lunedì 13 novembre 2017

La mia Patria si chiama Multinazionale



(PDF) discorso (commentato) di Eugenio Cefis presidente della Montedison all'Accademia Militare di Modena Modena, 23 febbraio 1972

Il documento che pubblichiamo qui di seguito, il discorso che un imprenditore italiano ha fatto nel febbraio scorso, è di grande interesse per almeno tre ragioni. E cioè: per chi ha fatto il discorso, per cosa è stato detto, per chi ascoltava.
Cominciamo proprio da questi ultimi, gli spettatori, tutti quanti o allievi dell'Accademia Militare di Modena, o insegnanti della medesima, o dirigenti della stessa. Pubblico eccezionale, quindi. Un bel pezzo, un pezzo importante, di quella macchina militare che anche in Italia sta prendendo velocità ben collegata com'è con il potere economico e con quello politico.
Passiamo poi alla figura dell'oratore, anche questa eccezionale: Eugenio Cefis, il presidente della Montedison, uno degli uomini, cioè, oggi più potenti del nostro paese.
E, infine, cosa è stato detto. Cefis ha chiacchierato soprattutto delle multinazionali, di quelle società cioè che operano in più stati, e che quindi sono molto grandi. Il discorso del presidente della Montedison può essere diviso tranquillamente in tre parti: nella prima spiega, o meglio magnifica, il concetto di multinazionale, e si rammarica che ne esistano ancora così poche; nella seconda parte, invece, esamina i rapporti fra queste e il potere politico, e sono le pagine dove troviamo le affermazioni più inquietanti; nella terza parte, infine, si congeda dai suoi ascoltatori lasciando loro qualche cauto consiglio, però facilmente decifrabile dietro l'apparente ovvietà, ricco di possibili conseguenze (o speranze) non proprio democratiche.
Tutta la serata, per essere brevi, ha visto l'illustrazione ai futuri quadri militari di come sarà, o Cefis spera che sia, il capitalismo dei prossimi anni, e di cosa possono fare a questo punto (di concreto, di operativo) gli allievi di un'accademia dove si ritiene ancora fondamentale saper andare a cavallo, ma dove si insegnano già la tecnologia elettronica, e forse anche il linguaggio dei calcolatori.
Il consiglio di Cefis ai militari, fra le righe, è stato molto chiaro: cercatevi un vostro specifico ruolo tecnocratico-dominante all'ombra delle grandi aziende che noi faremo. Il lavoro non vi mancherà. Anche perché, vedete, i politici funzionano sempre meno bene...
Documento importante, quindi, che riportiamo nella sua versione integrale, accompagnandolo con qualche nota per renderne più comprensibile la lettura.

Signori,

perché un ex allievo di questa Accademia torna dopo più di trent'anni tra queste mura a parlarVi di un tema così estraneo all'arte militare come le imprese multinazionali?

Perché un ex ufficiale che le vicende della guerra e del dopoguerra hanno portato su strade molto lontane dalla vita militare sente il bisogno di aprire un dialogo con i soldati di domani?

È molto semplice.

Io sono convinto che Voi sarete chiamati nei prossimi anni a svolgere un ruolo importantissimo e vorrei esserVi utile offrendo la mia esperienza come elemento di meditazione.

Io ho lasciato Modena(1) quando si pensava ancora che la guerra potesse essere vinta dalle baionette; alle spalle avevamo ancora una agricoltura di sussistenza, l'agricoltura della falce e un'industria chiusa negli schemi ristretti dell'autarchia voluta dal fascismo.

La guerra ci ha buttato allo sbaraglio contro chi ormai aveva capito che le battaglie si vincevano con i carri armati, contro chi aveva alle spalle l'agricoltura del trattore e un'economia aperta alle grandi dimensioni internazionali.

Trent'anni fa l'Ufficiale aveva ancora una funzione di tipo ottocentesco, era soprattutto uno strumento della macchina della guerra, impegnato a sacrificarsi fino in fondo per la difesa del territorio della Patria.

Poi qualcosa è cambiato nel mondo; è cambiato dal 1945, da quando le esplosioni atomiche hanno dimostrato che la guerra poteva uccidere non soltanto degli esseri umani ma l'intera umanità.

Ma nello stesso tempo i cultori dell'arte militare hanno scoperto da molteplici esperienze (e ne citiamo soltanto tre: resistenza europea, Algeria e Vietnam), che anche gli ordigni bellici più spaventosi non potevano prevalere senza l'appoggio della popolazione: in un certo senso ci siamo trovati di fronte alla rivincita della baionetta, quando dietro a quella esiste una forza morale, esiste il senso della storia. Io penso che oggi all'Ufficiale si imponga una duplice responsabilità.

Da un lato, Egli deve essere cittadino del mondo(2), perché ha un compito di dimensione mondiale per la difesa della pace; dall'altro deve comprendere sempre meglio i meccanismi politici e soprattutto economici che più della potenza militare influenzano il nostro futuro.

Gli stessi elementi che indicano la forza di un Paese sono cambiati: non contano più tanto e solo le disponibilità di risorse e di materie prime, quanto le capacità organizzative e la velocità di aggiornamento al processo tecnologico.

E più che mai è importante il senso del dovere; ma intendo quel senso del dovere che può nascere soltanto in un Paese libero, con quella libertà che in Italia è garantita dalla Costituzione repubblicana che Voi siete impegnati a difendere.

In un'epoca in cui si pensa che la terra sia una nave spaziale che fa parte di un convoglio assieme agli altri pianeti e che in un futuro non tanto lontano, per rifornirsi di materie prime ci si potrà rivolgere alle altre navi di questo convoglio, cioè gli altri pianeti, il pensare a una guerra di conquista, ad una guerra per sottrarre risorse ad un'altra nazione è tanto assurdo quanto criminale.

Faticosamente e tra mille contraddizioni, gli uomini del nostro pianeta, a oriente come ad occidente, sono alla ricerca degli strumenti migliori per garantire il progresso, il benessere e la dignità di tutta la popolazione, e quando Voi pensate al quadro mondiale in cui si inserirà la Vostra presenza, dovete ricordare sempre che anche Voi siete al servizio di questo gigantesco sforzo, ragione stessa della pace.

Ecco quindi perché io vengo a parlarVi delle imprese multinazionali; queste imprese sono uno dei maggiori protagonisti della storia recente del mondo occidentale e possiamo prevedere che, nel bene e nel male, il nostro futuro sarà in larga misura determinato dalle iniziative di questi grandi organismi economici. Per questo Voi dovete conoscerle.

Il tema delle multinazionali è molto vasto, non vorrei annoiarVi e quindi cercherò di limitarmi agli aspetti più generali rispondendo soprattutto ad alcune domande:
— che cosa sono le multinazionali?
— che conseguenze provocano nell' economia mondiale?
— come si svilupperà il rapporto tra queste società che operano su basi internazionali e gli stati sovrani che tendono sempre più a voler controllare i fatti economici che si svolgono all'interno del loro territorio?

Iniziamo il discorso dalla definizione di multinazionali.

È tutt'altro che facile.

Gli stessi teorici non sono d'accordo: c'è chi definisce come multinazionali tutte quelle società che hanno struttura produttiva in diverse nazioni, cioè che sono presenti con propri stabilimenti, e non soltanto con un'organizzazione commerciale, in molti Paesi del mondo; in questo caso già oggi le multinazionali sarebbero per lo meno alcune centinaia.

C'è invece chi dice che la multinazionalità è un punto di arrivo e che si potrà parlare di imprese multinazionali soltanto quando in un futuro più o meno lontano le scelte più importanti di un gruppo industriale non saranno effettuate soltanto in un paese, ma vi sarà un effettivo decentramento delle decisioni e, come conseguenza, ci saranno uguali prospettive di carriera fino ai massimi livelli per i dirigenti di tutte le nazionalità(3).

Se accettiamo questa definizione, dobbiamo dire che di multinazionali non ne esiste nessuna, perché quando il gruppo dirigente di un'impresa è formato tutto o quasi tutto da elementi della stessa nazionalità, dai quali dipendono in pratica le maggiori decisioni, si verifica sempre una tendenza comprensibile a scegliere i propri stretti collaboratori e quindi anche gli eventuali successori tra persone che hanno la stessa base di cultura e di linguaggio.

