mercoledì 7 settembre 2016

L'insostenibile leggerezza della Politica

Uno studio della storia delle opinioni è un indispensabile presupposto all'emancipazione della mente.
John Maynard Keynes 

(PDF) Nulla, ovviamente, è mai bello come ce lo ricordiamo. Il consenso socialdemocratico e le istituzioni dello Stato sociale dei decenni del dopoguerra coincisero con esempi di urbanistica ed edilizia pubblica fra i peggiori dell'era moderna. Dalla Polonia comunista alla Svezia socialdemocratica, dall'Inghilterra laburista alla Francia gollista e al South Bronx, urbanisti presuntuosi e insensibili tappezzarono le città di invivibili e inguardabili palazzoni di case popolari. Alcuni di questi sono ancora fra noi: Scarcelles, una banlieue parigina, testimonia la sprezzante indifferenza dei mandarini della burocrazia pubblica nei riguardi della vita quotidiana dei loro sudditi; nella parte est di Londra, Ronan Point, un palazzone di particolare bruttezza, ha avuto il buon gusto di crollare spontaneamente, ma la maggior parte degli edifici di quell'epoca è ancora in piedi.
L'indifferenza delle autorità locali e nazionali per i danni provocati dalle loro decisioni rappresenta forse un aspetto inquietante della pianificazione e del rinnovamento del dopoguerra. L'idea che quelli al potere ne sappiano di più, che siano impegnati in un'opera di ingegneria sociale per conto di persone che non sanno che cos'è meglio per loro, non era nata nel 1945, ma ebbe la sua massima fioritura nei decenni successivi. Era l'epoca di Le Corbusier: troppo spesso non ci si curava minimamente di quello che pensavano le masse dei loro nuovi appartamenti, dei nuovi quartieri in cui erano state trasferite, della «qualità di vita» a loro assegnata.
Già alla fine degli anni Sessanta, l'idea che «la mamma sa che cosa è meglio per te» cominciava a produrre una reazione contraria. Gruppi auto-organizzati di cittadini di classe media cominciarono a protestare per la demolizione abusiva e integrale non solo di quartieri «brutti» e malsani, ma anche di edifici e aree urbane di pregio: l'arbitraria demolizione della Pennsylvania Railroad Station a New York e della Euston Station a Londra, la costruzione di un mostruoso grattacielo per uffici nel cuore dell'antico quartiere di Montparnasse a Parigi, la grigia riorganizzazione del tessuto urbano di intere città. Invece di un esercizio di modernizzazione socialmente responsabile per conto della collettività, queste iniziative cominciavano ad apparire come sintomi di un potere insensibile e senza controlli.
Perfino in Svezia, dove i socialdemocratici mantenevano saldamente in mano il potere, come sempre, l'implacabile uniformità, anche nei casi migliori, dei quartieri di case popolari, dei servizi sociali o delle politiche sanitarie pubbliche iniziò a infastidire la generazione più giovane. Se le pratiche eugenetiche di alcuni governi scandinavi negli anni del dopoguerra, che incoraggiavano e addirittura imponevano una sterilizzazione selettiva nell'interesse della collettività, fossero state maggiormente note alla cittadinanza, la sensazione di una dipendenza oppressiva da uno Stato panottico forse sarebbe stata ancora più accentuata. In Scozia, nella Glasgow operaia, dove oltre il 90 per cento della popolazione cittadina viveva in palazzoni di proprietà del comune, l'aspetto degradato di questi edifici era la dimostrazione dell'indifferenza delle autorità municipali (socialiste) alle condizioni di vita dei loro elettori proletari.
La sensazione, diffusa negli anni Settanta, che lo Stato «responsabile» non prestasse ascolto ai bisogni e ai desideri di coloro che sosteneva di rappresentare contribuì ad allargare il divario sociale. Da un lato c'era una generazione più anziana di urbanisti e sociologi. Eredi della presunzione manageriale degli edoardiani, questi uomini e queste donne rimanevano orgogliosi dei risultati ottenuti. Borghesi essi stessi, erano particolarmente soddisfatti di essere riusciti a vincolare le vecchie élites a un nuovo ordine sociale.
Ma i beneficiari di quell'ordine, dall'altro lato (i negozianti svedesi, i marinai scozzesi, gli afroamericani dei quartieri degradati delle città statunitensi o gli annoiati abitanti delle banlieues francesi), erano sempre più infastiditi dal fatto di dipendere da amministratori, consiglieri municipali e regolamenti burocratici. Per ironia della sorte, erano proprio gli esponenti dei ceti medi i più soddisfatti della propria condizione (più che altro perché lo Stato sociale lo conoscevano più sotto forma di fornitore di servizi molto apprezzati che di vincolo all'autonomia e all'iniziativa).
Ma il divario più grande ora era quello che separava le generazioni. Per tutti coloro nati dopo il 1945,10 Stato sociale e le sue istituzioni non erano la soluzione a dilemmi precedenti: rappresentavano semplicemente le condizioni normali dell'esistenza (ed erano piuttosto noiose). I baby boomers, che a metà degli anni Sessanta facevano il loro ingresso all'università, non avevano conosciuto altro che un mondo di crescenti opportunità, generosi servizi sanitari e scolastici, ottimistiche prospettive di ascesa sociale e (forse soprattutto) un indefinibile ma onnipresente senso di sicurezza. Gli obiettivi della precedente generazione di riformatori non interessavano più ai loro eredi, anzi venivano percepiti sempre di più come restrizioni alla libertà e all'espressione individuale.


