano oggi ciò che serviva per le necessità dell’indomani. Ben presto il Direttorio sospese la convertibilità in terre di questi biglietti ormai quasi del tutto senza valore e la Francia dovette abbandonare il sistema a base fondiaria. Si riuscì però a proteggere i creditori dal pericolo di essere rimborsati con assignats. Questo, se non altro, li salvò dall’ignominia di doversi nascondere (come era avvenuto in America) ai loro debitori. Una nuova valuta cartacea, mandats territoriaux, anch’essa con diritto al possesso di terre, fu accolta, non sorprendentemente, con aperta ostilità. Nel febbraio 1797 (il 16 Piovoso dell'anno V) il Direttorio tornò all'oro e all'argento. Ma ormai la Rivoluzione era un fatto compiuto. Era stata finanziata grazie agli assignats. Che di conseguenza meritano di essere ricordati almeno quanto la ghigliottina.

John K. Galbrait - Soldi - BUR - 2013

sabato 4 giugno 2016

Lelio Basso ed il Consiglio d'Europa



Sul disegno di legge: Ratifica ed esecuzione dello Statuto del Consiglio d'Europa e dell'accordo relativo alla creazione della commissione preparatoria del Consiglio d'Europa, firmato a Londra il 5 maggio 1949


Camera dei deputati, seduta del 13 luglio 1949
il disegno di legge (stampato n. 629), presentato dal Presidente del Consiglio, De Gasperi e dal ministro degli affari esteri, Sforza, fu approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 13 luglio 1949, e, dopo l'approvazione definitiva da parte del Senato nella seduta del 23 luglio, divenne la legge 23 luglio 1949, n. 433. Il trattato che dava vita al Consiglio d'Eu­ropa era stato firmato il 5 maggio 1949 a Londra, da dieci Stati europei (Belgio, Danimar­ca, Francia, Italia, Irlanda, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia), ai quali se ne aggiunsero successivamente altri.

(PDF)
[...] Ma non vi è dubbio che, attraverso questi contrasti, che rifletto­no contrasti più vasti, anche il Consiglio europeo tende ad inqua­drarsi come uno strumento di questa stessa politica, uno strumento della politica atlantica, e quindi dobbiamo considerare l'accordo oggi sottoposto alla nostra ratifica come manifestazione di politica atlan­tica.

Credo non vi sia bisogno di soffermarsi a dare di ciò molte dimo­strazioni. Basterebbe pensare all'origine; il Consiglio europeo nasce dall'unione occidentale, dal patto di Bruxelles, dal patto delle cinque potenze (Inghilterra, Francia e Benelux), che hanno preso l'iniziativa di convocare le altre potenze. Basterebbe leggere il preambolo del Consiglio europeo, che ad un certo punto così dice: "Attaccati ai va­lori spirituali e morali, che sono il patrimonio comune dei loro po­poli, e che sono all'origine dei principi di libertà individuale, di pre­minenza del diritto su cui si fonda ogni vera democrazia, ecc." e con­frontarlo con il preambolo del patto atlantico, il quale ugualmente dice: "Gli stati contraenti sono decisi a salvaguardare la libertà dei popoli, la loro comune eredità e la loro civiltà fondate sui principi della democrazia", per sentire che unico è il motivo ispiratore.

Sono gli stessi preamboli della Santa alleanza e del Patto anticomin­tern. E sempre così: quando la reazione vuole giustificare sé stessa, Si fa appello alla tradizione, all'eredità, agli elementi del passato, e si chiama tutto questo difesa della civiltà, della civiltà cristiana, della ci­viltà occidentale, a seconda delle circostanze. Ma la sostanza è sempre la stessa. Ma è, del resto, lo stesso ministro Sforza, che in un discorso pronunciato a Bruxelles, il 20 giugno, disse che il Consiglio europeo è uno strumento della politica atlantica; anzi, disse, che la vera unione europea è quella che si manifesta attraverso il Patto atlantico.

