di Ferdinando Vianello ( pubblicato su Rinascita - 1983 )
(PDF)Il marginalismo che si afferma
negli ultimi decenni del secolo può essere considerato come l'erede legittimo
dell'economia «volgare», della quale tuttavia non ripete le ingenuità. Al
contrario, il marginalismo è una costruzione compatta, elegante: da pochi
generalissimi postulati, procedendo deduttivamente, si deduce appunto il
comportamento economico in tutti i suoi aspetti, dai grandi temi della
distribuzione del reddito agli aspetti più minuti, fino al prezzo dei biglietti
sull'autobus.
Secondo la classica definizione
di Robbins, l'economia è la scienza che studia il rapporto fra mezzi e fini,
fra fini e mezzi scarsi impiegabili per usi alternativi; cioè l'economia studia
un problema di allocazione ottimale delle risorse del tutto legittimo in quanto
problema ingegneristico. La massimizzazione sotto vincolo, procedimento cardine
dell'economia marginalista, si riteneva e si ritiene che descriva anche il
concreto operare del sistema economico in condizioni concorrenziali. E anche
quando l’evidenza dei fatti costringeva, e costringe, a riconoscere che le cose
non vanno esattamente cosi, tuttavia si faceva e si fa riferimento a questo
modello, salvo poi avvicinarsi alla realtà, ragionando per spostamenti rispetto
a un modello che però rimane uguale a se stesso. Ossia: i fattori della
produzione (terra, lavoro e capitale), grazie all'azione della concorrenza,
vengono sempre pienamente impiegati: nel senso che restano disoccupati solo
quei fattori della produzione che vengono offerti a un prezzo superiore a quello
di equilibrio, Per esempio, i lavoratori che restano disoccupati sono quei
lavoratori i quali non sono disposti a lavorare al salario di equilibrio. La remunerazione
dei fattori riflette la scarsità relativa dei fattori stessi e misura il loro
contributo alla produzione, il contributo marginale alla produzione. C'è un contributo
del capitale, un contributo della terra, un contributo del lavoro che
felicemente concorrono e mettono capo al prodotto sociale.
Come ha reagito il marxismo davanti
al predominio della teoria marginalista, La quale ha aspetti di eleganza
formale e di onnicomprensività che la rendono effettivamente affascinante e
spiegano il predominio di cui ha così a lungo goduto? La reazione del marxiano
è stata eminentemente difensiva, di arroccamento, in particolare intorno alla
grande bandiera della teoria del valore-lavoro.
Diversa è stata la strada battuta
da Piero Sraffa, il quale ha puntato il dito su un aspetto decisivo della costruzione
marginalista, e ha rivolto una critica per la prima volta capace di mordere sul
terreno dell'avversario e non semplicemente di testimoniare la propria
alterità. L'aspetto decisivo è che l'intensità di capitale delle tecniche non
può essere definita indipendentemente dalla distribuzione del reddito, e non può
quindi essere usata per determinare la distribuzione stessa; che le tecniche
produttive non sono di conseguenza ordinabili secondo una scala di intensità di
capitale.
Ciò significa che non esiste un
fattore della produzione che possa essere chiamato capitale: esiste un insieme
di mezzi di produzione che sono merci, che sono a loro volta prodotti — in
questo senso produzione di merci a mezzo di merci — e i cui prezzi obbediscono
quindi alle regole generali che valgono per i prezzi di tutte le merci. Il sottotitolo
dei testo di Sraffa — «Premesse a una critica della teoria economica » —
ricorda irresistibilmente quello del Capitale: «Critica dell'economia politica
». In effetti, la demolizione del concetto di capitale come fattore della
produzione rappresenta la ripresa oggi della critica dell'economia politica.
Ma torniamo all'economia politica
classica, a Ricardo: nella sua visione del sistema economico del capitalismo
come essenzialmente finalizzato alla produzione di valori d'uso e non di valori
di scambio, sostiene che il problema della domanda non si pone neppure. Nessuno
produce se non in vista di consumare, o di vendere, e nessuno vende se non ha
intenzione di comprare, Cioè, se ciascuno vende con l'intenzione di comprare,
non solo, ma compra effettivamente per un valore pari a quello che ha venduto,
è evidente che la domanda sarà in qualsiasi caso in grado di assorbire la
produzione, qualunque essa sia, E' questa la legge di Say, o legge dei mercati,
la quale ha la sua origine in Adamo Smith, che aveva insegnata che ciò che è
risparmiato nel corso di un anno è contemporaneamente consumato ma da una
categoria diversa di persone; cioè, ciò che i capitalisti non consumano, lo
impiegano necessariamente nel mantenimento di nuovi lavoratori produttivi (il che,
per Smith e Ricardo, che ignorano il concetto marxiano di capitale costante,
coincide per definizione con l'investimento). Adamo Smith sfugge alla contraddizione
oggettiva, ammettendo che il commercio internazionale possa compensare
l'eventuale eccedenza produttiva rispetto al consumo interno; Ricardo non
ammette assolutamente la possibilità di tale eccedenza.
