giovedì 13 ottobre 2016

La critica dell'Economia Politica ieri e oggi

di Ferdinando Vianello ( pubblicato su Rinascita - 1983 )

(PDF)Il marginalismo che si afferma negli ultimi decenni del secolo può essere considerato come l'erede legittimo dell'economia «volgare», della quale tuttavia non ripete le ingenuità. Al contrario, il marginalismo è una costruzione compatta, elegante: da pochi generalissimi postulati, procedendo deduttivamente, si deduce appunto il comportamento economico in tutti i suoi aspetti, dai grandi temi della distribuzione del reddito agli aspetti più minuti, fino al prezzo dei biglietti sull'autobus.

Secondo la classica definizione di Robbins, l'economia è la scienza che studia il rapporto fra mezzi e fini, fra fini e mezzi scarsi impiegabili per usi alternativi; cioè l'economia studia un problema di allocazione ottimale delle risorse del tutto legittimo in quanto problema ingegneristico. La massimizzazione sotto vincolo, procedimento cardine dell'economia marginalista, si riteneva e si ritiene che descriva anche il concreto operare del sistema economico in condizioni concorrenziali. E anche quando l’evidenza dei fatti costringeva, e costringe, a riconoscere che le cose non vanno esattamente cosi, tuttavia si faceva e si fa riferimento a questo modello, salvo poi avvicinarsi alla realtà, ragionando per spostamenti rispetto a un modello che però rimane uguale a se stesso. Ossia: i fattori della produzione (terra, lavoro e capitale), grazie all'azione della concorrenza, vengono sempre pienamente impiegati: nel senso che restano disoccupati solo quei fattori della produzione che vengono offerti a un prezzo superiore a quello di equilibrio, Per esempio, i lavoratori che restano disoccupati sono quei lavoratori i quali non sono disposti a lavorare al salario di equilibrio. La remunerazione dei fattori riflette la scarsità relativa dei fattori stessi e misura il loro contributo alla produzione, il contributo marginale alla produzione. C'è un contributo del capitale, un contributo della terra, un contributo del lavoro che felicemente concorrono e mettono capo al prodotto sociale.
Come ha reagito il marxismo davanti al predominio della teoria marginalista, La quale ha aspetti di eleganza formale e di onnicomprensività che la rendono effettivamente affascinante e spiegano il predominio di cui ha così a lungo goduto? La reazione del marxiano è stata eminentemente difensiva, di arroccamento, in particolare intorno alla grande bandiera della teoria del valore-lavoro.

Diversa è stata la strada battuta da Piero Sraffa, il quale ha puntato il dito su un aspetto decisivo della costruzione marginalista, e ha rivolto una critica per la prima volta capace di mordere sul terreno dell'avversario e non semplicemente di testimoniare la propria alterità. L'aspetto decisivo è che l'intensità di capitale delle tecniche non può essere definita indipendentemente dalla distribuzione del reddito, e non può quindi essere usata per determinare la distribuzione stessa; che le tecniche produttive non sono di conseguenza ordinabili secondo una scala di intensità di capitale.

Ciò significa che non esiste un fattore della produzione che possa essere chiamato capitale: esiste un insieme di mezzi di produzione che sono merci, che sono a loro volta prodotti — in questo senso produzione di merci a mezzo di merci — e i cui prezzi obbediscono quindi alle regole generali che valgono per i prezzi di tutte le merci. Il sottotitolo dei testo di Sraffa — «Premesse a una critica della teoria economica » — ricorda irresistibilmente quello del Capitale: «Critica dell'economia politica ». In effetti, la demolizione del concetto di capitale come fattore della produzione rappresenta la ripresa oggi della critica dell'economia politica.

Ma torniamo all'economia politica classica, a Ricardo: nella sua visione del sistema economico del capitalismo come essenzialmente finalizzato alla produzione di valori d'uso e non di valori di scambio, sostiene che il problema della domanda non si pone neppure. Nessuno produce se non in vista di consumare, o di vendere, e nessuno vende se non ha intenzione di comprare, Cioè, se ciascuno vende con l'intenzione di comprare, non solo, ma compra effettivamente per un valore pari a quello che ha venduto, è evidente che la domanda sarà in qualsiasi caso in grado di assorbire la produzione, qualunque essa sia, E' questa la legge di Say, o legge dei mercati, la quale ha la sua origine in Adamo Smith, che aveva insegnata che ciò che è risparmiato nel corso di un anno è contemporaneamente consumato ma da una categoria diversa di persone; cioè, ciò che i capitalisti non consumano, lo impiegano necessariamente nel mantenimento di nuovi lavoratori produttivi (il che, per Smith e Ricardo, che ignorano il concetto marxiano di capitale costante, coincide per definizione con l'investimento). Adamo Smith sfugge alla contraddizione oggettiva, ammettendo che il commercio internazionale possa compensare l'eventuale eccedenza produttiva rispetto al consumo interno; Ricardo non ammette assolutamente la possibilità di tale eccedenza.