Questo fenomeno, del resto, non è limitato alle organizzazioni economiche, come dimostra il caso della Chiesa cattolica che, pur avendo carattere universale, ha sempre espresso da molti secoli Pontefici della stessa nazionalità(4).

Se, pertanto, accettiamo quest'ultima definizione delle multinazionali, dovremo dire che si tratta di un tipo di impresa che ancora non esiste e che al massimo oggi si può parlare di società binazionali come la Royal Dutch-Shell che è anglo-olandese o la. Pirelli-Dunlop che è italo-inglese.

Per semplicità di discorso mi si permetta comunque di rinunciare alla precisione .del teorico, e di parlare di multinazionali per definire tutte quelle aziende che oggi articolano sostanzialmente la loro attività in molti Paesi e interessano con le loro iniziative la economia di vaste aree geografiche sia dal punto di vista degli scambi di risorse e tecnologie, sia da quello degli investimenti e dei riflessi sui livelli di occupazione.

La tendenza delle imprese a guardare al di là dei confini nazionali è assai remota e può essere fatta risalire alle compagnie commerciali del '600, come la famosa Compagnia delle Indie, che pur facendo capo ad un Paese europeo possedevano e sfruttavano concessioni negli altri continenti con bandiera propria ed anche con facoltà di disporre di proprie forze armate.

Ma le prime vere società multinazionali rivolte non allo sfruttamento coloniale ma alla intensificazione degli scambi tra i Paesi più progrediti, si svilupparono nel secolo scorso con le iniziative della Shell e della Royal Dutch e in seguito negli Stati Uniti, quando questi ultimi incominciarono ad affermarsi come po-tenza economica sulla scena mondiale.

Come conseguenza, numerose società americane si insediarono in Europa e in Canada con un centinaio di unità produttive.

Ne ricordiamo alcune: la Colt, la Singer, la I.T.T.(5) la General Electric, la Westinghouse, la Kodak e la Parke Davis.

In tutti questi casi, si trattava di società con produzioni già relativamente sofisticate e di notevole contenuto tecnologico, che giustificavano la costruzione di proprie unità produttive in altri Paesi con il fatto che le proprie esportazioni in tali aree, pur già notevoli, rischiavano di non riuscire nel tempo a fronteggiare adeguatamente la minaccia di concorrenti locali.

Successivamente, nei primi anni di questo secolo, con l'avvento del motore a scoppio, presero a svilupparsi sempre più le società petrolifere, principalmente di origine americana, che avevano il problema di aumentare costantemente le proprie fonti di approvvigionamento.

La filosofia delle società petrolifere portava direttamente alla multinazionalità.
Infatti il petrolio greggio, se si fa eccezione per le cospicue risorse nord-americane, doveva essere ricercato in Paesi lontani ed arretrati.

Le possibilità di approvvigionamento mantenevano quindi un carattere aleatorio, sia perché i luoghi di origine potevano essere coinvolti in guerre coloniali, sia perché le rotte di trasporto potevano essere minacciate da fatti bellici.

Tutto ciò induceva le compagnie a teorizzare la massima flessibilità, cioè la possibilità di attingere i propri rifornimenti da diversi Paesi e anche di indirizzare i flussi del greggio verso aree di consumo sempre più diversificate.

Lo sviluppo delle società petrolifere, appunto per questi motivi, è stato enorme: la Standard Oil New Jersey, cioè la Esso, opera oggi in 100 Paesi, la Gulf in 50, la Royal Dutch-Shell è presente con circa 300 unità produttive e commerciali in tutto il mondo.

La potenza economica di queste società le induceva spesso a svolgere un ruolo di primo piano nella vita politica locale, un ruolo che poteva essere preponderante nei deboli e arretrati Paesi produttori ma, come ci insegna la storia del nostro Paese nell'immediato dopoguerra, poteva essere di tutto rilievo anche nei Paesi consumatori, soprattutto quando vi era alle spalle un consistente appoggio politico, come quello delle potenze vittoriose nell'ultimo conflitto mondiale.

Ed è proprio dopo l'ultimo conflitto mondiale che le imprese multinazionali si sono sviluppate, estendendosi a molti altri settori industriali, soprattutto quelli tecnologicamente più avanzati, per i quali le multinazionali sono una effettiva esigenza: lo sviluppo del transistor o del computer non poteva concepirsi che in condizioni di multi nazionalità(6).

Quando gli storici futuri esamineranno l'arco di questi venticinque anni, è probabile che tra le caratteristiche principali di questo periodo, che ha trasformato così radicalmente l'economia ed anche il volto politico del nostro pianeta, essi citeranno al primo posto il gigantesco incremento del volume del commercio mondiale.

Nel 1950 il volume dell'interscambio mondiale (ad eccezione dei paesi dell'est europeo) raggiunse i 153 miliardi di dollari.

Vent'anni più tardi, nel 1970, il volume dell'interscambio ha toccato, per la stessa area, i 573 miliardi di dollari (a valore costante).

In vent'anni, quindi, il volume dell'interscambio si è quasi quadruplicato. È inutile che mi dilunghi sulle ragioni di questo sviluppo. Ne citerò solo alcune:
— l'eliminazione delle restrizioni quantitative agli scambi;
— la riduzione delle protezioni tariffarie;
— la maggior liquidità dei mezzi di pagamento internazionali, cioè la maggiore facilità di effettuare pagamenti da un Paese all'altro;
— lo sviluppo sempre più accelerato del progresso tecnologico;
— la formazione di comunità economiche su scala continentale, come la Comunità europea;
— una rete di trasporti sempre più estesa ed efficiente;
— l'estensione del benessere, e quindi di un maggiore potere d'acquisto, ad uno strato sempre più ampio della popolazione mondiale.

In questo arco di tempo, quindi, le imprese si sono abituate a guardare alle grandi aree continentali come ad un unico mercato.

Anche nelle decisioni di investimento, le imprese hanno attribuito un'importanza secondaria ai confini nazionali, scegliendo per i nuovi impianti la località che poteva apparire più proficua, indipendentemente dal fatto che questa si trovasse nell'uno o nell'altro Stato.

Qualche dato può illustrare la dimensione raggiunta oggi dal fenomeno industriale multinazionale.

Il totale della produzione di beni e servizi realizzato da consociate di multinazionali, esclusa quindi la produzione di società minori, è oggi di circa 120 mila miliardi di lire.

Tale cifra è superiore al prodotto nazionale lordo di ogni Paese, ad eccezione di quelli degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica. Circa 2/3 di questa cifra riguarda le consociate di società madri aventi sede negli Stati Uniti, il restante terzo fa capo principalmente a consociate di imprese europee, principalmente inglesi, olandesi, svizzere e tedesche.

Le principali società multinazionali americane hanno oggi oltre 3.000 unità produttive all'estero; il fatturato di tali unità è circa doppio rispetto a quello delle esportazione degli Stati Uniti.
Ancora qualche dato.

Oggi il tasso di incremento del fatturato delle conso-ciate di società multinazionali è circa del 10% l'anno, mentre il prodotto nazionale lordo, cioè l'indice più significativo per misurare lo sviluppo economico di una nazione, aumenta mediamente del 5%. Tale tasso di incremento è del 40% superiore a quello delle esportazioni. In altre parole, il ritmo di crescita delle multinazionali è molto superiore a quello degli indicatori dello sviluppo di tutte le economie industriali. Sulla base di questi dati, alcuni studiosi prevedono che la quota della produzione mondiale controllata dalle multinazionali è destinata ad aumentare ulteriormente.

Considerando anche le economie di scala di cui godono queste imprese, cioè la possibilità di realizzare economie attraverso il coordinamento delle loro attività, gli stessi studiosi prevedono che nel 2000, cioè tra meno di trent'anni, oltre due terzi della produzione industriale mon-diale sarà in mano alle 200/300 maggiori società multinazionali(7).

A questo punto ci si può domandare quali ragioni spingono una società ad inserirsi con proprie unità produttive sui mercati stranieri e quali vantaggi ne ricava. In un'epoca dí mercati sempre più aperti potrebbe sembrare più agevole e vantaggioso sviluppare le proprie attività attraverso un aumento delle esportazioni. Eppure, come abbiamo detto, il fatturato delle filiali delle società multinazionali di origine americana all'estero è oggi circa doppio di quello ricavato dalle esportazioni.