Disse testualmente l'onorevole Sforza: "Il problema della unità europea si è imposto progressivamente in tutti gli ambienti, nei Parlamenti, tra gli scrittori politici, ed anche presso vari governi europei. Nel breve giro di poche settimane ho firmato un trattato per la creazione di un'unione doganale tra l'Italia e la Francia, un'unione doganale concepita nello spirito che vi ha animato all'epoca del vostro accordo con i Paesi Bassi e con il Lussemburgo. Ho firmato gli atti che garantiscono la vita della Organizzazione economica per la cooperazione europea che ha sede a Parigi, la quale speriamo divenga il ministero dell'economia europea. Ho firmato a Washington con altri 11 ministri degli esteri il Patto atlantico, che rappresenta, sotto alcuni aspetti, l'autentico inizio di una Unione europea ed infine, il mese scorso, ho firmato per l'Italia, come il mio collega Spaak ha firmato per il Belgio, l'atto costitutivo del Consiglio europeo e dell'Assemblea europea". Non v'è dubbio quindi che l'onorevole Sforza considera il Consiglio europeo come uno strumento di questa politica atlantica e lo considerano tale anche gli americani — il che è più importante — come ad esempio un autorevole ex-ministro degli affari esteri americano, Sumner Welles, il quale in un articolo dell'I 1 febbraio, dopo il primo comunicato che annunciava gli accordi per il Consiglio europeo, diceva: "Il progetto attuale è un debole compromesso. Esso respinge la tesi francese, secondo cui bisogna creare un potente Parlamento europeo. Il progetto non contiene nessuna disposizione che preveda la limitazione delle sovranità nazionali. 

Un'ombra di unione europea del genere di quella che si progetta attualmente, ha delle chances di essere di qualche utilità pratica per gli Stati Uniti? 

Esiste una ragione valida perché non si dica francamente a quei Paesi che ricevono aiuti a titolo Erp (European Recovery Program, ossia Piano per la ripresa europea, ndr), e che riceveranno armi per la loro difesa in conseguenza del Patto atlantico, che uno dei principali risultati ricercati dal popolo americano, in cambio dei sacrifici che esso consente per l'Europa occidentale, è una federazione reale dei Paesi dell'Europa occidentale?" 

È chiaro quindi che nelle intenzioni del ministro Sforza e nella realtà dei fatti il Consiglio europeo è uno strumento per la realizzazione delle stesse finalità che l'imperialismo americano si è assegnato col patto atlantico. E uno strumento per sviluppare la stessa politica mondiale dell'America, e contro la quale le resistenze inglesi hanno lo stesso significato delle resistenze di un imperialismo che tramonta contro un imperialismo che si afferma vittorioso, resistenze di un egoismo conservatore, contro un egoismo aggressivo e conquistatore. Ora, quale è il posto che questo Consiglio europeo occupa nel quadro generale di questa politica atlantica; quale è la funzione che gli compete? È indubbiamente ed essenzialmente per ora (in attesa di ulteriori sviluppi) una funzione dì copertura. Il patto atlantico parla anche esso di ideali, ma parla anche di armi, che sono uno strumento di politica molto più realistico; il piano Marshall parla di cooperazione, di ideali, di mutuo appoggio, ma parla anche di quattrini, che sono qualche cosa di prosaico. Ora è bene invece avere uno sfogo per i puri ideali, un'assemblea dove si può parlare soltanto di ideali europeistici, e non di armi né di quattrini. 

Questo piace all'opinione pubblica; questo piace a certi strati soprattutto della piccola e media borghesia. Perché noi ci rendiamo meglio conto dell'importanza fondamentale che queste cose hanno nel quadro generale della politica capitalistica, è necessario pensare che tutta la società borghese è costruita essenzialmente su due piani: il piano della lotta di classe, il piano ove si svolgono le cose così come sono realmente nella loro dura brutalità, e il piano in cui questi rapporti di classe, in cui le contraddizioni della società, in cui tutti i conflitti che ci dilaniano, sono, viceversa, espressi e risolti in termini puramente formali  e puramente giuridici. 

La vecchia società precapitalistica chiamava più brutalmente le cose col loro nome, aveva anch'essa una divisione in classi, delle contraddizioni interne, una oppressione di classi su altre classi; ma chiamava privilegi i privilegi, diceva apertamente che il servo della gleba era legato alla terra, dava apertamente agli ordini privilegiati, nobiltà e clero, maggiori diritti che al Terzo Stato, proclamava in tutte lettere quali erano le restrizioni dei diritti dei cittadini non appartenenti agli ordini privilegiati. Era una società che confessava apertamente le sue contraddizioni, perché rimandava la soluzione di queste contraddizioni all'oltretomba: l'uomo che sentiva la sua disuguaglianza su questa terra, si consolava pensando che era uguale agli altri nell'aldilà e si rassegnava a un'oppressione che riguardava solo il breve periodo di passaggio su questa terra. 