L'ironico lascito degli anni Sessanta

La mia generazione degli anni Sessanta, con tutti i suoi grandi ideali, ha distrutto il liberalismo per via dei suoi eccessi.
Camille Paglia 

Un aspetto peculiare dell'epoca era che la frattura generazionale correva trasversalmente alle classi sociali, oltre che alle esperienze nazionali. L'espressione retorica della rivolta giovanile era ovviamente confinata a una ristrettissima minoranza: anche negli Stati Uniti di allora la maggior parte dei giovani non frequentava l'università e le proteste nei college non rappresentavano necessariamente la gioventù americana nel suo complesso. Ma i sintomi più generali della dissidenza generazionale — musica, abbigliamento, linguaggio — erano insolitamente diffusi per effetto della televisione, delle radio a transistor e dell'internazionalizzazione della cultura popolare. Alla fine degli anni Sessanta, il divario culturale che separava i giovani dai loro genitori era forse maggiore che in qualunque altro momento storico dall'inizio dell'Ottocento ad allora.
Questa rottura della continuità evocava un altro mutamento tellurico. Per la precedente generazione di politici ed elettori di sinistra, il rapporto fra «lavoratori» e socialismo — fra «poveri» e Stato sociale — era lampante. La «sinistra» era associata da tempo (e vi dipendeva in gran parte) al proletariato industriale urbano. Al di là del pragmatico apprezzamento dei ceti medi, le riforme del New Deal, le social-democrazie scandinave e il welfare state britannico avevano fatto leva sul sostegno presunto di una massa di operai e dei loro alleati rurali.
Ma nel corso degli anni Cinquanta questo proletariato operaio si stava frammentando e riducendo. Lo sfiancante lavoro manuale nelle fabbriche tradizionali, nelle miniere e nell'industria dei trasporti stava cedendo il passo all'automatizzazione, alla crescita dell'industria dei servizi e a una forza lavoro sempre più femminilizzata. Perfino in Svezia i social-democratici non potevano più sperare di vincere le elezioni semplicemente assicurandosi la maggioranza del voto operaio tradizionale. La vecchia sinistra, con le sue radici nelle comunità proletarie e nelle organizzazioni sindacali, poteva contare sul collettivismo istintivo e sulla disciplina (e acquiescenza) comunitaria di una forza lavoro industriale compatta e determinata. Ma la sua incidenza percentuale sul totale della popolazione stava diminuendo.
La nuova sinistra, come cominciava a chiamarsi in quegli anni, era qualcosa di molto diverso. Per la nuova generazione, il «cambiamento» non doveva arrivare attraverso una disciplinata azione di massa definita e guidata da portavoce autorizzati. Il cambiamento stesso si era spostato, apparentemente, dall'Occidente industriale ai paesi in via di sviluppo, al «Terzo Mondo». Tanto il comunismo quanto il capitalismo erano accusati di stagnazione e «repressione». L'iniziativa dell'innovazione e dell'azione radicale era ora affidata a contadini di paesi remoti o a una nuova gamma di categorie rivoluzionarie. I maschi proletari venivano soppiantati da «neri», «studenti», «donne» e (un po' più tardi) «omosessuali».
