(PDF) Se l’opera di Platone (“La Repubblica”) testimonia quanto
profondamente la confusione morale introdotta dal debito abbia dato forma alla
nostra tradizione di pensiero, il diritto romano rivela quanto sia stata
fondamentale anche per le istituzioni che ci sono più familiari. Il giurista
tedesco Rudolf von Jhering osservò che l’antica Roma aveva conquistato il mondo
tre volte: la prima attraverso i suoi eserciti, la seconda attraverso la sua
religione e la terza attraverso le sue leggi.91 Avrebbe potuto
aggiungere: ogni volta un po’ di più. L’impero, dopo tutto, occupava solo una
piccola porzione del globo: la Chiesa cattolica romana si è estesa oltre. Il
diritto romano ha fornito il linguaggio e gli strumenti concettuali degli
ordinamenti legali e costituzionali di ogni continente. Gli studenti di diritto
dal Sudafrica al Perú sanno di dover trascorrere grossa parte del loro tempo a
memorizzare termini tecnici in latino ed è il diritto romano a fornire quasi
tutti i concetti di base su contratti, obbligazioni, atti illeciti, proprietà e
giurisdizione e, in senso più ampio, sulla cittadinanza, i diritti e le libertà
su cui si fonda la vita politica. Questo è stato possibile, sostiene Jhering,
perché i romani furono i primi a trasformare la giurisprudenza in scienza pura.
Forse questa è solo un’ipotesi, ma è vero che il diritto romano contiene alcuni
tratti piuttosto cavillosi, alcuni così strani da confondere e disorientare i
giuristi, anche perché il diritto romano è stato rielaborato nelle università
italiane durante l’Alto Medioevo. Il più famoso di questi tratti bizzarri è la
maniera particolare in cui definisce la proprietà. Nel diritto romano, la
proprietà, o dominium, è una relazione tra una persona e una cosa,
caratterizzata dal potere assoluto di quella persona su quella cosa. Questa
definizione ha provocato una serie sterminata di problemi concettuali. Prima di
tutto non è chiaro che cosa significhi per un essere umano avere una
«relazione» con un oggetto inanimato. Gli esseri umani possono avere relazioni
gli uni con gli altri. Ma cosa vuol dire avere una «relazione» con una cosa? E
se qualcuno ha tale relazione, che cosa significa dare a quella relazione un
fondamento legale? Sarà sufficiente un semplice esempio: immaginiamo un uomo
rimasto da solo su un’isola deserta. Potrebbe sviluppare delle relazioni
estremamente personali, per esempio, con le palme che crescono su quell’isola.
Se è lì da troppo tempo, potrebbe ritrovarsi a dare un nome alle palme e
trascorrere metà del suo tempo impegnato in conversazioni immaginarie con loro.
Ma è il loro proprietario? La domanda è assurda. Non c’è alcun bisogno
di preoccuparsi dei diritti di proprietà quando si è soli in un posto.
Allora è chiaro che la proprietà non è veramente una relazione tra
persona e cose, ma un accordo, un’intesa tra persone a proposito di cose.
L’unica ragione per cui talvolta non ce ne rendiamo conto è che in molti casi –
in particolare quando parliamo dei diritti che accampiamo sulle scarpe, sugli
attrezzi elettrici o sulle macchine – stiamo parlando di diritti che deteniamo,
come sostiene il diritto inglese, «contro tutto il mondo», ovvero che si tratta
di un accordo tra noi stessi e chiunque altro sul pianeta, che tutti si
asterranno dall’interferire con i nostri beni e pertanto ci permetteranno di
disporne, più o meno, come vogliamo. Una relazione tra una persona e tutti gli
altri sul pianeta è, com’è comprensibile, difficile da concepire in queste
forme. È più facile immaginarla come una relazione con una cosa. Ma anche così,
in pratica questa libertà di fare ciò che ci piace si dimostra ancora piuttosto
limitata. Sostenere che il fatto che possedere una sega a motore mi dia il
«potere assoluto» di farci quel che voglio, è ovviamente assurdo. Tutto quel
che potrei fare con una motosega fuori da casa mia o dal mio terreno è
formalmente illegale ed esiste solo un numero limitato di cose che io potrei
fare legalmente con la mia motosega anche dentro casa mia. L’unica cosa
«assoluta» a proposito dei miei diritti su una motosega è il mio diritto di
escludere chiunque altro a parte me dal farne uso.92
Nondimeno, il diritto romano sostiene che la forma base della
proprietà sia la proprietà privata, e che la proprietà privata sia il potere
assoluto del proprietario di fare tutto quel che vuole dei suoi beni. I giuristi
medievali del XII secolo arrivarono a sistematizzare tutto ciò secondo tre
principi, l’usus (l’uso di un bene), il fructus (il godimento dei
prodotti di quel bene) e l’abusus (l’abuso o la distruzione di quello
stesso bene). Ma i giuristi romani non erano neanche interessati a specificare
così tanto le cose, dal momento che in un certo modo consideravano certi
dettagli già al di fuori del dominio della legge. In effetti, gli studiosi
hanno speso un mucchio di tempo a discutere se gli autori romani considerassero