In modo molto schematico possiamo indicare queste ragioni per l'espansione multinazionale:

aspirazione a raggiungere dimensioni ottimali.
Superato un determinato livello, che naturalmente è diverso da un settore produttivo all'altro, non sono più possibili economie di scala sulla produzione, cioè costruendo impianti sempre più grandi; è invece possibile aumentare le economie di scala di impresa, che si realizzano con un coordinamento dei finanziamenti, delle attività di ricerca e sviluppo, dei sistemi avanzati di gestione.

L'investimento diretto in paesi stranieri consente di realizzare queste economie attraverso:
— una maggiore distribuzione delle spese di ricerca;
— un miglior utilizzo delle conoscenze tecnologiche, delle capacità manageriali, delle tecniche di gestione e di marketing sempre più sofisticate e costose.

necessità di superare le barriere commerciali con l'insediamento di unità produttive nei mercati in cui si vuole penetrare.
Vi sono ancora moltissime aree economiche in cui le esportazioni sono pressoché impossibili a causa di tariffe doganali proibitive o di limiti quantitativi, cioè di contingenti di importazione. Se, quindi, si vogliono sfruttare le possibilità, talvolta rilevanti, offerte da tali mercati appare necessario o almeno consigliabile procedere ad un'attività produttiva sul posto.

possibilità di fronteggiare meglio situazioni congiunturali avverse.
Anziché concentrare tutte le attività produttive in un solo mercato appare talvolta più vantaggioso ripartire il proprio impegno su più mercati; si potrà così bilanciare con il successo su uno di essi i me-diocri risultati ottenuti in un altro.

necessità di fronteggiare in modo adeguato la concorrenza.
In molti casi è opportuno controbattere i produttori stranieri effettuando direttamente investimenti sul loro mercato. Inoltre, se esistono mercati terzi che presentano condizioni favorevoli, è opportuno precedere le iniziative dei concorrenti effettuando propri investimenti. Abbiamo visto che la decisione di un'impresa di trasformarsi in multinazionale, effettuando ingenti investimenti all'estero dipende soprattutto dalle esigenze della produzione e da quelle dei mercati di sbocco. La produzione e i mercati hanno caratteristiche diverse in ciascun settore industriale; è facile comprendere quindi che la caratteristica di multinazionalità è maggiormente presente in certi settori e meno in altri dove il ciclo produttivo può svolgersi in condizioni economicamente valide anche su aree limitate. In generale si può dire che le multinazionali sono presenti:

— nei settori che coinvolgono lo sfruttamento di risorse ingenti di materie prime provenienti da Paesi in via di sviluppo; qui però siamo di fronte a un tipo particolare di multinazionale di derivazione coloniale.
— nei settori tecnologicamente più avanzati.

Circa l'85% degli investimenti esteri delle società manifatturiere statunitensi è concentrato nei settori automobilistico, chimico, meccanico, elettrico ed elettronico.
Vi sono però settori che hanno importanza di primo piano per l'economia mondiale come l'acciaio o l'industria aeronautica in cui la multinazionalità non ha potuto svilupparsi soprattutto perché il potere politico li ha ritenuti di tale importanza, per ragioni di solito collegate alle esigenze della difesa, da porli sotto uno stretto controllo nazionale.

Abbiamo visto come i Paesi d'origine delle società multinazionali siano stati soprattutto gli Stati. Uniti e, in misura minore, la Gran Bretagna.

La penetrazione delle multinazionali di questi Paesi ha un carattere dominante anche in certe nazioni che possono essere considerate economicamente sviluppate, come il Canada dove 75 delle 100 maggiori società sono controllate dagli Stati Uniti o dalla Gran Bretagna, o l'Australia dove la produzione industriale è per il 40% sotto il controllo di società americane.

In Europa la presenza di una struttura industriale più consistente ed anche la maggior sensibilità politica dei Governi ha frenato il processo di sviluppo delle multinazionali senza però impedire che esso raggiungesse dimensioni imponenti.

Infatti nel 1969 gli investimenti americani in consociate europee, nella sola industria manifatturiera, hanno superato i 700 miliardi di lire.

È bene sottolineare però che certi discorsi sull'invasione industriale americana in Europa devono essere rivisti alla luce dei più recenti avvenimenti.

È vero che soprattutto attraverso le multinazionali la presenza degli Stati Uniti nella economia europea è assai consistente, ma è anche vero che si sta sviluppando pure un processo in senso inverso.
È sempre più frequente il caso di grandi società di origine europea che impiantano stabilimenti anche negli Stati Uniti.

Questa è la diretta conseguenza del sorgere anche in Europa di società multinazionali che per la logica stessa del loro sviluppo non possono rinunciare ad un mercato così ricco come il mercato nord americano; ricco ed anche interessante, perché in certi settori molto avanzati, come ad esempio il settore farmaceutico, una presenza industriale, anche limitata, in tutti i Paesi più progrediti ha la stessa funzione degli esploratori nell'arte militare: segnalare i movimenti degli avversari, essere al corrente sui prodotti più avanzati che, sperimentati dapprima sul mercato interno, saranno poi immessi sul mercato mondiale.

La multinazionale, quindi, è un fenomeno anche europeo.

Non possiamo nasconderci però che la situazione politica dell'Europa rende piuttosto difficile un processo di concentrazione industriale in senso multinazionale.

Fino a quando il nostro continente sarà frammentato in diversi stati, fino a quando la multinazionalità potrà essere identificata con uno o due Paesi d'origine, cioè con i Paesi delle società madri, le iniziative delle affiliate della multinazionale dovranno sempre combattere un certo clima di diffidenza e di sospetto dovuto al fatto che i loro centri decisionali più importanti sfuggono al controllo del potere pubblico locale(8). Prima però di entrare nel vivo di questo discorso, cioè dell'esame del complesso sistema dei rapporti tra multinazionali e stati nazionali, è opportuno esaminare brevemente come avviene il processo decisionale all'interno delle società multinazionali, cioè in sostanza chi detiene il potere di decisione in queste società che per le loro iniziative hanno dimensioni mondiali.
Nella categoria delle imprese multinazionali possiamo collocare società dalle caratteristiche più diverse: dalle imprese fortemente centralizzate che per diversi motivi concedono poco spazio all'iniziativa delle consociate, ad imprese largamente decentrate, che si basano sulla massima autonomia all'interno del Gruppo.

Di massima si può dire che l'autonomia delle consociate è maggiore:
— quando i Paesi in cui esse operano sono caratterizzati da un tenore di vita relativamente elevato;
— quando esse presentano buoni risultati gestionali, un'efficace realizzazione delle strategie di sviluppo proposte dalla casa madre, un valido sfruttamento delle possibilità offerte dal mercato locale.

E’ comunque in atto una tendenza verso l'adozione di strategie globali delle multinazionali integrate su scala mondiale e ciò soprattutto per ragioni finanziarie, di programmazione e di controllo(9).

Si tratta di un fenomeno inevitabile, collegato alla logica di comunicazioni sempre più rapide e agevoli, alla formazione di un mercato finanziario ormai su basi mondiali, al fatto stesso che molte società multinazionali delegano a loro consociate appositamente costituite certi servizi per tutto il Gruppo, come possono essere i trasporti, la ricerca, l'ingegneria.

In questo modo una società facente parte di una multinazionale ed operante su un determinato territorio nazionale viene a far capo non a una sola casa madre ma a diverse società collegate che ne controllano le diverse funzioni.

Talvolta poi i più grandi gruppi multinazionali prevedono società di controllo a due livelli; dapprima su scala continentale e poi in un'unica società mondiale che a sua volta controlla le società continentali; ed è inevitabile che una struttura di questo genere, per quanto imposta dalle esigenze dei tempi, tolga un ulteriore margine di autonomia alle consociate nazionali. Finora abbiamo parlato delle imprese multinazionali. Vediamo ora l'altro protagonista dell'economia mondiale, l'interlocutore con cui tutte le imprese multinazionali devono dialogare nelle loro iniziative: lo Stato nazionale.

Se esaminiamo il problema storicamente, vediamo subito che i rapporti tra multinazionali e potere politico si sono posti in modo diverso a seconda del grado di sviluppo del Paese in cui la multinazionale opera. Nella prima fase dello sviluppo dei Paesi del terzo mondo, le multinazionali hanno esercitato un ruolo importantissimo. Questi Paesi, infatti, hanno assolutamente bisogno per la loro crescita del patrimonio di capitali, di tecnologie e di esperienze di cui dispongono le imprese multinazionali.