Dal momento che nessuna di queste categorie, in patria o all'estero, godeva di rappresentazione distinta nelle istituzioni delle società del benessere, la nuova sinistra si presentava, più o meno consapevolmente, come un movimento che si opponeva non semplicemente alle ingiustizie dell'ordine capitalistico, ma principalmente alla «tolleranza repressiva» delle sue forme più avanzate, a quei sovrintendenti benevoli che avevano liberalizzato le vecchie restrizioni o che avevano garantito a tutti un miglioramento della propria condizione.
Soprattutto, la nuova sinistra (e i suoi elettori, in stragrande maggioranza giovani) rifiutava il collettivismo tramandato dai suoi predecessori. Per la precedente generazione di riformisti, da Washington a Stoccolma, era lampante che la «giustizia», l'«uguaglianza di opportunità» o la «sicurezza economica» fossero obiettivi condivisi che potevano essere raggiunti solo attraverso l'azione comune. La regolamentazione e il controllo dall'alto, eccessivamente intrusivi, avevano i loro limiti, ma questo era il prezzo della giustizia sociale, ed era un prezzo che valeva la pena pagare.
La generazione più giovane vedeva le cose in nodo molto diverso. La giustizia sociale non interessava più i radicali. L'elemento unificante della generazione degli anni Sessanta non era l'interesse di tutti, ma i bisogni e i diritti di ognuno. L'«individualismo», l'affermazione del diritto di ogni persona alla prevaricazione politica: le manifestazioni contro la guerra del Vietnam e le rivolte razziali degli anni Sessanta furono importanti. Ma erano scollegate dal sentimento di uno scopo collettivo, concepite più che altro come un prolungamento della rabbia e dell'espressione dell'individuo.
Questi paradossi della meritocrazia (la generazione degli anni Sessanta era prima di tutto il brillante prodotto collaterale di quegli stessi Stati sociali contro cui riversava il suo giovanile sdegno) riflettevano una perdita di fiducia. Le vecchie classi patrizie avevano ceduto il passo a una generazione di ingegneri sociali animati da buone intenzioni, ma né le une né gli altri avevano previsto la radicale disaffezione dei propri figli. Il consenso implicito dei decenni del dopoguerra ormai era andato in frantumi e cominciava a emergere un consenso nuovo, e decisamente innaturale, incentrato sul primato dell'interesse individuale. I giovani radicali non avrebbero mai descritto in questo modo gli scopi che si proponevano, ma era principalmente la distinzione fra encomiabili libertà private e indisponenti limitazioni pubbliche ad accendere le loro emozioni. E per ironia della sorte, anche la nuova destra che stava emergendo basava la propria identità su questa distinzione.



La rivincita degli austriaci

Dobbiamo renderci conto del fatto che la preservazione della libertà individuale è incompatibile con la piena soddisfazione dei nostri punti di vista sulla giustizia distributiva.
Friedrich von Hayek 