veramente la proprietà privata un diritto (ius),93 per la ragione stessa che
i diritti erano in ultima analisi fondati su accordi tra persone, cosa che non
valeva per il potere di disporre della propria proprietà: era solo la capacità
naturale di un individuo di fare ciò che voleva in assenza d’impedimenti
sociali.94
A pensarci bene, questo libro è un posto un po’ strano per
cominciare a sviluppare una teoria del diritto della proprietà. Basti dire che
in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi periodo storico, nell’antico
Giappone o a Machu Picchu, chiunque avesse un pezzo di corda era libero di
avvolgerla, di annodarla, di distruggerla o di gettarla nel fuoco, se ne aveva
l’intenzione. Nessun teorico legale ha mai trovato questo fatto interessante o
importante. Di sicuro nessun’altra tradizione ne ha fatto la base del diritto
di proprietà, dal momento che tutto sommato questo ridurrebbe tutte le altre
leggi a poco più di una serie di eccezioni.
Com’è successo tutto questo? E perché? La spiegazione più
convincente che ho trovato è quella di Orlando Patterson: l’idea della
proprietà privata deriva dalla schiavitù. Si può immaginare la proprietà non
come una relazione tra persone, ma come una relazione tra una persona e una
cosa, se il proprio punto di partenza è una relazione tra due persone, una
delle quali è una cosa. (Questaè la maniera in cui venivano definiti gli
schiavi nel diritto romano: persone che erano anche res, cioè cose.)95 In questo senso inizia ad
avere un suo significato anche l’enfasi sul potere assoluto.96 La parola dominium,
riferita alla proprietà privata assoluta, non era particolarmente antica.97 Appare in latino solo
nella tarda repubblica, proprio attorno all’epoca in cui centinaia di migliaia
di lavoratori coatti cominciarono a riversarsi in Italia, quando pertanto Roma
stava diventando una vera e propria società schiavista.98 Intorno al 50 a.C. gli
autori romani davano per scontato che i lavoratori fossero proprietà di
qualcuno: questo valeva sia per i contadini che raccoglievano piselli nelle
piantagioni di campagna, sia per i mulattieri che portavano gli stessi piselli
nei negozi di città, sia infine per i contabili che ne registravano la
quantità. L’esistenza di milioni di creature che al tempo stesso erano persone
e cose creò innumerevoli problemi legali e gran parte del genio creativo del
diritto romano è stato impiegato nello studio delle infinite ramificazioni
teoriche implicate da questa associazione. Basta aprire a caso un repertorio
commentato di diritto romano per farsene un’idea. Leggiamo le parole del
giurista Ulpiano, del II secolo: Se taluno, nel giocare a palla con altri,
abbia dato a questa un colpo troppo forte, facendola ricadere sulle mani di un
barbiere, e lo schiavo che il barbiere stava radendo abbia avuto la gola
tagliata dal rasoio, Mela scrive che quello fra loro che sia in colpa sarà
imputabile in base alla legge Aquilia. Proculo sostiene la colpa del barbiere;
e certo se egli si è posto a radere in un luogo dove si era soliti giocare o
dove il transito era frequente, è il caso di fargliene una colpa; benché non
sia neppure scorretto l’affermare che colui il quale si affidi a un barbiere
che abbia posizionato la sua sedia in luogo pericoloso debba imputare a se
stesso il male che ne può venire.99
In altre parole, il signore non può pretendere danni civili contro
i giocatori o contro il barbiere per aver distrutto la sua proprietà, se il
vero problema era che aveva comprato uno schiavo stupido. Questi dibattiti
possono colpirci per la loro bizzarria – puoi essere accusato di furto per aver
convinto uno schiavo a fuggire? E se qualcuno ha ucciso uno schiavo che era
anche tuo figlio, si possono prendere in considerazione quei sentimenti verso
di lui nel conteggio dei danni o quel che conta è solo il suo valore di
mercato? –, ma è proprio su questi dibatti che si basa la nostra tradizione
giuridica.100
La parola dominium deriva da dominus, ovvero
«signore», cioè «proprietario di schiavi», ma in ultima analisi rimanda a domus,
«casa». Ovviamente c’è un collegamento con il termine «domestico», che anche
adesso può essere usato sia per riferirsi alla «vita privata» sia per indicare
il servo che pulisce la casa. Il significato di domus si sovrappone a
volte a quello di familia ma – forse potrebbe interessare ai sostenitori
dei «valori della famiglia» – «famiglia» deriva dalla parola famulus,
che significa «schiavo». La famiglia era in origine il gruppo di persone
sottoposte all’autorità domestica di un pater familias, e quell’autorità
era concepita come assoluta, almeno nell’antico diritto romano.101 Un uomo non aveva il
potere assoluto sulla moglie, dal momento che questa era ancora in certo modo
sotto la protezione di suo padre, ma i figli, gli schiavi e altri dipendenti
erano a sua disposizione per tutto ciò che voleva e almeno nel primo diritto
romano il pater familias era libero di frustarli, torturarli o venderli.