D'altra parte soltanto queste imprese possono accollarsi i rischi relativi all'instabilità politica che solitamente accompagnano la fase di decollo.

In questo primo stadio, in cui la classe politica locale è ancora molto debole e spesso sottoposta a tutela di fatto da parte delle potenze ex coloniali, le imprese multinazionali possono dettare le regole del gioco. Al limite può accadere talvolta che qualche Governo proceda alla nazionalizzazione di singole unità produttive appartenenti alle multinazionali. Ma è difficile che un tale Governo riesca a reggere alla pressione politica che le multinazioni possono esercitare.

D'altra parte anche una nazionalizzazione in un Paese privo di una classe dirigente e di tecnici adeguati rischia di risolversi in una pura perdita di profitto e di prestigio.

Ben presto, infatti, i protagonisti della nazionalizzazione scoprono che non basta possedere le materie prime e magari gli impianti industriali quando mancano i mezzi di trasporto e di distribuzione nelle aree di elevato consumo.

Questo è il classico meccanismo sul quale, fino a qualche anno fa, si sono rette le cosiddette sette sorelle, che non temevano il rischio di nazionalizzazione della industria petrolifera in quanto sapevano che i Paesi in via di sviluppo non erano in grado di commercializzare da soli il petrolio greggio e i prodotti raffinati. D'altro canto, è molto difficile che un Paese ancora povero e arretrato possa permettersi di adottare iniziative politiche che scoraggino gli investimenti esteri. Le royalties che vengono versate al Paese ospitante, la valuta derivata dalle esportazioni, i salari con cui la manodopera locale è retribuita, sono fatti economici di tale rilevanza da porre in secondo piano i problemi dell'autonomia e del prestigio politico(10).

In una fase successiva, quella del decollo economico, la classe politica locale si rafforza e prende in esame soluzioni che possono servire a limitare il potere delle multinazionali.

In questa fase, la nazionalizzazione delle affiliate locali delle società multinazionali può anche dare risultati positivi, quando esiste nel Paese la possibilità di gestire, in proprio, con propri tecnici, le attività produttive.

Nello stesso tempo, la classe dirigente locale si pone il problema di come far giungere direttamente i propri prodotti nelle aree di elevato consumo.

Si cercano accordi ad altre condizioni, con altre società internazionali, magari in concorrenza con quelle già impegnate sul proprio territorio, oppure si formano associazioni di Paesi produttori che bloccano le forme di concorrenza dannosa sui prezzi di vendita delle materie prime(11).

Anche qui il settore petrolifero è caratteristico.

Certi Paesi hanno preferito ricorrere direttamente alla nazionalizzazione degli impianti di estrazione e talvolta delle raffinerie. Ma le forme più comuni di intervento dei Paesi produttori sulla politica petrolifera si attuano oggi attraverso:
— gli accordi con le compagnie di Stato dei Paesi consumatori;
— le iniziative dell'OPEC, l'organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, che permettono ai produttori di presentarsi con un fronte comune rispetto alle compagnie multinazionali.

Qualunque sia la forma di difesa adottata dal potere politico, per la multinazionale il risultato è doppiamente allarmante: da un lato sono messe in forse le fonti di approvvigionamento di tutto il sistema; dall'altro si assiste ad un'erosione dei margini di profitto. E la risposta delle multinazionali si sviluppa in due forme diverse di differenziazione delle proprie attività produttive:

— diversificando le proprie fonti di approvvigionamento per compensare le perdite subite in un Paese per eventuali nazionalizzazioni attraverso l'aumento della produzione in altri Paesi;
— attraverso l'intervento in altri settori, tecnologica-mente più avanzati, dove è assai difficile fare a meno del patrimonio di esperienza che soltanto un'organizzazione multinazionale può offrire.

Per continuare l'esempio tratto dall'industria petrolifera, la conseguenza di questa strategia è una sempre più massiccia presenza delle imprese multinazionali provenienti dal settore petrolifero nell'industria chimica e petrolchimica, che richiede conoscenze assai più progredite e più difficili da acquisire che non la semplice attività di estrazione e raffinazione del petrolio.
In questa seconda fase, anche quando gli Stati adottano una politica di massimo incoraggiamento agli investimenti esteri, il Governo locale cercherà comunque di spogliare la presenza delle multinazionali da qualsiasi addentellato politico.

Così, ad esempio, in alcuni Paesi americani, i Governi locali hanno chiesto alle affiliate delle multinazionali di rinunciare a far valere la possibilità d'intervento diplomatico e politico del Paese d'origine impegnandosi, in cambio di questa rinuncia, a comportarsi con le affiliate delle multinazionali con gli stessi criteri giuridici ed economici che valgono nei confronti delle società locali.

Esiste, infine, una terza fase che caratterizza i Paesi ormai industrializzati(12).

La classe politica locale ha ormai conseguito la sua indipendenza economica, e scopre che per mantenere il ritmo delle nazioni più ricche non può fare a meno delle imprese multinazionali e del loro apporto di capitali e tecnologia.

Il problema dei rapporti tra Stati industriali moderni e imprese multinazionali è appunto quello su cui è opportuno approfondire maggiormente il nostro discorso, anche perché ci riguarda più da vicino.
In questa fase lo Stato non deve soltanto seguire con attenzione le iniziative delle affiliate delle imprese multinazionali di origine estera ma deve anche considerare le conseguenze delle iniziative delle sue società multinazionali cioè di quelle che hanno all'interno del proprio territorio la casa madre.

Spesso, infatti, queste iniziative possono essere oggetto di preoccupazione da parte delle autorità politiche, o perché sono suscettibili di creare aree di tensione nei rapporti con altri Paesi, o anche perché aggravano gli squilibri economici all'interno del Paese stesso.
Ad esempio, quando un Paese ha difficoltà contingenti nella bilancia dei pagamenti, cioè nei conti con l'estero, preferirebbe di gran lunga che le imprese svolgessero un'azione all'interno del Paese realizzando nuovi impianti ed esportandone i prodotti anziché esportare i capitali il cui rendimento è sempre a più lungo termine.

Se il Paese ha ancora aree arretrate o permane una rilevante disoccupazione, il potere politico si preoccuperà che le risorse esportate siano sottratte allo sviluppo interno.

Bisogna naturalmente che questa giusta esigenza non si trasformi in un'ottica miope, perché abbiamo visto che spesso gli impianti che possono essere realizzati all'estero, magari attraverso joint ventures, cioè iniziative congiunte con imprese di altri Paesi, non sarebbero ugualmente realizzabili all'interno.
Impedire queste iniziative comporterebbe quindi una perdita secca nelle possibilità di esportazione di tecnologie ed anche eventualmente di forniture per gli impianti in progettazione all'estero(13).

Ma l'attuale dimensione degli Stati è compatibile con una politica efficace nei confronti delle imprese multinazionali?

Tutti i Governi si trovano oggi a dover vivere un dilemma la cui soluzione è molto difficile.

Da un lato, ci si evolve sempre più verso l'identificazione della politica con la politica economica. In altre parole, i fatti economici, dai livelli di occupazione alla produzione di reddito, dagli investimenti ai flussi di beni e servizi, sono sempre più importanti nel determinare il clima sociale e quello politico in cui il Governo deve agire.

Esiste quindi la tendenza dello Stato a controllare sempre più i fatti economici.

Questo avviene:
— attraverso l'intervento diretto, sotto forma di azien-de pubbliche;
— attraverso strumenti monetari, cioè regolando la quantità di moneta e credito a disposizione degli operatori economici;
— attraverso strumenti fiscali e tariffari, cioè con agevolazioni e sgravi fiscali che facilitino o rendano più difficile il conseguimento di determinati obiettivi, oltre che naturalmente con gli strumenti classici di azione verso l'esterno: barriere doganali, controlli finanziari e sui cambi.

L'impiego di questi strumenti è normalmente inquadrato in una politica di programmazione più o meno rigida che definisce quali devono essere gli obiettivi che lo Stato persegue in politica economica.