I conservatori — per non parlare della destra ideologica — erano una minoranza nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. La vecchia destra dell'anteguerra era stata doppiamente screditata. Nel mondo anglofono, i conservatori non  erano riusciti a prevedere, comprendere o correggere gli enormi disastri provocati dalla Grande Depressione. Allo scoppio della guerra, solo lo zoccolo duro del vecchio Partito Conservatore inglese e i repubblicani sciovinisti e intransigenti contrastavano ancora gli sforzi dei new dealers di Washington e dei governanti semikeynesiani di Londra per offrire risposte innovative alla crisi.
Nell'Europa continentale, le élites conservatrici pagarono il prezzo della loro accondiscendenza (se non peggio) verso le potenze occupanti. Con la sconfitta dell'Asse, furono spazzate via. Nell'Europa orientale i vecchi partiti di centro e di destra furono brutalmente annientati dal nuovo potere comunista, ma anche nell'Europa occidentale i reazionari tradizionali dovettero levare il disturbo e lasciare il posto a una nuova generazione di moderati.
Anche sul fronte intellettuale il conservatorismo non se la passava molto bene. Per ogni Michael Oakeshott trincerato nel suo rigoroso disprezzo per il pensiero moderno bien-pensant c'erano cento intellettuali progressisti allineati al consenso postbellico. Nessuno si curava granché dei liberisti o dei fautori dello «Stato minimo»; e se la maggioranza dei vecchi liberali provava ancora un'istintiva avversione verso l'ingegneria sociale, anche su quel versante si tendeva a favorire, se non altro per ragioni prudenziali, un livello di attivismo, statale molto accentuato. Il centro gravitazionale del dibattito politico, negli anni successivi al 1945, non era collocato fra la destra e la sinistra, ma dentro la sinistra, da una parte i comunisti e i loro simpatizzanti, dall'altra la corrente liberal-socialdemocratica (predominante).
La cosa più vicina a un conservatorismo teorico serio, in quegli anni di consenso, veniva da uomini come Raymond Aron in Francia, Isaiah Berlin in Gran Bretagna e (anche se in modo abbastanza diverso) Sydney Hook negli Stati Uniti. Tutti e tre questi pensatori avrebbero rifiutato l'etichetta di «conservatori»: erano liberali classici, anticomunisti per ragioni etiche oltre che politiche, e intrisi di quella diffidenza questo senso, ma con conseguenze disastrose. Sei anni dopo Edward Heath, futuro premier conservatore in Gran Bretagna, aveva saggiato il terreno con proposte che andavano nel senso di una maggiore liberalizzazione dei mercati e una riduzione del ruolo dello Stato, ma fu violentemente e ingiustamente castigato per il suo «anacronistico» ricorso a teorie economiche defunte, e dovette battere frettolosamente in ritirata.
Come la scivolata di Heath sembrò indicare, molti erano infastiditi dal potere eccessivo dei sindacati o dall'insensibilità della burocrazia, ma pochi erano disposti a sostenere una virata a centottanta gradi. Il consenso socialdemocratico e le sue incarnazioni istituzionali potevano essere tediosi e perfino paternalistici, però funzionavano e la gente lo sapeva. Fintanto che la larga maggioranza era convinta che la «rivoluzione keynesiana» avesse prodotto cambiamenti irreversibili, i conservatori si sarebbero trovati in difficoltà. Potevano vincere battaglie culturali sui «valori» e sulla «morale», ma a meno di riuscire a portare il dibattito pubblico su un terreno radicalmente diverso erano destinati a perdere la guerra economica e politica.
La vittoria del conservatorismo e la profonda trasformazione che essa ha prodotto nel corso dei trent'anni successivi non erano inevitabili, tutt'altro: c'è voluta una rivoluzione intellettuale. Nel giro di poco più di un decennio, il «paradigma» dominante del dibattito pubblico si è spostato dall'entusiasmo per l'intervento pubblico e per i beni collettivi alla visione del mondo riassunta alla perfezione nella famigerata facezia di Margaret Thatcher: «Non esiste una cosa chiamata società, esistono solo gli individui e le famiglie». Negli Stati Uniti, quasi nello stesso momento Ronald Reagan si conquistava una popolarità duratura proclamando che in America era tornato il «mattino». Il governo non era più la soluzione, era il problema.
Se il governo è il problema e la società non esiste, allora il ruolo dello Stato si riduce ancora una volta a quello di facilitatore. Il compito del politico è di accertare che cosa sia meglio per l'individuo e poi offrirgli le condizioni per ricercare questo meglio con un livello di interferenza minimo. Il contrasto con il consenso keynesiano non poteva essere più stridente: Keynes stesso era arrivato a convincersi che il capitalismo non sarebbe sopravvissuto se si fosse limitato a fornire ai ricchi i mezzi per arricchirsi ancora di più.