Un padre poteva addirittura giustiziare i propri figli, nel caso che questi
avessero commesso dei crimini capitali.102 Con i suoi schiavi, non
aveva neanche bisogno di quella giustificazione.
I giuristi romani crearono il concetto di dominium e poi il
principio moderno della proprietà privata assoluta, quindi estesero il
principio di autorità domestica, di potere assoluto sulle persone definendo una
parte di queste persone (gli schiavi) come cose, infine allargarono il dominio
di quella logica che un tempo si applicava solo agli schiavi anche alle oche,
ai carri, ai granai, alle scatole dei gioielli ecc, ovvero a ogni tipo di cosa
con cui la legge avesse a che fare.
Anche nel mondo antico era abbastanza straordinario che un padre
avesse il diritto di giustiziare i suoi schiavi, per non parlare dei figli. Non
si capisce perché gli antichi romani fossero così estremi al riguardo. Ma è
significativo che le antiche leggi romane sul debito fossero ugualmente
eccezionali per la loro durezza, dal momento che concedevano ai creditori il
diritto di giustiziare i debitori insolventi.103 La storia antica di Roma,
come le storie delle antiche città-stato greche, fu una continua lotta politica
tra creditori e debitori fino a quando l’élite romana alla fine concepì un
principio che altre élite mediterranee di successo avevano già appreso: una
classe di contadini liberi significava un esercito più efficace, il quale a sua
volta avrebbe fornito prigionieri di guerra capaci di fare tutto ciò che
facevano i debitori insolventi ridotti in cattività e pertanto era nel loro
interesse trovare un compromesso sociale, ovvero permettere una limitata
rappresentatività popolare, bandire la schiavitù del debito e incanalare alcune
delle entrate dell’impero in programmi di welfare sociale. Probabilmente il
potere assoluto dei padri si sviluppò all’interno della società romana nella
stessa maniera che abbiamo visto altrove. La schiavitù per debiti ridusse le
relazioni familiari a relazioni di proprietà, mentre le riforme sociali
mantenevano il nuovo potere dei padri ma li proteggevano dai debiti. Al tempo
stesso, l’aumentato afflusso di schiavi significò che ogni casa abbastanza prospera
indubbiamente poteva ospitare degli schiavi: la logica della conquista si
estendeva fino a raggiungere gli aspetti più intimi della vita quotidiana. I
vinti versavano l’acqua nel bagno e acconciavano i capelli, se erano educatori,
insegnavano ai fanciulli la poesia. Dal momento che gli schiavi erano
sessualmente a disposizione dei padroni e dei loro familiari, ma anche dei loro
amici e ospiti, è probabile che le prime esperienze sessuali di molti romani
avvenissero con un ragazzo o una ragazza la cui condizione sociale
corrispondeva a quella di nemico sconfitto.104
Nel corso del tempo, questo divenne soprattutto una finzione
giuridica: i veri schiavi erano quasi sempre poveri venduti dai loro genitori,
sfortunati sequestrati da pirati o banditi, barbari delle zone di frontiera
dell’impero divenuti vittime di guerra o di processi giudiziari, o figli di
altri schiavi.105 Ma la finzione veniva conservata. Ciò che rese tanto inusuale la
schiavitù romana, in termini storici, fu l’unione di due fattori. Uno era la
sua arbitrarietà. In drammatico contrasto con la schiavitù delle piantagioni
americane, per fare un esempio, non c’era alcuna idea d’inferiorità delle
persone a giustificazione della schiavitù. Essa era considerata una disgrazia
che poteva capitare a chiunque.106 Pertanto non c’era motivo
per cui uno schiavo non potesse essere superiore al suo signore: più bello, con
un più elevato senso della moralità, con migliori gusti o una più elevata
comprensione della filosofia. Il padrone poteva anche ammetterlo. Non c’era
alcuna ragione per non farlo, dal momento che questo non aveva effetti sulla
natura della loro relazione, che era semplicemente una relazione di potere.