I suoi interlocutori, dal canto loro, non furono mai in grado di demolire questa sua premessa. Il ragionamento di Ricardo si basava sull'identificazione delle decisioni di risparmio con le decisioni di investimento.

Fu invece Marx a demolire questa tesi. Assai prima di Keynes, egli critica la legge di Say, respinge l'idea che tutto il risparmio (nella sua terminologia, tutta la parte dei plusvalore non consumato ai capitalisti) si converta necessariamente in investimento. Rimane però in Marx — ed è, se vogliamo, un elemento di debolezza — l'idea che il plusvalore necessariamente preceda lnvestimento (idea che verrà demolita da Kalecky e da Keynes); ma ciò non significa che tutto il plusvalore si converta in investimento. Tutte le volte che la spesa dei capitalisti per beni di lusso e per beni di investimento è inferiore all'ammontare del plusvalore prodotto, vi sarà — per Marx — un'insufficienza di domanda, e non tutto il plusvalore risulterà realizzato. In questa distinzione fra plusvalore prodotto e plusvalore realizzato è insito il concetto del limite che la domanda pone alla produzione, e cioè, la possibilità dell'insufficienza di domanda.

Ed è da qui che muoverà Kalecky per fare il passo in più che Marx non aveva compiuto, e per giungere alla conclusione che è la spesa dei capitalisti a determinare i profitti e non il contrario, secondo la famosa formula che, mentre i lavoratori spendono quello che guadagnano, i capitalisti guadagnano quello che spendono: maggiori sono gli investimenti, ossia la domanda gestita dai capitalisti, e maggiore è il reddito; più alto è il livello dell'attività produttiva, e maggiori sono i profitti che ne derivano. E d'altra parte, se la domanda gestita dai capitalisti diminuisce, si contrae l'intero sistema: si avranno licenziamenti nei settori di beni d'investimento, minore domanda di beni di consumo da parte del lavoratori, contrazione dell'attività produttiva e dell'occupazione nel settore dei beni di consumo, e contrazione dei profitti.

Mi sono soffermato un momento su questa tesi perché mi sembra che, nella visione di Keynes, l'idea di Marx che il sistema capitalistico sia essenzialmente votato alla produzione di valori di scambio, e non di valori d’uso, viene portata alle estreme conseguenze: cioè la produzione di beni di consumo si presenta come una sorta di sottoprodotto, di appendice della produzione di beni di investimento; la produzione di beni di consumo per i lavoratori non genera la propria domanda, perché i lavoratori producono più beni di consumo di quelli che sono in grado di acquistare, e quindi la produzione di beni di consumo è legittima, è giustificata dal punto vista capitalistico soltanto se c'è un supplemento di domanda di beni di consumo che proviene dai lavoratori impiegati nella produzione dei beni di investimento. Quindi, la produzione di beni di consumo, è un accidente nella produzione complessiva, non ha una giustificazione sua propria, non ha un senso in sé.

Ebbene, sono le stesse conclusioni, sia pure diversamente, espresse, a cui giungono Keynes e Kalecky intorno alla metà degli anni trenta. Ma Kalecky vi arriva proprio lavorando sull'intuizione dl Marx, attorno agli schemi di produzione, mentre Keynes considerò sempre Marx come un ricardiano, che per Keynes vuol dire un adepto della legge di Say. Ed è rimasta un'opinione comune consolidata fra i keynesiani che appunto Marx si mantenga in sostanza fedele alla legge di Say e, in particolare, che Marx non veda gli investimenti come componente della domanda effettiva, ma solo come creazione di capacità produttiva.

In effetti, Marx presenta Ie crisi come il risultato di un eccesso di investimento, mentre in una visione keynesiana esse apparirebbero come la conseguenza di una deficienza di investimenti, essendo gli investimenti la componente dinamica portante della domanda.