I suoi interlocutori, dal canto
loro, non furono mai in grado di demolire questa sua premessa. Il ragionamento
di Ricardo si basava sull'identificazione delle decisioni di risparmio con le
decisioni di investimento.
Fu invece Marx a demolire questa
tesi. Assai prima di Keynes, egli critica la legge di Say, respinge l'idea che
tutto il risparmio (nella sua terminologia, tutta la parte dei plusvalore non consumato
ai capitalisti) si converta necessariamente in investimento. Rimane però in
Marx — ed è, se vogliamo, un elemento di debolezza — l'idea che il plusvalore
necessariamente preceda lnvestimento (idea che verrà demolita da Kalecky e da
Keynes); ma ciò non significa che tutto il plusvalore si converta in investimento.
Tutte le volte che la spesa dei capitalisti per beni di lusso e per beni di investimento
è inferiore all'ammontare del plusvalore prodotto, vi sarà — per Marx —
un'insufficienza di domanda, e non tutto il plusvalore risulterà realizzato. In
questa distinzione fra plusvalore prodotto e plusvalore realizzato è insito il
concetto del limite che la domanda pone alla produzione, e cioè, la possibilità
dell'insufficienza di domanda.
Ed è da qui che muoverà Kalecky per
fare il passo in più che Marx non aveva compiuto, e per giungere alla
conclusione che è la spesa dei capitalisti a determinare i profitti e non il
contrario, secondo la famosa formula che, mentre i lavoratori spendono quello
che guadagnano, i capitalisti guadagnano quello che spendono: maggiori sono gli
investimenti, ossia la domanda gestita dai capitalisti, e maggiore è il reddito;
più alto è il livello dell'attività produttiva, e maggiori sono i profitti che
ne derivano. E d'altra parte, se la domanda gestita dai capitalisti diminuisce,
si contrae l'intero sistema: si avranno licenziamenti nei settori di beni
d'investimento, minore domanda di beni di consumo da parte del lavoratori,
contrazione dell'attività produttiva e dell'occupazione nel settore dei beni di
consumo, e contrazione dei profitti.
Mi sono soffermato un momento su
questa tesi perché mi sembra che, nella visione di Keynes, l'idea di Marx che
il sistema capitalistico sia essenzialmente votato alla produzione di valori di
scambio, e non di valori d’uso, viene portata alle estreme conseguenze: cioè la
produzione di beni di consumo si presenta come una sorta di sottoprodotto, di
appendice della produzione di beni di investimento; la produzione di beni di
consumo per i lavoratori non genera la propria domanda, perché i lavoratori
producono più beni di consumo di quelli che sono in grado di acquistare, e
quindi la produzione di beni di consumo è legittima, è giustificata dal punto
vista capitalistico soltanto se c'è un supplemento di domanda di beni di
consumo che proviene dai lavoratori impiegati nella produzione dei beni di
investimento. Quindi, la produzione di beni di consumo, è un accidente nella
produzione complessiva, non ha una giustificazione sua propria, non ha un senso
in sé.
Ebbene, sono le stesse
conclusioni, sia pure diversamente, espresse, a cui giungono Keynes e Kalecky
intorno alla metà degli anni trenta. Ma Kalecky vi arriva proprio lavorando
sull'intuizione dl Marx, attorno agli schemi di produzione, mentre Keynes
considerò sempre Marx come un ricardiano, che per Keynes vuol dire un adepto
della legge di Say. Ed è rimasta un'opinione comune consolidata fra i
keynesiani che appunto Marx si mantenga in sostanza fedele alla legge di Say e,
in particolare, che Marx non veda gli investimenti come componente della
domanda effettiva, ma solo come creazione di capacità produttiva.
In effetti, Marx presenta Ie
crisi come il risultato di un eccesso di investimento, mentre in una visione
keynesiana esse apparirebbero come la conseguenza di una deficienza di
investimenti, essendo gli investimenti la componente dinamica portante della
domanda.
Marx vede il sistema
capitalistico stretto in una morsa fra l'accumulazione, che determina lo
sviluppo delle forze produttive, e la ristrettezza del consumo, legata a una
distribuzione antagonistica del reddito. L'obiezione keynesiana è che, se gli
investimenti sono sufficientemente elevati, il problema scompare, perché esiste
comunque un livello di investimenti capace di generare la domanda occorrente ad
assorbire la produzione. Riesce però difficile supporre che Marx non lo
sapesse: gli schemi di riproduzione sono appunto costruiti su questa ipotesi,
cioè si assume che il livello degli investimenti sia appunto quello richiesto,
e si studiano altri problemi connessi con la proporzione fra i diversi settori.