Il secondo fattore riguarda la natura assoluta di questo potere.
C’erano molti posti in cui gli schiavi erano concepiti come prigionieri di
guerra e i padroni come vincitori con un potere assoluto di vita e di morte, ma
di solito questo era solo un principio astratto. Quasi dappertutto, i governi
si dettero subito da fare per limitare tali diritti. Perlomeno, gli imperatori
e i re sostenevano che gli unici ad avere il potere di mettere a morte qualcuno
erano loro.107 Ma nella repubblica romana non c’erano imperatori e se c’era un
corpo sovrano questo era il corpo collettivo dei proprietari di schiavi. Solo
durante il primo impero vediamo davvero una legislazione che limita la libertà
dei proprietari di disporre delle loro proprietà umane, a partire da una legge
dell’epoca dell’imperatore Tiberio (16 d.C.) che dichiarava che un signore
doveva ottenere il permesso di un magistrato prima di ordinare che uno schiavo
venisse pubblicamente divorato dalle bestie feroci.108 Ma la natura assoluta del
potere del padrone – il fatto che in questo contesto egli fosse veramente lo
stato – significava anche che inizialmente non c’erano limiti rispetto
all’affrancamento di uno schiavo o a ogni altra manomissione della relazione di
schiavitù: un padrone poteva liberare il suo schiavo o anche adottarlo, e a
quel punto – dal momento che la libertà non significava nulla al di fuori
dell’appartenenza a una comunità – quello schiavo diventava automaticamente un
cittadino romano. Ciò portò a una situazione inusuale. Nel I secolo d.C., per
esempio, non era infrequente che un greco colto venisse venduto in schiavitù a
un ricco romano che aveva bisogno di un segretario. Lo schiavo poteva affidare
il denaro a un amico intimo o un familiare e poi, dopo un certo tempo,
ricomprare la propria libertà ottenendo la cittadinanza romana. Questo
nonostante il fatto che, durante il tempo trascorso come schiavo, se il suo
padrone decideva di tagliargli un piede, legalmente aveva il diritto di farlo.109
Il rapporto fra dominus e schiavo portò quindi a una
relazione di conquista, di potere politico assoluto all’interno delle mura
domestiche (di fatto, questa relazione divenne l’essenza stessa della vita
domestica). Bisogna mettere in evidenza che questo non era un rapporto morale
per nessuna delle parti in causa. Una nota formula legale, attribuita a un
avvocato della repubblica chiamato Quintus Haterius, lo afferma con particolare
chiarezza. Sia tra i romani sia tra gli ateniesi, subire una penetrazione
sessuale era considerato indegno di un cittadino maschio. Difendendo un liberto
accusato di continuare a fornire favori sessuali al suo vecchio padrone,
Haterius coniò un aforisma che in seguito divenne una sorta di aneddoto
popolare: impudicitia in ingenuo crimen est, in servo necessitas, in liberto
officium, ovvero che «l’impudicizia è un crimine per i liberi, una
necessità per gli schiavi, un dovere per i liberti».110
È significativo il fatto
che l’arrendevolezza sessuale fosse considerata «un dovere» solo per i liberti.
Non era un dovere dello schiavo, perché la schiavitù non era una relazione
morale: il padrone aveva il diritto fare quel che voleva e lo schiavo non
poteva farci niente. Ma l’effetto più insidioso della schiavitù romana è che
attraverso il diritto romano ha devastato la nostra idea di libertà umana. Il
significato della parola latina libertas è cambiato drammaticamente nel corso
del tempo. Ovunque nel mondo antico essere «liberi» voleva dire soprattutto non
essere schiavi. Dal momento che la schiavitù significava soprattutto la
distruzione dei legami sociali e della capacità di formarli, «libertà»
implicava la possibilità di creare e conservare impegni morali con gli altri.
La parola inglese free, per esempio, deriva dalla radice germanica che
significa friend, perché essere libero vuol dire essere capace di avere
amici, di mantenere le promesse, di vivere all’interno di una comunità di
uguali. Per questo gli schiavi liberati a Roma diventavano cittadini: essere
liberi, per definizione, significava essere radicati in una comunità civica,
con tutti i diritti e le responsabilità che ne derivavano.111
Ma a partire dal II secolo d.C. ciò iniziò a cambiare. I giuristi
lentamente ridefinirono la libertas fino al punto da renderla
indistinguibile dal potere del padrone. Era il diritto di fare assolutamente
qualsiasi cosa, con l’eccezione di tutto quel che non si poteva fare. In realtà,
nel Digestum, le definizioni di libertà e di schiavitù sono contigue:
La libertà è la facoltà naturale di fare quel che si vuole
allorché questo non sia vietato dalla forza o dalla legge. La schiavitù è un
istituto conforme allo ius gentium per cui una persona diviene proprietà
privata (dominium) di un’altra, in maniera contraria alla natura.112
I commentatori medievali si resero subito conto di un problema.113 Questo non implica forse
che tutti siano liberi? In fondo, anche gli schiavi sono liberi di fare tutto
quel che è loro permesso. Dire che uno schiavo è libero (a parte che non è
vero) è un po’ come dire che la Terra è piatta (a parte che è rotonda) o che il
sole è blu (a parte che è giallo) o che ancora una volta abbiamo il diritto
assoluto di fare quel che vogliamo con la nostra sega a motore (a parte quelle
cose che non possiamo fare).