L'altro corno del dilemma è dato dal fatto che il territorio nazionale è sempre più insufficiente per un'economia che tende ormai a muoversi in dimensioni mondiali.
Infatti:

— Se i controlli statali creano vincoli eccessivi agli investimenti e alle operazioni in un Paese, la società multinazionale può comunque rispondere potenziando le sue attività in altre aree geografiche e disinvestendo dal Paese in cui si sente troppo contrastata.
— Gli strumenti fiscali sono di difficile impiego. Una società che opera in un solo Paese può sempre essere tassata dal Governo sulla base dei suoi guadagni effettivi, ammesso che i bilanci possano essere controllati; ma all'affiliata di una società multinazionale è abbastanza facile dimostrare al fisco di essere sempre in perdita e, al tempo stesso, essere un buon affare per la casa madre.

Basta infatti che acquisti le materie prime da un'altra società del Gruppo a un prezzo sufficientemente elevato perché produca un reddito per il Gruppo nel suo complesso(14).

— Le barriere doganali e tariffarie e in generale il controllo sui movimenti di beni e di denaro rispetto all'estero sono di applicazione sempre più difficile perché provocano una serie di ritorsioni da parte di altri Paesi.
— Anche l'impiego delle imprese di Stato ha i suoi limiti.

L'impresa di Stato risponde direttamente al potere politico, è strettamente vincolata da esigenze sociali interne ed ha senza dubbio grosse difficoltà a porsi su un piano concorrenziale rispetto alle imprese multinazionali, molto più libere nei loro movimenti tra un Paese e l'altro.

Insomma gli Stati nazionali nei loro rapporti con le imprese multinazionali sembrano spesso come i giocatori di una squadra di calcio costretti da un assurdo regolamento a giocare soltanto nella propria area di rigore lasciando ai loro avversari la libertà di muoversi a piacimento per tutto il campo(15).

Del resto, un fenomeno analogo lo sperimenterete anche Voi quando dovrete cimentarVi con i problemi della difesa di uno Stato nazionale.

Oggi, l'arte militare, Voi lo sapete benissimo, è strettamente collegata alla disponibilità di risorse finanziarie e di esperienze tecniche che un Paese può difficilmente realizzare da solo senza essere inserito in un quadro stabile di alleanze militari.

Anche dal punto di vista militare l'unica risposta possibile è quella di un allargamento della dimensione del potere politico a' livello almeno continentale(16).

La difesa del proprio Paese: si identifica sempre meno con la difesa del territorio ed è probabile che arriveremo anche ad una modifica del concetto stesso di Patria, che probabilmente i Vostri figli vivranno e sentiranno in modo diverso da Voi(17).

Del resto non ci sarebbe da stupirsi perché, come Voi sapete, il concetto di Patria è un concetto che si è trasformato nel tempo tanto che, anche all'epoca del Risorgimento, ben pochi erano i cittadini che sapevano di essere italiani e non si consideravano invece semplici abitanti del Regno delle due Sicilie o del Granducato di Toscana. 

Abbiamo visto ché il potere politico stenta a far fronte ai problemi posti dalle dimensioni internazionali dei processi economici. Ma 'deve essere chiaro, quando si pensa a questo problema, :che esso non può essere affrontato in termini statici.

Non si può chiedere alle imprese multinazionali di fermarsi ad aspettare che gli Stati elaborino una risposta adeguata sul piano politico ai problemi che esse pongono.

Così come — e l'esperienza italiana ce lo insegna —non si può chiedere al potere sindacale, che è l'altra grande forza economica che esiste negli Stati democratici moderni, di bloccare le rivendicazioni dei lavoratori in attesa che lo Stato elabori le risposte adeguate(18).

Le forze economiche hanno una loro logica di sviluppo che deve essere indirizzata dal potere politico verso i migliori risultati sul piano sociale; ma per raggiungere questo obiettivo gli Stati devono elaborare risposte sempre aggiornate, direi quasi inventare strumenti di politica economica sempre nuovi.

Si tratta insomma di una continua sfida dal cui esito dipenderà il futuro della società occidentale.
Se le forze operanti a livello nazionale non riusciranno a tenere il passo dello sviluppo economico e dei suoi problemi, assisteremo a un progressivo svuotamento del potere politico nazionale.

I maggiori centri decisionali non saranno più tanto nel Governo o nel Parlamento, quanto nelle direzioni delle grandi imprese e nei sindacati, anch'essi avviati ad un coordinamento internazionale(19).

Gli organi centrali statuali tenderanno sempre più a svolgere un compito di mediazione:
— tra l'una e l'altra impresa;
— tra le imprese e i sindacati;
— tra le imprese e gli organi di autogoverno locale, regioni e comuni, che manterranno una particolare vitalità perché in essi si esprime più intensamente la spinta dei cittadini delle democrazie moderne verso una più ampia partecipazione alla gestione della cosa pubblica. Che il sistema istituzionale si stia profondamente trasformando sotto la spinta dell'economia e soprattutto della tecnologia, lo potete constatare Voi stessi se soltanto riflettete un momento sulla spinta crescente che appunto la tecnologia imprime alla «professionalità» nel Vostro campo.

Gli eserciti nazionali basati sulla coscrizione obbligatoria potrebbero essere destinati a cedere nuovamente il passo ad apparati militari professionali analogamente a quanto avveniva alcuni secoli fa; apparati militari non dissimili nella loro carica di tecnicità da una moderna organizzazione produttiva.

È chiaro però che questo tipo di professionalizzazione delle forze militari porterebbe con sé l'enorme problema del controllo politico su un esercito fatto esclusivamente di tecnici; così come del resto già oggi si pone il problema del controllo politico su una classe manageriale il cui potere è in costante crescita(20).

Se questo è il tipo di società verso cui ci stiamo avviando, è facile prevedere che in essa il sentimento di appartenenza del cittadino allo Stato è destinato ad affievolirsi e, paradossalmente, potrebbe essere sostituito da un senso di identificazione con l'impresa multinazionale in cui si lavora.

Io non dico che questa prospettiva di svuotamento degli Stati nazionali e di annullamento di quell'insieme di valori ideologici, storici e tradizionali che essi hanno rappresentato sia la prospettiva migliore e auspicabile.

Dico solo che siamo di fronte a una tendenza di fatto della società moderna che potrà essere conciliata con quegli stessi antichi valori soltanto se il potere politico nazionale sarà in grado di rispondere alla sfida dell'economia rinnovando profondamente il proprio ruolo(21).

Che cosa può fare concretamente il potere politico per esplicare le sue funzioni di difesa degli interessi della comunità sociale senza per questo condannare il Paese a un tasso di sviluppo rallentato che si risolve in un danno per tutti?

La prima risposta, la più ovvia, è quella di favorire forme di integrazione politica su scala continentale.

È chiaro che se l'Italia è un mercato troppo ristretto per una grande impresa, l'Europa è invece il maggior mercato del mondo(22).

Se esistesse un interlocutore a livello europeo in grado di esercitare un controllo politico sulle multinazionali, con poteri ben al di là di quelli della Comunità Economica Europea, le iniziative delle multinazionali potrebbero più facilmente contribuire a risolvere gli squilibri economici anziché aggravarli.

Questa ipotesi però si potrà realizzare soltanto quando i singoli Stati nazionali rinunceranno, almeno in parte, alla loro sovranità.

È chiaro quindi che si tratta di una prospettiva non a breve termine. Vediamo invece che cosa si può fare oggi in un'Europa ancora suddivisa in numerosi Stati di dimensioni limitate.
Innanzitutto gli Stati devono farsi promotori di una regolamentazione delle iniziative industriali nel diritto internazionale(23).

Come sapete il diritto internazionale nasce dagli accordi tra gli Stati sovrani.

Questa è l'unica vera strada per cercare di risolvere problemi che non possono essere affrontati in modo unilaterale né dallo Stato ospitante, né dallo Stato di origine della multinazionale e neppure dall'impresa stessa. Quest'ultima può sembrare avvantaggiata dalla pluralità degli ordinamenti e dallo stato di incertezza e di mancanza di controlli politici.

In realtà soffre anche tutti gli inconvenienti di una situazione di confusione, che certo non favorisce gli investimenti, e deve inoltre costantemente temere le reazioni ostili che possono insorgere da parte di gruppi di pressione economica e politica locali.

Mi sembra comunque utopistica la soluzione di chi vuol instaurare un'autorità internazionale, magari nell'ambito dell'ONU, per il controllo sulle imprese internazionali(24).

È più facile e più, proficuo creare una disciplina comune, eventualmente a livello di aree continentali, armonizzando le norme giuridiche, fiscali ed amministrative vigenti nei vari Paesi, attraverso, come dicevo prima, una tenace, diuturna attività di contrattazione.