Marx sembra ritenere non già che non sia definibile un livello di investimento
sufficientemente elevato da consentire l'assorbimento della produzione, ma che
un simile ammontare di investimento non verrà di fatto eseguito: e cioè che, se
i consumi non si espandono a un ritmo sufficiente, non si può contare sull’espansione
degli investimenti come fonte sufficiente di domanda, giacché gli investimenti,
mentre creano domanda, creano anche
capacità produttiva, e quindi non fanno che rinviare il problema. D’altra parte
però, Marx nega la facile via d’uscita dal sottoconsumismo classico consistente
nell’aumento dei salari cioè in una redistribuzione del reddito a favore dei
lavoratori, non già perché una simile redistribuzione non serva ad attenuare la
deficienza di domanda, ma perché, ciò facendo, essa crea altri problemi al
sistema capitalistico con la riduzione del saggio di profitto.
Facciamo un passo indietro. Ho
detto che per Marx il saggio di profitto e la redistribuzione del reddito sono
indipendenti dalla domanda, così come avveniva per Ricardo. Questi si serviva
della legge di Say per sostenere implacabilmente che in qualunque caso la
domanda si adegua alla produzione, e dunque non può avere nessuna influenza sui
profitti; certo, i profitti sono alti quando la domanda è sostenuta, e sono
bassi quando la domanda è fiacca, ma questo è sempre un fatto temporaneo, perché
alla lunga la domanda non può che adeguarsi alla produzione, all’offerta, e
quindi la domanda non ha nessun ruolo nella distribuzione del reddito nel lungo
periodo. Ricardo si riferisce sempre a quelle che vorrei chiamare situazioni
compiutamente assestate, cioè a situazioni in cui il processo di adeguamento
della domanda all’offerta si da per avvenuto, dopo di che si confrontano queste
situazioni e si ricava una relazione inversa fra salari e profitti nella quale la domanda è stata preventivamente
messa fuori gioco.
Marx invece rifiuta la legge di
Say; ma mantiene il metodo delle situazioni compiutamente assestate, ossia
l’idea che la distribuzione del reddito , il saggio del profitto siano
indipendenti dal gioco della domanda e dell’offerta. Ma, per lui, ciò accade
non perché la domanda passivamente si adegua all’offerta, ma viceversa perché
l’offerta si adegua alla domanda. Nelle due teorie della distribuzione, di Marx
e di Ricardo, la domanda viene messa fuori gioco ma per un motivo opposto e
simmetrico. Ci sono molti passi di Marx che ci suggeriscono questa linea di
lettura, che d’altronde è anche l’unica possibile una volta scartata la
motivazione ricardiana della legge di Say dell’adeguamento della domanda
all’offerta; per esempio, gli accenni alla distruzione di capitale come
strumento attraverso cui la capacità produttiva e installata si adegua a quella
che è richiesta per produrre, con il grado medio normale di utilizzazione, le
merci per le quali vi è domanda; cioè l’idea che non si produce tutto ciò che è
possibile produrre con la capacità produttiva esistente, fidando
nell’adeguamento automatico della domanda, ma al contrario è la capacità
produttiva ad adeguarsi di fronte alla caduta di domanda, attraverso la
distruzione di capitale.
Questo precedente ci aiuta forse
a comprendere meglio un aspetto della costruzione teorica di Sraffa, in
Produzione di merci a mezzo di merci, che ha suscitato qualche incomprensione.
In lui, le quantità di merci prodotte e le quantità delle merci impiegate come
mezzi di produzione sono assunte come date; ma questo, si è obiettato, non è
altro che uno schema di contabilità nazionale. Ebbene, le quantità come le
intende Sraffa, sia di merci prodotte, sia di merci usate come mezzi di
produzione, non sono e non possono essere altro che quelle che il mercato
assorbe ai prezzi naturali, quelli che garantiscono l’uniformità del saggio di
profitto. E cioè si da per avvenuto il processo di adeguamento delle quantità
prodotte alla domanda, e delle quantità di mezzi di produzione alle esigenze
produttive, e poi si ricava la relazione inversa fra salario e saggio di
profitto, confrontando fra di loro situazioni compiutamente assestate. E’ di
qui che oggi parte il compito, certamente difficile e impegnativo, di
ricostruire una teoria economica su basi non marginaliste.
(La sintesi della relazione
dedicata al tema “La 'critica dell'economia politica ieri e oggi” che qui
pubblichiamo non è stata rivista dall'autore).
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