In effetti questa definizione apre la porta a tutta una serie di
complicazioni. Se la libertà è naturale, allora di sicuro la schiavitù è
innaturale, ma se la libertà e la schiavitù sono solo una questione di gradi,
allora logicamente non sono forse tutte le restrizioni della libertà in
certo modo innaturali? Ciò non implica forse che la società, le regole sociali,
di fatto anche i diritti di proprietà siano allo stesso modo innaturali? Sono
queste le conclusioni a cui arrivarono molti giuristi romani quando si spinsero
a commentare tali tematiche astratte, cosa che avvenne di rado. In origine, gli
esseri umani vivevano nello stato di natura in cui tutte le cose erano tenute
in comune. Poi la guerra ha diviso il pianeta con le conseguenti «leggi delle
nazioni», lo ius gentium, le consuetudini comuni con cui l’umanità ha
regolato faccende come la conquista, la schiavitù, i trattati e i confini, che
erano responsabili anche delle disuguaglianze di proprietà.114
Questo significò inoltre che non c’era una differenza
caratteristica tra la proprietà privata e il potere politico, almeno fino a
quando quel potere si basò sulla violenza. Con il passare del tempo, gli
imperatori romani cominciarono anche a sostenere qualcosa come il dominium,
affermando che all’interno dei loro domini avevano la libertà assoluta (e in
effetti non erano vincolati dalle leggi).115 Al tempo stesso, la
società romana passò da una repubblica di proprietari di schiavi a un sistema
che assomigliava sempre più a quello successivo dell’Europa feudale, con
magnati che vivevano nelle loro grandi proprietà circondati da dipendenti,
contadini, servi indebitati e una varietà infinita di schiavi, con cui facevano
praticamente quel che volevano. Le invasioni barbariche che rovesciarono
l’impero si limitarono a formalizzare la situazione, eliminando in gran parte
la schiavitù intesa come proprietà, ma introducendo al tempo stesso l’idea che
le classi nobili discendessero dai conquistatori germanici e la gente comune
fosse in condizione servile nei loro confronti.
Ma il concetto romano di libertà sopravvisse anche nel nuovo mondo
medievale. La libertà non era altro che il potere. Quando i teorici politici
medievali parlavano di «libertà», si riferivano di solito al diritto di un
padrone di fare quel che voleva all’interno dei suoi domini. Ancora una volta
non si trattava del frutto di un accordo ma di un semplice fatto di conquista:
una famosa leggenda inglese sostiene che quando, attorno al 1290, re Edoardo I
chiese ai suoi nobili di produrre dei documenti per dimostrare con quale
diritto detenessero le loro franchigie (o «libertà»), il conte Warenne gli
mostrò soltanto una spada arrugginita.116 Come il dominium romano,
quel che contava era più il potere che il diritto, e quel potere veniva
esercitato soprattutto sulle persone (per questo nel Medioevo si faceva
comunemente riferimento alla «libertà della forca», per indicare il diritto del
signore di conservare il suo luogo privato per le esecuzioni).