Era proprio questa concezione così ottusa del funzionamento di un'economia di mercato che aveva portato al disastro, secondo lui. E allora perché oggi siamo tornati ad abbracciare questa concezione confusa, riducendo il dibattito pubblico a una discussione condotta in termini strettamente economici? Per riuscire a spodestare con tanta facilità e apparente unanimità il consenso keynesiano, le contro-argomentazioni dovevano essere molto efficaci. Lo erano, e non nascevano dal nulla.
Noi siamo gli eredi involontari di un dibattito di cui la maggior parte della gente è completamente all'oscuro. Se ci chiedessero che cosa ci sia dietro il nuovo (vecchio) pensiero economico, forse risponderemmo che è opera di una serie di economisti angloamericani riconducibili in larghissima maggioranza all'Università di Chicago. Ma se ci chiedessero da dove i Chicago boys abbiano preso le loro idee, scopriremmo che l'influenza più grande è stata esercitata da un gruppetto di stranieri, tutti immigrati dall'Europa centrale: Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek, Joseph Schumpeter, Karl Popper e Peter Drucker.
Mises e Hayek sono stati gli eminenti precursori della «scuola di Chicago». Schumpeter è noto soprattutto per la sua entusiasta descrizione dei poteri «creativi e distruttivi» del capitalismo, Popper per la sua difesa della «società aperta» e le sue opere sul totalitarismo. Quanto a Drucker, i suoi saggi sul management hanno esercitato un'enorme influenza sulla teoria e la pratica dell'attività imprenditoriale nei prosperi decenni del boom economico del dopoguerra. Tre di questi studiosi erano nati a Vienna, un quarto (Mises) nella Leopoli austriaca e oggi ucraina (Lemberg in tedesco e L’viv ín ucraino), il quinto (Schumpeter) in Moravia, qualche decina dí chilometri più a norddella capitale dell'impero austroungarico. Tutti e cinque erano rimasti profondamente scossi dalla catastrofe che aveva colpito il loro paese natale tra le due guerre.
Dopo il cataclisma della prima guerra mondiale e un breve esperimento di socialismo municipale a Vienna (dove Hayek e Schumpeter avevano preso parte al dibattito sulla socializzazione economica), l'Austria era stata travolta da un golpe reazionario nel 1934 e poi, quattro anni dopo, dall'invasione e dall'occupazione nazista. Come moltissimi altri, i giovani economisti austriaci erano stati costretti da questi eventi a prendere la via dell'esilio, e tutti Hayek in particolare —avrebbero impostato i propri scritti e i propri insegnamenti all'ombra di quella che era diventata la domanda centrale della loro vita: perché l'Austria liberale era crollata aprendo la strada al fascismo?
La loro spiegazione fu che i tentativi infruttuosi della sinistra (marxista) di introdurre nell'Austria post Grande Guerra pianificazione pubblica, servizi controllati dagli enti locali e attività economica collettivizzata non solo non erano approdati a niente, ma avevano scatenato una reazione contraria. Popper, per citare il caso più noto, sosteneva che l'indecisione dei socialisti della sua epoca, paralizzati dalla loro fede nelle «leggi della storia», non poteva reggere il confronto con le energie radicali dei fascisti, che agivano. Il problema era che i socialisti avevano troppa fede nella logica della storia e nella ragione degli uomini. I fascisti, a cui non importava né dell'una né dell'altra cosa, erano nella posizione ideale per spodestarli.
Agli occhi di Hayek e dei suoi contemporanei, la tragedia europea era stata originata dall'inadeguatezza della sinistra: prima perché incapace di raggiungere i suoi obiettivi, e poi perché incapace di reggere la sfida lanciatale dalla destra. Ognuno di loro, anche se per vie diverse, arrivò alla stessa conclusione: il modo migliore (anzi, l'unico) per difendere il liberalismo e una società aperta era tenere lo Stato fuori dalla vita economica. Tenendo l'autorità a distanza di sicurezza, impedendo ai politici — non importa se animati da buone intenzioni — di pianificare, manipolare o dirigere gli affari dei loro concittadini, si sarebbe riusciti a tenere a freno gli estremisti, sia di destra che di sinistra.
Con lo stesso dilemma (capire cos'era successo fra le due guerre e impedire che tornasse a ripetersi), come abbiamo visto, si trovò alle prese Keynes. L'economista inglese si poneva sostanzialmente lo stesso interrogativo di Hayek e dei suoi colleghi austriaci. Ma per Keynes era diventato evidente che la difesa migliore dall'estremismo politico e dal collasso economico consisteva nell'incrementare il ruolo dello Stato, incluso, ma non soltanto, l'intervento economico in funzione anticiclica.
Hayek proponeva il contrario. Nel suo celebre saggio del 1944, La via della schiavitù, scriveva:

Nessuna descrizione in termini generali può dare un'idea adeguata della somiglianza di gran parte della letteratura politica in Inghilterra con le opere che distrussero in Germania la fede nella civiltà occidentale e crearono l'ambiente ideale in cui il nazismo ha potuto avere successo.

In altre parole, Hayek, che ormai viveva in Inghilterra e insegnava alla London School of Economics, prefigurava esplicitamente (basandosi sul precedente austriaco) un esito fascista qualora il Labour, con i suoi obiettivi proclamati in tema di welfare e servizi sociali, avesse conquistato il potere in Gran Bretagna. Come sappiamo, il Labour vinse, ma la sua vittoria, lungi dall'aprire la strada a una riedizione del fascismo, contribuì a stabilizzare la Gran Bretagna del dopoguerra.
Negli anni successivi al 1945, gli osservatori più accorti valutarono che gli austriaci avevano fatto un semplice errore categoriale. Come tanti altri profughi, avevano dato per scontato che le condizioni che avevano determinato il tracollo del capitalismo liberale nell’Europa fra le due guerre fossero riproducibili costantemente e all'infinito. E dunque, agli occhi di Hayek, la Svezia, per via dei successi politici delle maggioranze di governo socialdemocratiche e del loro ambizioso programma legislativo, era un altro paese destinato a seguire la strada che aveva precipitato la Germania nell'abisso.
Fraintendendo gli insegnamenti del nazismo (o applicando assiduamente un gruppo ben selezionato di essi), gli intellettuali profughi dell'Europa centrale finirono per auto-emarginarsi nel prospero Occidente del dopoguerra. Per citare Anthony Crosland, che nel 1956, all'apice della fiducia nella socialdemocrazia, scriveva: «Nessuno ormai, di qualsiasi estrazione sociale, crede nella tesi di Hayek, un tempo molto popolare, che sostiene che qualunque interferenza con il funzionamento del mercato ci spinge immancabilmente lungo la china scivolosa che conduce al totalitarismo». Gli intellettuali profughi (e specialmente gli economisti fra loro) vivevano in una condizione di risentimento endemico verso i loro ospiti poco comprensivi. Qualunque teoria sociale non individualistica, qualunque argomentazione fondata su categorie collettive, su obiettivi comuni o sul concetto di bene sociale, giustizia e così via, sollevava in loro reminiscenze inquietanti di cataclismi passati. Ma anche in Austria e in Germania le circostanze erano cambiate enormemente: i loro ricordi avevano scarsa utilità dal punto di vista pratico. Uomini come Hayek o Mises sembravano condannati alla marginalità professionale e culturale. Solo quando i sistemi di welfare di cui tanto diligentemente avevano predetto il fallimento cominciarono a entrare in crisi, tornarono a trovare un pubblico attento alle loro teorie: una tassazione elevata inibisce la crescita e l'efficienza, la regolamentazione pubblica soffoca l'iniziativa e lo spirito imprenditoriale, meno lo Stato interviene più la società è sana, e via discorrendo.
Dunque, quando ripetiamo i luoghi comuni convenzionali sul libero mercato e le libertà occidentali, in realtà stiamo riecheggiando, come la luce di una stella che si sta spegnendo, un dibattito ispirato e guidato settant'anni fa da uomini nati quasi tutti verso la fine dell'Ottocento. Certo, il fatto di essere oggi incoraggiati a pensare solo in termini economici non è associato normalmente a queste diatribe ed esperienze politiche remote. Quasi nessuno degli studenti delle facoltà di economia ha mai sentito parlare di alcuni di questi esotici pensatori stranieri, e nessuno li incoraggia a farlo. Ma ignorare le origini austriache del loro (e del nostro) modo di pensare è come parlare una lingua che non comprendiamo fino in fondo.
Vale la pena di sottolineare che Hayek non può essere considerato responsabile delle semplificazioni ideologiche dei suoi seguaci. Come Keynes, l'economista austriaco considerava l'economia una scienza interpretativa, imprevedibile e imprecisa. Hayek considerava sbagliata la pianificazione perché doveva necessariamente basarsi su calcoli e previsioni fondamentalmente privi di senso e quindi irrazionali. La pianificazione non era un errore morale, e non era nemmeno indesiderabile in linea di principio. Era semplicemente impraticabile (e se fosse stato coerente, Hayek avrebbe ammesso che più o meno lo stesso si poteva dire per le teorie «scientifiche» sul funzionamento del mercato).