L'età in cui viviamo è del resto, chiaramente sotto il segno del negoziato e della pattuizione: perfino la programmazione da « imperativa » che era, si è fatta « contrattuale », e ogni giorno — si può dire — il diritto-imperio cede il passo al diritto-contratto.

Anche la creazione della cosiddetta Società europea, cioè di un nuovo diritto societario che permetta alle imprese di operare a pari condizioni in tutti i Paesi della Comunità Economica Europea rappresenterebbe un passo importante in questa direzione.

Ma il protagonista principale del dialogo del potere politico con le imprese multinazionali sarà ancora per molto tempo l'organo della programmazione nazionale. Ed io credo che chi è responsabile della programmazione di un Paese debba valutare l'operato delle multinazionali facendo un calcolo che va al di là di qualsiasi diffidenza xenofoba, ma anche di qualsiasi convenienza immediata.
Troppo spesso i responsabili della politica economica, quando esaminano i progetti delle imprese multinazionali dei loro Paesi, si limitano a considerarne la convenienza in termini di royalties, di imposte, di quote di importazione, di reinvestimento dei profitti.

Essi non valutano sufficientemente quelle conseguenze che non si ripercuotono immediatamente sul bilancio dello Stato, ma sull'economia in generale, e cioè il tipo di tecnologia introdotta, il livello di autonomia della impresa, la presenza o meno di attività di ricerca, i rapporti che si instaurano con il personale, la possibilità dei dipendenti del Paese di arrivare ad alti livelli decisionali.

Se gli organi della programmazione nazionale vogliono compiere una verifica di questo genere sui programmi delle grandi imprese, l'unica soluzione possibile è la continua contrattazione dei programmi aziendali.

Le imprese oggi operano con programmi a 5-10 o addirittura 20 anni; è giusto quindi che questi programmi siano continuamente verificati con quelli degli Stati per identificare tempestivamente le possibili aree di at-trito ed elaborare soluzioni prima di arrivare a conflitti insanabili.

Ha scritto uno dei maggiori esperti delle multinazionali, Christopher Tugendhat:
«la posizione delle imprese è sotto certi aspetti analoga a quella della Chiesa Cattolica in passato. Spesso Re e Imperatori temevano che la loro posizione di potere fosse indebolita dalla organizzazione internazionale della Chiesa, dalla sua influenza sulle politiche nazionali e dalle sue immense ricchezze. Di solito queste tensioni si sono risolte in due modi. Alcuni Paesi hanno rotto con Roma e hanno creato Chiese indipendenti, altri hanno negoziato concordati col Papa, definendo le rispettive sfere di influenza e creando una cornice giuridica che permettesse loro di lavorare insieme in armonia. Oggi nessun Paese industriale avanzato può creare Chiese indipendenti, cioè isolarsi totalmente dalle imprese multinazionali e internazionali, perché questo significa rinunciare a tutti i vantaggi che tali imprese possono offrire. L'impresa multinazionale è una realtà politica ed economica del mondo moderno. Se gli Stati vogliono poter godere del massimo dei benefici che le imprese possono fornire, e ridurre al minimo i costi, devono promuovere intese che permettano di lavorare assieme».

Signori, vi chiedo scusa se vi ho rubato tanto tempo, ma un argomento di questa mole e di questa importanza non poteva essere sintetizzato in poche parole.

Da quanto vi ho detto, io spero che vi sia rimasta soprattutto una sensazione: che il mondo sta cambiando rapidamente, e che il ruolo che ciascuno di noi sarà chiamato a svolgere in futuro potrebbe essere molto diverso da quanto ci aspettiamo(25).

Perciò, rivolgendomi a voi, ufficiali di domani, vorrei concludere con una esortazione: non disdegnate le scienze politiche, non trascurate lo studio dei fenomeni sociali, approfonditeli con attenzione e meditate sulle loro linee evolutive. In poche parole, occupatevi di politica(26). Non certo come militari, come casta, ma come cittadini, per dare un senso al vostro impegno di fedeltà alla Costituzione Repubblicana.

Studiate i problemi del mondo che Vi circonda; riflettete sull'importanza del Vostro ruolo in un'epoca che non può più permettersi la guerra.

La difesa della Patria, del pezzo di terra su cui si è nati e cresciuti, non si realizza oggi solo attraverso la lotta armata per difenderne i confini, ma anche con una chiara coscienza di quei valori di libertà, di democrazia e di giustizia sociale su cui è costruita la nostra Repubblica.

Siate i difensori di questi valori, e in Voi si perpetuerà la migliore tradizione dell'Esercito Italiano.

Il discorso di Cefis è finito. Poche considerazioni.
Una cosa impressiona soprattutto in questo manifesto ideologico: la sua totale riduzione a un unico «valore»: la crescita, lo sviluppo, il moltiplicarsi delle multinazionali.
Tutto lo scritto è dominato da questa logica economica assoluta che avanza sul pianeta e che ogni cosa distrugge. E per coloro che cadono, anche quando si tratta di rispettabili invenzioni borghesi come gli stati nazionali, Cefis ha poche e sbrigative parole di cordoglio. Non c'è tempo, bisogna correre avanti, verso le multinazionali sempre più grandi, sempre più potenti.
Nulla vien detto di come diavolo funzionerà questo pianeta una volta che sia stato conquistato dalle multinazionali. Nulla si dice di cosa sostituirà i partiti e gli stati che vengono dati già per defunti.
Forse, ed è l'ipotesi più credibile, Cefis è convinto che in realtà questi vecchi arnesi di mediazione sociale non abbiano più senso: le .multinazionali tengono nel loro ventre tanto benessere, ma anche tanto potere concrete interi continenti), che non è più il caso di ricorrere a sottili e complesse mediazioni. Insomma, finalmente il capitale può gettare la maschera, e presentarsi sulla scena mondiale proprio come è fatto, almeno in parte.
Continuerà, infatti, a muoversi in una zona ricca di aspetti misteriosi. Non sarà facile, cioè, capirne subito tutti gli intrecci, le alleanze, i comportamenti apparentemente contraddittori (e invece funzionali alla sua crescita).
Di un'altra cosa Cefis non parla: della possibilità che i lavoratori non siano d'accordo con questo tipo di società che si sta spianando davanti a loro.
Proprio non vi accenna nemmeno in due righe. Però deve averci pensato: liquida infatti gli stati e i partiti, ma conserva come elementi del suo discorso i sindacati.
E, in fondo, se non avesse pensato (anche senza avere il coraggio di dirlo chiaramente) che da lì, dai lavoratori, possono venire guai seri a questa cosa che sta crescendo così in fretta, perché mai insisterebbe così tanto con i militari?
Non basterebbero il loro esempio, e le loro opere di bene, per convincere il mondo?
Ma Cefis sa benissimo che non è così. L'universo multinazionale che lui descrive è soltanto, in realtà, il vecchio universo capitalistico, soltanto più semplice, più duro, più grande. Di ecumenico non avrà dentro proprio nulla.
Anzi, tutto lascia pensare che sarà ancora più inabitabile di quello che conosciamo già, di quello che viviamo adesso. L'universo cefisiano, quindi, non si presenta come universo della pace finalmente raggiunta, ma come teatro di scontri e di lotte (di classe) ancora più violente di quelle che si son già fatte: tutte le poste in gioco sono state infatti rialzate, e ogni volta che si alzerà un cartello di protesta si rischierà di prendersela  magari di tutto il mercato.
E come ci insegna la storia, quando in un gioco (nella lotta di classe) si cambiano le poste, si rialzano, cambiano anche tutte le regole: inevitabilmente.
Cefis, ai suoi amici militari, ha cominciato a spiegare quali possono essere le nuove.
Anche noi, dovremmo cominciare a spiegarcele, a ricercarle queste nuove regole.
Per questa volta, prendendo il discorso del presidente della Montedison, non abbiamo fatto altro che rubare una dispensa, un manuale, un pezzo di cultura padronale. È sicuro, però, che dovremo procurarci qualche testo più nostro, e in fretta.
(a cura di Giorgio Radice)
_________________________________________________________________________________

(1) Due parole su chi è Eugenio Cefis vanno pur dette. Vice-presidente dell'Eni ai tempi di Enrico Mattei, ne prese il posto quando questi venne liquidato facendolo esplodere per aria con il suo aereo. Mattei era impegnato nella battaglia contro le «sette sorelle» del petrolio. Cefis, invece, chiuse subito la partita, e fece pace con i petrolieri americani: l'Eni smise così di disturbare i loro affari in Nord Africa.