Al tempo in cui il diritto romano cominciò a essere riscoperto e
modernizzato nel XII secolo, il termine dominium pose un problema
particolare, dal momento che, nel latino ecclesiastico comune all’epoca, veniva
usato alla stessa maniera per «proprietà privata» e «potere signorile». I
giuristi medievali trascorsero parecchio tempo a discutere se ci fosse una
differenza tra le due. Si trattava di un problema particolarmente spinoso: se i
diritti di proprietà erano veramente, come voleva il Digestum, una forma
di potere assoluto, era molto difficile capire in che modo qualcuno che non
fosse un re (o secondo altri giuristi, dio) potesse detenerlo.117
Questo non è il luogo per dilungarsi su certi ragionamenti, ma
credo che sia importante essere arrivati fin qui poiché ci permette di chiudere
il cerchio e di comprendere perché liberali come Adam Smith riuscirono a
concepire il mondo in una data maniera. C’è una tradizione che vuole che la
libertà sia essenzialmente il diritto di fare quel che si vuole con la propria
proprietà. Di fatto non rende solo la proprietà un diritto: tratta i diritti
come una forma di proprietà. In un certo modo, è un grande paradosso. Siamo
così abituati all’idea di «avere» dei diritti – che i diritti sono qualcosa che
si possiede –, che di rado pensiamo al significato di questa espressione. Di
fatto (e i giuristi medievali ne erano ben consapevoli) il diritto di un uomo è
semplicemente il dovere di un altro. Il mio diritto di parola è il dovere di un
altro di non punirmi per quel che dico. Il mio diritto a un processo equo è una
responsabilità del governo di garantire un sistema di equità. Il problema è lo
stesso dei diritti di proprietà: quando parliamo di impegni dovuti da qualcuno
verso un mondo, è difficile esprimersi in questa maniera. È molto più facile
parlare di «avere» diritti e libertà. Ma se la libertà è fondamentalmente il
nostro diritto di possedere le cose o trattarle come se le possedessimo, allora
che cosa significa «possedere» la libertà? Non significa forse che il nostro
diritto a possedere la proprietà è esso stesso una forma di proprietà? Si
tratta di un ragionamento eccezionalmente contorto: per quale ragione definire
le cose in questo modo?118
Da un punto di vista storico, c’è una risposta semplice, anche se
in certo modo provocatoria. Chi ha sostenuto che siamo possessori naturali dei
nostri diritti e della nostra libertà lo ha fatto per garantire che fossimo
liberi di rivenderglieli.
L’idea moderna dei diritti e delle libertà si ispira alla «teoria
dei diritti naturali» e a quel lavoro messo in opera da quando Jean Gerson,
rettore dell’Università di Parigi, cominciò a rielaborare i concetti del
diritto romano. Richard Tuck, tra i più importanti storici di questa idea, ha
osservato da tempo che una delle grandi ironie della storia è che essa è
costituita da un corpo di teorie abbracciate non dagli elementi progressisti
dell’epoca, ma da quelli conservatori. «Per un gersoniano, la libertà era una
proprietà e poteva essere scambiata allo stesso modo e nelle stesse forme di
una qualsiasi altra proprietà.» La libertà si poteva vendere, scambiare,
prestare o anche concedere volontariamente.119 Ne conseguiva che non
c’era niente di male nella schiavitù per debiti o anche nella schiavitù nuda e
cruda. E i teorici dei diritti naturali arrivarono proprio a fare queste
dichiarazioni. Infatti, nei secoli successivi, queste idee si svilupparono
soprattutto a Lisbona e Anversa, città al centro della nuova tratta degli
schiavi. Dopotutto, sostenevano, non sappiamo che cosa stia veramente
succedendo nelle terre all’interno di posti come Calabar, ma non c’è una
ragione particolare per ritenere che la gran parte dei carichi umani
trasportati dalle navi europee non si sia messa volontariamente in vendita o
sia stata resa disponibile dai suoi guardiani legali, o che infine abbia perso
la propria libertà in altre maniere perfettamente legittime. Senza dubbio – si
diceva – questo non sarà stato valido per tutti, ma qualche abuso esiste in
ogni sistema. L’aspetto importante è che non si vedeva niente di innaturale o
illegittimo nell’idea che la libertà potesse essere venduta.120
In breve, simili ragionamenti vennero utilizzati per giustificare
il potere assoluto degli stati. Thomas Hobbes fu il primo a sviluppare questa
riflessione nel XVII secolo, ma presto divenne un luogo comune. Lo stato era
sostanzialmente un contratto, una sorta di accordo d’affari in cui i cittadini
volontariamente rinunciavano ad alcune delle loro libertà naturali a favore del
sovrano. Alla fine, idee simili sono diventate la base per l’istituzione più
importante dell’attuale vita economica: il lavoro salariato, che in effetti è
la messa in affitto della nostra libertà nella stessa maniera in cui la
schiavitù ne era la vendita.121
E non solo possediamo le nostre libertà: la stessa logica è stata
applicata anche ai nostri corpi, trattati, in tal senso, allo stesso modo di
case, automobili o mobili. Noi possediamo noi stessi, pertanto chi sta fuori non
ha il diritto di violare la nostra proprietà.122 Tutto questo può sembrare
innocuo, addirittura positivo, ma le cose appaiono differenti se si prende in
considerazione la tradizione romana della proprietà su cui si basa il
ragionamento. Sostenere che possediamo noi stessi è, strano a dirsi,
rappresentare noi stessi simultaneamente come padroni e come schiavi. «Noi»