La differenza, naturalmente, era che la pianificazione esigeva costrizione per funzionare come si deve, e questo portava direttamente alla dittatura, il vero bersaglio di Hayek. Il mercato efficiente può essere un mito, ma almeno non comporta una coercizione dall'alto. Nondimeno, il rifiuto dogmatico da parte di Hayek di qualunque controllo centrale si prestava all'accusa di... dogmatismo. Fu Michael Oakeshott a osservare che anche l'«hayekísmo» era una dottrina: «Un piano per Opporsi a ogni forma di pianificazione forse è meglio del suo contrario, ma appartiene allo stesso tipo di politica».
Negli Stati Uniti, tra una nuova generazione di spavaldi econometristi (una sottodisciplina sulla cui pretesa scientificità sia Hayek che Keynes avrebbero avuto molto da ridire), la convinzione che il socialismo democratico sia un obiettivo irraggiungibile e dalle conseguenze perverse è diventata qualcosa di simile a una teologia. Un credo che si è allacciato alla condanna popolare di qualunque sforzo per accrescere il ruolo dello Stato, o del settore pubblico, nella vita quotidiana dei cittadini americani.
In Gran Bretagna questa particolare estensione della lezione austriaca non è riuscita a guadagnarsi altrettanto credito. Le ragioni sono evidenti: la popolarità dell'assistenza sanitaria gratuita o dell'istruzione universitaria sovvenzionata, per citare gli esempi più noti. Ma durante l'era Thatcher-Blair-Brown la santificazione di banchieri, broker, agenti di Borsa, nuovi ricchi e chiunque abbia accesso a ingenti somme di denaro ha prodotto un'ammirazione incondizionata per un'«industria dei servizi finanziari» regolamentata il meno possibile, e conseguentemente una fede nella naturale bonarietà del mercato globale dei prodotti finanziari.
Che cosa avrebbe pensato Hayek (o perfino Schumpeter, il profeta della distruzione capitalistica) di questa volgare  venerazione del denaro e di chi lo possiede è un'altra questione. Ma è indiscutibile che le tesi usate per giustificare l'enorme e crescente divario di ricchezza nella Gran Bretagna moderna derivano direttamente dall'apologetica della deregolamentazione, dell'interferenza minima e delle virtù del settore privato, a cui hanno dato un contributo fondamentale i testi economici della scuola austriaca.
Il caso britannico, ancora di più di quello americano, mostra le conseguenze pratiche di questa retro-trasformazione del linguaggio economico moderno (anche se la triste storia degli entusiasmi islandesi per le contrade selvagge del bandit banking è ancora più illuminante). Partendo da una manciata di brillanti intellettuali fuggiti dall'Europa fra le due guerre, passiamo attraverso due generazioni di professori di economia dediti a riconfigurare la loro disciplina... fino ad arrivare agli scandali che negli ultimi anni hanno visto protagonisti banche, mutui, finanza privata e hedge fund.
Dietro ogni banchiere e agente di Borsa cinico (o semplicemente incompetente) c'è un economista che dalla sua posizione di autorità intellettuale incontestata garantisce a loro (e a noi) che le azioni da essi compiute sono utili per la collettività e che in ogni caso non devono essere sottoposte a supervisione collettiva. Dietro a questo economista e ai suoi lettori creduloni ci sono, a loro volta, tutti coloro che hanno preso parte a dibattiti conclusi da tempo. Lo stato esangue del nostro linguaggio pubblico corrente, la nostra incapacità di concepire qualcosa che vada oltre le categorie e i clichés che conformano e distorcono le decisioni della politica, tanto a Washington quanto a Londra, rendono dunque omaggio a una delle maggiori intuizioni di Keynes:

Gli uomini della pratica, che si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro. Sono sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato, in confronto con l'affermazione progressiva delle idee.


Tony Judt - Guasto è il mondo - 2011 - Laterza

Nessun commento:

Posta un commento