In anni più recenti, Cefis è stato la mente che dalla poltrona di presidente dell'Eni ha diretto la scalata alla Montedison: ha portato, cioè, l'Iri e l'Eni, le imprese pubbliche, ad avere una posizione di controllo nel più grande gruppo privato italiano. Fu un grosso scandalo: Cefis, fra l'altro, si era scordato di informare il potere politico, al quale per legge era sottoposto.

Per alcuni anni, dopo la scalata di Cefis, la Montedison venne diretta da un sindacato di controllo fatto per metà dalle aziende pubbliche e per metà da quelle private (Agnelli, Pirelli, Bastogi, ecc.). 

Dopo vari presidenti, e tanta crisi economica (la chiamavano l'«elefante malato»), Cefis si decise a fare il grande salto: lasciò l'Eni e diventò presidente della Montedison.

Da quel punto in avanti non è più possibile dire cosa sia Cefis: se un manager pubblico che lavora per lo stato, se un capitano di ventura che cavalca una società da 2000 miliardi all'anno senza averne in tasca nemmeno un'azione, se il personaggio più esposto di un blocco di potere (Fanfani), che ha individuato nella Montedison una base economica per imprese orientate verso una società un po' più efficiente, ma molto più autoritaria di quella attuale.

Quel che è certo è che in pochi mesi Cefis ha fatto fuori il vecchio sindacato di controllo. Oggi a comandare nella Montedison è lui: al centro di un complicato gioco di alleanze con gruppi italiani fra i più squalificati (Pesenti e Monti, due fascisti sicuri, più altri non migliori) e con partners stranieri di tutto rispetto (i francesi Gillet-Bizot, l'americana Esso Standard, alcuni petrolieri canadesi, ecc.), con l'aggiunta, infine, di un po' di complicità da parte di alcuni istituti pubblici (banche, sopratutto).

Nello stesso periodo di tempo, e cioè in pochi mesi, Cefis ha messo a segno alcuni grossi colpi: ha comprato la Carlo Erba, la maggiore industria farmaceutica italiana; ha cacciato i soci francesi (che però ha compensato dandogli in cambio parte della stessa Montedison) dalle aziende da lui controllate (Farmitalia, Rhodiatoce, Snia Viscosa), delle quali è diventato così il padrone assoluto; ha messo le mani sulla Bastogi, la più importante società finanziaria italiana, e se n'è prenotata un'altra, la Centrale.

Ha fatto un'autentica strage nei dirigenti Montedison che mandavano avanti la società prima che lui arrivasse, e infine ha scoperto che nel gruppo, 180 mila dipendenti sparsi in un migliaio di società, ci sono almeno 15 mila lavoratori in più, esuberanti,.dei quali quindi qualcuno dovrà occuparsi poiché lui non ne ha i mezzi.

La Montedison, infatti, va male: anche quest'anno ha chiuso il bilancio con oltre 200 mila milioni di perdite. E sta cercando di farsi finanziare dallo stato, cioè da noi, programmi chimici per quasi 2000 miliardi.

(2) L'affermazione è talmente banale da sembrare quasi stupida. Poche pagine più avanti, però, Cefis spiegherà che gli stati nazionali sono ormai delle scatole vuote, senza potere. Allora, dire che i militari sono cittadini del mondo significa già dire qualcosa di più: significa che devono organizzare il loro potere su scala internazionale più di quanto non abbiano fatto finora. Idem per l'invito ad occuparsi di politica in modo più sistematico: invito inquietante quando si è convinti che gli stati nazionali sono ormai appunto delle scatole vuote, e che in realtà non esiste un « potere politico » sul pianeta.

(3) È bene ricordare a questo punto che chi dice queste cose, Eugenio Cefis, è presidente di una società, la Montedison, che in anni recenti si è mezza distrutta proprio perché non è mai riuscita a far girare insieme i dirigenti che venivano dalla Montecatini con quelli che venivano dalla Edison. Due società, cioè, di antica tradizione milanese, e le cui rispettive sedi distano soltanto poche fermate di tram (da largo Donegani a Foro Bonaparte).

(4) Qui troviamo il primo di una lunga serie di riferimenti di Cefis alla chiesa cattolica. Lo stesso documento che state leggendo, almeno nelle sue parti principali, è stato fatto pubblicare da Cefis sul mensile «Successo», a mò di manifesto ideologico, con il titolo ambizioso ma rivelatore «La multinazionale ecumenica».

(5) La I.T.T. è quella società americana che in questi mesi è stata al centro di un colossale scandalo finanziario e politico negli Stati Uniti: è stata accusata infatti di aver complottato con la CIA contro Allende per farlo saltare da presidente del Cile, di aver finanziato il congresso del partito repubblicano per ottenere favori dall'amministrazione Nixon, e di altre cose del genere. Il suo presidente incassa ogni anno, come vi spiegano le guide turistiche di New York davanti al grattacielo della ITT, più di un miliardo di lire di stipendio.

(6) Cefis dice una cosa sacrosanta: a un certo livello di tecnologia l'unica dimensione aziendale possibile è quella multinazionale. Le spese di ricerca infatti sono tali che solo un mercato che sia l'intero pianeta permette di farvi fronte. Questo stesso fatto, però, porta le multinazionali ad operare in una specie di «zona spaziale» al di sopra dei territori e delle leggi nazionali.

(7) E La logica del capitalismo, cioè, è proprio quella della sempre maggior concentrazione. Se le previsioni di Cefis sono giuste, però, bisogna ammettere che questa concentrazione è molto più rapida di quanto si potesse pensare. Due terzi della produzione mondiale in mano a 300 società fra trent'anni, significa che partiti e sindacati nazionali come li conosciamo noi adesso, ad esempio, rischiano di non riuscire nemmeno a scalfire l'avversario di classe (che può rifarsi in un continente delle botte che ha preso in un altro). L'antico problema, cioè, di come battere il capitale si trasforma e si ripropone in termini assolutamente nuovi.

(8) Cominciano a fioccare le critiche di Cefis alla situazione politica europea, troppo arretrata, troppo immobile, troppo vecchia. Buona, ormai, per scriverci la storia.

(9) L'autonomia «nazionale» delle varie filiali delle multinazionali, cioè, può riguardare solo gli aspetti marginali, le questioni di dettaglio, non i nodi veri, reali. I centri di potere, a dispetto dell'auspicata diversa origine nazionale dei dirigenti, saranno unici e magari piantati in qualche «paradiso fiscale» della legislazione societaria così incerta da non permettere nemmeno di capire quale sia l'esatto indirizzo della società in questione. Valga per tutti l'esempio recente dei fondi di investimento, verso i quali fino a qualche anno fa c'era un entusiasmo colossale, quasi tutti piantati alle Bahamas, da dove sono spariti come fantasmi ai primi segni della bancarotta imminente.  

(10) Probabilmente, è la prima volta che un capitano dell'industria ricostruisce con tanta freddezza e lucidità la storia degli ultimi 50 anni del Medio Oriente: dove il potere politico non esiste, o è debole, comanda la multinazionale, che può disporre in patria di solidi appoggi politici. E infatti, come tutti ricordano, nel Medio Oriente inglesi, francesi e americani hanno fatto guerre, sbarchi, colpi di stato: tutto, come dice Cefis, per esercitare la necessaria «pressione politica».

(11) E qui siamo quasi nell'autobiografia: si tratta infatti della storia dell'Eni, e dei suoi rapporti con i paesi produttori di petrolio.

(12) Qui comincia la parte più interessante di tutto il discorso di Cefis: quella che ci riguarda più direttamente.  

(13) Attenzione: Cefis non si limita a spiegare che le multinazionali, facendo i loro affari un po' qua e un po' la, a volte non fanno quello che i governi locali vorrebbero. Dice, molto chiaramente, che le multinazionali, in particolari condizioni, sono in grado di assestare dei colpi terribili all'economia dei singoli stati. Una cosa gravissima, quindi. Ma vediamo come possono difendersi gli stati nazionali.