siamo sia i proprietari (esercenti il potere assoluto sulla proprietà) sia la
cosa posseduta (in quanto oggetti di un potere assoluto). L’antica casa romana
non è stata dimenticata nelle nebbie della storia, ma è conservata nell’idea
più fondamentale che abbiamo di noi stessi e, ancora una volta, come nel
diritto di proprietà, il risultato è così strano e incoerente da provocare
innumerevoli paradossi nel momento in cui si cerca di immaginare che cosa
significhi in pratica. Così come gli uomini di legge hanno trascorso migliaia
di anni cercando di dare un senso al concetto di proprietà nel diritto
romano,così i filosofi hanno dedicato secoli per capire come potessimo avere
una relazione di dominio su noi stessi. La soluzione più popolare – sostenere
che ognuno di noi ha qualcosa chiamata «mente», completamente separata da
un’altra cosa, che definiamo «corpo», e che la prima detiene il dominio naturale
sul secondo – disobbedisce apertamente a tutto quel che sappiamo oggi grazie
alle scienze cognitive. Evidentemente è falsa, ma continuiamo in ogni caso a
tenerci stretta questa teoria, per la semplice ragione che senza di essa
nessuno dei nostri luoghi comuni quotidiani su proprietà, legge e libertà
avrebbe più senso.123
"Debito: I primi 5000 anni" David Greabert
91 Ghazali, in Ghazanfar e Islahi, 1997, p. 32.
92 Ivi, p. 35. Sui postini nell’islam medievale: Goitein, 1964. Qui
la posizione di Ghazali ricorda, ed è senza dubbio influenzata da, quella di
Aristotele nell’Etica Nicomachea (1121b): poiché la moneta è una
convenzione sociale creata per facilitare gli scambi, dirottarla all’usura va
contro il suo scopo; ma la sua tesi più profonda è piuttosto diversa, più
vicina a quella di Tommaso d’Aquino secondo cui la moneta è in sostanza una
misura, e l’usura distorcerebbe questa misura; e a quella di Henry di Ghent per
cui «la moneta nello scambio è un mezzo, non un fine» – il fatto è scontato,
poiché Tommaso era influenzato direttamente da Aristotele (Ghazanfar, 2000).
93 Qui è difficile esagerare. Anche la famosa «curva di Laffer»,
usata dall’amministrazione Reagan negli anni ottanta per sostenere che una
riduzione delle tasse aumenterebbe gli introiti governativi stimolando
l’attività economica, è spesso chiamata curva Khaldun-Laffer perché fu proposta
per la prima volta, come principio generale, nel Muqaddimah di Ibn
Khaldun nel 1377.
94 Goitein (1957) per l’ascesa della «borghesia mediorientale».
95 Un «abbassamento» funzionava di fatto come un aumento delle
tasse, perché a questo punto servivano più scudi per pagare una somma fissata
in denaro. Poiché erano fissati in lire, soldi e denari, questa manovra alzava
anche i salari, quindi era molto popolare. Un «alzamento» invece abbassava il
valore effettivo dell’unità di conto. Questo poteva essere utile per ridurre i
debiti personali del sovrano o dei suoi alleati, che erano misurati in queste
unità di conto, ma riduceva il reddito e dei salariati e di chiunque avesse uno
stipendio fisso, quindi era una misura che spesso incontrava l’opposizione
popolare.
96 Langholm, 1979; Wood, 2002, pp. 73-76.
97 Sulla letteratura patristica sull’usura: Maloney, 1983; Gordon,
1989; Moser, 2000; Holman, 2002, pp. 112-26; Jones, 2004, pp. 25-30.
98 Matteo 5,42.
99 San Basilio, Homilia II in Psalmum XIV, trad. it. Omelie
sui salmi, 1965, p. 81.
100 Ivi, p. 82.
101 Ibid.
102 Sant’Ambrogio, De Officiis II, 25, p. 89.
103 Sant’Ambrogio, De Tobia 15, 25. Vedi Nelson, 1949, pp.
3-5; Gordon, 1989, pp. 114-18.
104 Anche se non interamente. Vale la pena notare che in quel periodo
gli schiavi erano forniti all’impero principalmente dalle popolazioni barbare
germaniche, ridotti in questo stato da guerra o debiti.
105 «Se ognuno» scrisse «dopo aver preso dai suoi possedimenti tutto
quello che gli serve per soddisfare i suoi bisogni, lasciasse il superfluo a
quelli a cui manca il necessario, non ci sarebbero né ricchi né poveri» (In Illiud
Lucae 49d) – lo stesso Basilio un tempo era un aristocratico, ma vendette
tutte le sue terre, distribuendo i proventi ai poveri.
106 Homilia II in Psalmum XIV. Il riferimento è a Proverbi
19,17.