La società borghese è sorta negando questi principi, è sorta chiedendo che la società risolvesse le sue contraddizioni in questo mondo e che cessassero gli ordini privilegiati e l'oppressione che ne derivava. Perciò essa ha dovuto risolvere queste contraddizioni su questa terra; ma poiché d'altro lato ha creato nuovi privilegi economici, essa ha potuto risolverle solo su un piano giuridico formale, cioè il contrasto esiste ancora, l'oppressione è ancora più dura, il proletario di oggi è in condizioni più gravi di quelle del servo della gleba; ma esso è formalmente uguale agli altri uomini. L'uguaglianza non si realizza più soltanto dinanzi alla tomba, ma dinanzi alla legge: formalmente la società borghese risolve tutte le sue contraddizioni e per ogni soperchieria brutale che il capitalismo compie, per ogni forma di sfruttamento che il capitalismo impone alle classi oppresse, esso deve sempre trovare una giustificazione ideale. Di fronte ad una contraddizione che si aggrava sul piano sociale, bisogna sempre trovare una apparenza di soluzione valida sul piano formale: ed è questo il servigio che i ceti medi rendono alle classi capitaliste, è appunto il servigio di tradurre in questo linguaggio ideale e formale le contraddizioni brutali della società. 

E non c'è nulla di più assurdo nella situazione di oggi del buon piccolo e medio borghese che ogni giorno è brutalmente spogliato della sua proprietà dal grande capitale attraverso la pressione fiscale, le svalutazioni monetarie, il giuoco di Borsa, e, ciononostante, si proclama difensore della proprietà e naturalmente della proprietà così com'è, cioè, della proprietà capitalistica, contro il socialismo. Non v'è nulla di più assurdo nella posizione di questo medio e piccolo borghese oppresso nella sua libertà, perché ogni giorno più ridotto a mero strumento della politica capitalistica — sulla quale non esercita alcuna influenza — costretto perfino ad assimilare le idee che gli fornisce bell'e fatte la stampa dell'imperialismo, la cui possibilità di informazione è annullata e la cui libertà di giudizio è violata sin nell'in-timo delle coscienze, e che ogni giorno di più si fa difensore della libertà esistente, cioè dell'ordine stabilito, contro le minacce che gli verrebbero dal socialismo. 

È veramente una situazione assurda e io la sottolineo in questo dibattito, perché credo che essa ci aiuti a mettere in rilievo quello che, secondo me, è l'elemento che va denunciato nello strumento che è sottoposto alla nostra ratifica. Il Consiglio europeo, cioè, è la maschera progressista, idealista che deve coprire due realtà brutali: la manomissione economica che l'imperialismo, il grande capitale americano, esercita sull'Europa e la politica del blocco occidentale in funzione antisovietica.

Tradurre questa politica nel linguaggio del federalismo, esprimere cioè questa realtà di sopraffazione e di soperchieria in termini ideali, è un mezzo che serve a fare accettare questa politica a molta gente in buona fede per poi servirsi di tutta questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati della popolazione dalla stessa parte. [...] 

Il compito nostro, il compito di un Partito di classe è quello di ritradurre in linguaggio di classe queste contraddizioni del mondo capitalistico, è, per esprimersi con frase marxista, quello di rendere ancora più oppressiva l'oppressione reale aggiungendovi la coscienza dell'oppressione, di lottare cioè non per contrastare il cammino della storia, ma per fare sfociare le contraddizioni, che lacerano questo mondo, nella loro vera soluzione, per risolverle non sul terreno formale e giuridico, ma sul terreno reale del superamento delle contraddizioni, cioè dell'avvento di una società migliore.

Noi voteremo quindi contro questa ratifica, perché nel Consiglio europeo vediamo molto più di quanto non sia scritto in questi articoli: vediamo una unità europea che vuol raggiungersi al servizio dei trusts americani; vediamo i passi già fatti e quelli ancora da fare semplicemente come condizioni per la migliore attuazione di una politica di classe, che noi condanniamo. 

Voi passerete oltre alla nostra opposizione, come passerete oltre alla nostra opposizione al patto atlantico. Gli strumenti di questa politica di dominazione, di questa politica di lacerazione interna, di profondi conflitti continueranno ad accumularsi nelle vostre mani e nelle mani dei vostri amici di oltre Atlantico; e nella misura in cui voi li accumulate, voi esasperate le contraddizioni della società, voi acuite la lotta di classe; nella misura con la quale li accumulate, voi avvicinate la nostra vittoria. 


È stato detto che quando la notte appare più buia, l'alba è vicina; quanto più voi crederete di aver garantito la vostra sicurezza, quanto più voi crederete di aver assicurato il vostro dominio e di avere steso sull'Europa l'ombra buia di questa reazione, tanto più vicina sarà l'alba del nuovo giorno che sta per spuntare. Noi ne abbiamo la certezza, signori del governo, perché noi siamo fra coloro che non hanno bisogno di aspettare che il sole sorga per credere alla luce.