Marx vede il sistema capitalistico stretto in una morsa fra l'accumulazione, che determina lo sviluppo delle forze produttive, e la ristrettezza del consumo, legata a una distribuzione antagonistica del reddito. L'obiezione keynesiana è che, se gli investimenti sono sufficientemente elevati, il problema scompare, perché esiste comunque un livello di investimenti capace di generare la domanda occorrente ad assorbire la produzione. Riesce però difficile supporre che Marx non lo sapesse: gli schemi di riproduzione sono appunto costruiti su questa ipotesi, cioè si assume che il livello degli investimenti sia appunto quello richiesto, e si studiano altri problemi connessi con la proporzione fra i diversi settori. Marx sembra ritenere non già che non sia definibile un livello di investimento sufficientemente elevato da consentire l'assorbimento della produzione, ma che un simile ammontare di investimento non verrà di fatto eseguito: e cioè che, se i consumi non si espandono a un ritmo sufficiente, non si può contare sull’espansione degli investimenti come fonte sufficiente di domanda, giacché gli investimenti, mentre creano domanda,  creano anche capacità produttiva, e quindi non fanno che rinviare il problema. D’altra parte però, Marx nega la facile via d’uscita dal sottoconsumismo classico consistente nell’aumento dei salari cioè in una redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori, non già perché una simile redistribuzione non serva ad attenuare la deficienza di domanda, ma perché, ciò facendo, essa crea altri problemi al sistema capitalistico con la riduzione del saggio di profitto.

Facciamo un passo indietro. Ho detto che per Marx il saggio di profitto e la redistribuzione del reddito sono indipendenti dalla domanda, così come avveniva per Ricardo. Questi si serviva della legge di Say per sostenere implacabilmente che in qualunque caso la domanda si adegua alla produzione, e dunque non può avere nessuna influenza sui profitti; certo, i profitti sono alti quando la domanda è sostenuta, e sono bassi quando la domanda è fiacca, ma questo è sempre un fatto temporaneo, perché alla lunga la domanda non può che adeguarsi alla produzione, all’offerta, e quindi la domanda non ha nessun ruolo nella distribuzione del reddito nel lungo periodo. Ricardo si riferisce sempre a quelle che vorrei chiamare situazioni compiutamente assestate, cioè a situazioni in cui il processo di adeguamento della domanda all’offerta si da per avvenuto, dopo di che si confrontano queste situazioni e si ricava una relazione inversa fra salari e profitti nella  quale la domanda è stata preventivamente messa fuori gioco.

Marx invece rifiuta la legge di Say; ma mantiene il metodo delle situazioni compiutamente assestate, ossia l’idea che la distribuzione del reddito , il saggio del profitto siano indipendenti dal gioco della domanda e dell’offerta. Ma, per lui, ciò accade non perché la domanda passivamente si adegua all’offerta, ma viceversa perché l’offerta si adegua alla domanda. Nelle due teorie della distribuzione, di Marx e di Ricardo, la domanda viene messa fuori gioco ma per un motivo opposto e simmetrico. Ci sono molti passi di Marx che ci suggeriscono questa linea di lettura, che d’altronde è anche l’unica possibile una volta scartata la motivazione ricardiana della legge di Say dell’adeguamento della domanda all’offerta; per esempio, gli accenni alla distruzione di capitale come strumento attraverso cui la capacità produttiva e installata si adegua a quella che è richiesta per produrre, con il grado medio normale di utilizzazione, le merci per le quali vi è domanda; cioè l’idea che non si produce tutto ciò che è possibile produrre con la capacità produttiva esistente, fidando nell’adeguamento automatico della domanda, ma al contrario è la capacità produttiva ad adeguarsi di fronte alla caduta di domanda, attraverso la distruzione di capitale.

Questo precedente ci aiuta forse a comprendere meglio un aspetto della costruzione teorica di Sraffa, in Produzione di merci a mezzo di merci, che ha suscitato qualche incomprensione. In lui, le quantità di merci prodotte e le quantità delle merci impiegate come mezzi di produzione sono assunte come date; ma questo, si è obiettato, non è altro che uno schema di contabilità nazionale. Ebbene, le quantità come le intende Sraffa, sia di merci prodotte, sia di merci usate come mezzi di produzione, non sono e non possono essere altro che quelle che il mercato assorbe ai prezzi naturali, quelli che garantiscono l’uniformità del saggio di profitto. E cioè si da per avvenuto il processo di adeguamento delle quantità prodotte alla domanda, e delle quantità di mezzi di produzione alle esigenze produttive, e poi si ricava la relazione inversa fra salario e saggio di profitto, confrontando fra di loro situazioni compiutamente assestate. E’ di qui che oggi parte il compito, certamente difficile e impegnativo, di ricostruire una teoria economica su basi non marginaliste.


(La sintesi della relazione dedicata al tema “La 'critica dell'economia politica ieri e oggi” che qui pubblichiamo non è stata rivista dall'autore).

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