107 Summa 8.3.1.3: «Poiché la grazia è data liberamente,
esclude l’idea di debito. In nessun senso il debito implica che Dio debba
qualcosa a un’altra creatura».
108 Clavero (1986) vede questo come un conflitto di base sulla natura
del contratto, e quindi sul piano legale delle relazioni umane nella storia
europea: l’usura, e per estensione il profitto, fu messa al bando, ma
l’affitto, la base delle relazioni feudali, non fu mai messo in discussione.
109 Gordon, 1989, p. 115. «Cos’è il commercio» scrisse Cassiodoro
(485-585) «se non voler vendere a caro prezzo merci che possono essere comprate
a poco? Quindi questi mercanti sono detestabili, senza alcuna considerazione
della giustizia di Dio, riempiono le loro merci più di spergiuro che non di
valore. Il Signore li ha cacciati dal Tempio dicendo “non fate della casa di
mio Padre una tana di ladri”» (in Langholm, 1996, p. 454).
110 Sulla tradizione giuridica ebraica dell’usura, vedi Stein, 1953,
1955; Kirschenbaum, 1985.
111 Poliakov, 1977, p. 21.
112 Nelson (1949) ipotizza che l’«Eccezione» fosse applicata spesso
anche alle relazioni tra cristiani ed ebrei, ma Noonan (1957, pp. 101-02)
afferma che era applicata principalmente solo a «eretici e infedeli, in
particolare i saraceni», mentre secondo altri non si applicava nemmeno a loro.
113 Fino al 52 per cento se venivano prestate delle garanzie,
altrimenti fino al 120 per cento (Homer, 1987, p. 91).
114 La prigione per debitori, nel senso di una prigione
esclusivamente per i debitori, esistette in Inghilterra solo a partire dal
1263, ma l’imprigionamento dei debitori ha una storia molto più lunga.
Soprattutto, sembra che gli usurai ebrei siano stati usati per trasformare
moneta creditizia in monete coniate, pignorando l’argenteria di famiglia dei
debitori insolventi e portandola alla zecca reale. Acquisirono rapidamente
anche molte terre, sempre da debitori insolventi, che finirono in larga parte
sotto il controllo di baroni o monasteri (Singer, 1964; Bowers, 1983; Schofield
e Mayhew, 2002).
115
Roger di Wendover, Flowers of History, pp. 252-53. Egli non specifica il nome
della vittima; in alcune versioni successive è chiamato Abramo, in altre
Isacco.
116 Matthew Prior, in Bolles, 1837, p. 13.
117 Oppure anche le fantasie di Nietzsche secondo cui le origini
della giustizia sarebbero da cercare nelle mutilazioni. Mentre quella era una
proiezione sugli ebrei di atrocità in realtà commesse contro gli ebrei,
Nietzsche scriveva in un’epoca dove i «selvaggi» venivano spesso puniti con
torture e mutilazioni simili per non aver pagato i loro debiti all’autorità
coloniale. In seguito divenne noto il famoso scandalo del Congo Belga governato
da Leopoldo.
118
Mundill, 2002; Brand, 2003.
119
Cohn, 1972, p. 80.
120
Peter Cantor, in Nelson, 1949, pp. 10-11.
121 Per esempio, quando gli ebrei furono infine espulsi
dall’Inghilterra nel 1290, la loro proprietà passò a un’azienda di Cahors. Per
un lungo tempo, la situazione degli stessi lombardi e caorsini dipese dal
favore reale, non erano in una posizione molto migliore di quella degli ebrei.
In Francia, pare che i re espropriassero ed espellessero alternativamente
lombardi ed ebrei (Poliakov, 1977, p. 42).
122
Noonan, 1957, pp. 18-19; Le Goff, 1990, pp. 23-27 (trad. it. 1987).
123 Come ho detto, ci sono due modi per arricchirsi; uno è parte
della gestione domestica, l’altro è il commercio: il primo metodo è necessario
e onorevole, mentre il secondo, che consiste in un mero scambio, è giustamente
censurato; perché è innaturale, una pratica con cui l’uomo trae profitto dagli
altri uomini. Tra queste, la pratica più odiata, e a ragione, è l’usura, che
genera profitti dal denaro stesso, e non dalla sua forma naturale. Perché il
denaro serve per gli scambi, non per crescere con l’interesse. E il termine
interesse (tokos), che significa che il denaro nasce dal denaro stesso,
si applica alla moneta perché i figli assomigliano ai genitori. «Quindi tra
tutte le modalità di arricchimento l’usura è la più innaturale» (Aristotele, Politica,
1258b). L’Etica Nicomachea (1121b) contiene una condanna altrettanto
netta. Per la migliore analisi generale della tradizione aristotelica
sull’usura vedi Langholm (1984).
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