(14) Verissimo: nel 1970, vendendo benzina agli italiani, la Esso, nuova socia di Cefis, ha perso qui da noi oltre 6 miliardi di lire. La Shell ha perso soltanto un miliardo. La Bp (inglese) ci ha rimesso più di 4 miliardi, e la Total (francese) più di 800 milioni. L'Agip, invece, facendo lo stesso .mestiere ha guadagnato nel 70 più di 2 miliardi.
Adesso, Cefis ci ha spiegato com'è potuta accadere una cosa tanto strana, che per dì più si ripete da anni e anni.

(15) Ecco. Finalmente Cefis ha spiegato cosa possono fare gli stati per imbrigliare le multinazionali: niente. Al massimo possono difendersi malamente. Di attaccare non si parla nemmeno. Le multinazionali, però, sono « ecumeniche »: perché aspettarsi del male da loro?
Più avanti, comunque, Cefis sarà ancora più esplicito.

(16) Apprezzare, per favore, l'abilità con cui il presidente della Montedison. comincia a introdurre nei cervelli militari seduti davanti a lui il sospetto che la sorte degli eserciti è ormai quella delle imprese industriali: la multinazionalità, cioè, una scala operativa che sia «almeno continentale» (ma l'ideale sarebbe appunto la Nato; che, come si sa, attraversa addirittura l'oceano).

(17) E qui, francamente, come ex allievo dell'Accademia Militare di Modena Cefis ha superato se stesso: la Patria è un ferrovecchio, state attenti perché fra qualche anno avremo da misurarci con qualcos'altro. E voi, intanto? Aggiornatevi, altrimenti sarete tagliati fuori.
Ricordarsi, è importante, che poche righe prima Cefis ha spiegato che le risorse. finanziarie e tecniche per una buona guerra multinazionale possono venire soltanto, appunto, dalle multinazionali. E che gli stati, come ribadirà fra poco, sono robe d'altri tempi.
Insomma: prima gli ha indicato quale tipo di lavoro militare sarà richiesto nei. prossimi .anni, adesso gli sta spiegando chi saranno gli eventuali datori di lavoro: le multinazionali.

(18)Questo è il cuore del discorso di Cefis: le multinazionali non possono attendere, devono obbedire al loro destino che è quello di coprire l'intero pianeta con i loro uffici e i loro prodotti. Se gli stati non riescono a tenere il passo, ebbene, peggio per loro.
Ma subito Cefis lancia un ponte ai sindacati, alle organizzazioni, cioè, che oggi più dei partiti rappresentano i lavoratori. E nemmeno questi, i lavoratori, dice Cefis, possono aspettare che gli stati trovino il modo di regolarsi con le multinazionali. Insomma: queste società planetarie di cui Cefis sta parlando da più di mezz'ora possono essere immaginate come degli autobus sui quali c'è posto e prosperità per i lavoratori, i loro sindacati, ma non per gli stati nazionali e per i partiti (che infatti non vengono nemmeno nominati durante tutta la conferenza: già rimossi, già eliminati dal cervello del presidente?).
Saltano, insomma, tutte le mediazioni politiche: restano di fronte i padroni e i sindacati operai, l'ultima trincea organizzativa delle masse. I primi però, i padroni, sono gli unici capaci di dare un lavoro, i mezzi tecnici, i soldi, oltre che agli operai, anche ai militari.
E fascismo? È la nuova società corporata? È il nuovo capitalismo?

(19)Finalmente, dopo 17 pagine di discorso, l'ha detto: a comandare saranno, in prima persona, le grandi società multinazionali. Agli stati nazionali, come spiega due righe più sotto, saranno riservati semplici compiti di mediazione. O meglio: gli stati saranno ridotti a delle specie di salotti dove i protagonisti veri del pianeta, le multinazionali e i lavoratori, più precisamente: i loro sindacati, il capitale e il lavoro insomma, si recheranno a discutere le loro controversie.
Probabilmente con i militari, e del tipo allucinante descritto dieci righe più sotto, che sorvegliano gli ingressi e che magari passano l'aria condizionata.

(20) Insomma: l'immagine dei futuri militari comincia poco a poco a prendere corpo: devono essere integrati su scala multinazionale, soldi e mezzi tecnici vengono dalle multinazionali, saranno inevitabilmente dei professionisti a tempo pieno (nemmeno più legati alla patria, che. nel frattempo sarà sparita). In breve: dei centurioni che viaggiano in jet, comunicano fra di loro con reti radar di cui nessun altro può avere il controllo, dispongono di armi micidiali. Certo allora che il problema del «controllo politico» su gente del genere si pone.
Ma chi può esercitarlo, se Cefis vede giusto? Il padreterno, oppure Ford, o la Esso, o Cefis stesso?

(21) Cefis non auspica, non spera, lui registra obiettivamente: il pianeta sarà delle multinazionali. E allora pone, per la terza o la quarta volta, l'angoscioso interrogativo: ma gli stati nazionali cosa possono fare?

(22) Rileggere, per favore, e più volte. Questo è un passaggio dialettico di cui più di un sofista si sarebbe vantato per anni. Ricostruiamolo: cosa possono fare gli stati nazionali per difendersi da tutte queste multinazionali che avanzano? Risposta: «favorire forme di integrazione politica su scala continentale». Bene, giusto, così gli stati saranno più forti e potranno difendersi meglio. E invece no. La risposta giusta è: l'Europa è il maggior mercato del mondo. E infatti, dieci righe più avanti, Cefis spiegherà che l'integrazio-ne politica europea è qualcosa che si colloca lontano nel futuro, quella economica invece è più a portata di mano. Quindi: come difendersi dalle. multinazionali? Preparando loro un bel mercato, grande come l'Europa, dove potranno crescere e svilupparsi come funghi.

(23) Si può tornare a sperare. Cefis parla di buone leggi internazionali, che vanno fatte, per controllare le multinazionali. Basta proseguire, però, la let-tura per un altro paio di capoversi e la delusione è di nuovo completa: Cefis spiega, giustamente, che le multinazionali non crescono bene nel casino legislativo dei vari stati. Quindi, si facciano buone leggi multinazionali.

(24) Liquidata in tre righe l'Onu, Cefis si lancia per alcune pagine in una serie di carezze verso gli stati nazionali, trattati finora come dei cadaveri ingombranti. Spiega loro con calma e pazienza quali enormi vantaggi possono portare ai loro assistiti (i cittadini). Tanti buoni affari, tanta tecnologia d'avanguardia, tante belle intese al di sopra dei mari e degli oceani. E tutte le critiche che aveva fatto nelle pagine precedenti? Scomparse: adesso le multinazionali non sono più quelle cose che possono provocare guasti incredibili all'economia dei singoli stati. Sembrano tutte la dea-primavera intenta a distribuire sulla terra fiori e messi di grano.
Come mai? È l'altra faccia della medaglia: Cefis, cioè, come prima non ha nascosto che le multinazionali possono essere una cattiva cosa, adesso vuole spiegare perché possono essere, anzi sono, un'ottima cosa.
Qualche riga più sotto, infine, concluderà, con un'oggettività liquidatoria impressionante, che gli stati nazionali, volendo, possono anche mettersi in testa di fare la guerra alle multinazionali, ma che proprio non è il caso: sarebbero comunque perdenti: e allora «Se gli stati vogliono poter godere del massimo dei benefici che le imprese possono fornire, e ridurre al minimo i costi, devono promuovere intese che permettano di lavorare assieme».
Insomma, via ogni progetto di guerra, si facciano i grandi mercati (quello europeo prima di tutti), si facciano delle buone leggi multinazionali così tutto sarà più chiaro, e si discuta fra stati e multinazionali: chi si sarà comportato bene sarà trattato bene. Va da sé che però dovremo mandare lì i militari professionisti, che dovremo preoccuparci in qualche mo do degli stati che stanno morendo. Va da sé, cioè, che dovremo preoccuparci di comandare. Questo, in sintesi, l'universo cefisiano della multinazionali.

(25) Ne siamo più che convinti: con gli stati nazionali che spariscono, le multinazionali che comandano, i militari che diventano professionisti, certo che il ruolo di « ciascuno di noi » potrebbe essere molto diverso.

(26) Appunto, cari militari, occupatevi di politica, di politica, e ancora di politica. Studiate i fenomeni sociali. La vostra futura guerra, permanente, non sarà infatti contro un altro esercito, ma tutta dentro la società, preparatevi.




Nessun commento:

Posta un commento