“La
sola strada da battere per uscire dalla crisi contemporanea è IL RIFIUTO DI
PIEGARE OGNI UOMO ALLE ESIGENZE DEL PROFITTO, che è il motore di questa
società, e lo sforzo di adeguare tutte le strutture sociali alle esigenze
dell’uomo, di CREARE UNA SOCIETÀ A MISURA UMANA, UNA SOCIETÀ IN CUI GLI
UOMINI POSSANO RITROVARE IL SENSO DELLA VITA, la coscienza della propria
responsabilità, il gusto dei rapporti comunitari…” [L.
BASSO, Le radici del malessere, Il
Giorno, 13 giugno 1974].
Come ricorda il sito (www.leliobasso.it)
dedicato agli scritti, alle analisi ed alle riflessioni di questo straordinario
protagonista del Novecento, Lelio Basso “fu
un socialista rispettoso della grande tradizione del movimento operaio ma
indipendente dall’ortodossia. Fu un intellettuale formatosi a contatto con le
migliori menti dell’Italia prefascista (da Mondolfo a Gobetti) ma capace fino
all’ultimo di confrontarsi con le nuove tendenze della ricerca e delle scienze
sociali. Fu un uomo senza fede, ma di rigoroso senso etico e attento, come pochi
altri con le sue idee, alle istanze e agli interrogativi della religione. Fu un
democratico rispettoso delle istituzioni – che aveva contribuito in modo
decisivo a pensare e a costruire - ma anche sottile critico dei limiti della
democrazia novecentesca impegnato nella ricerca di alternative che ne
superassero i vincoli e la estendessero a tutto il pianeta”.
Ma Lelio
Basso è soprattutto una delle pochissime
figure della politica italiana del Novecento che continua a dire, attraverso i suoi scritti, ancora oggi
incredibilmente attuali, qualcosa
di originale e di importante a chi vive in questo secolo.
Un
secolo che sembra avere dato una risposta negativa al fondamentale interrogativo del Novecento: quello
sulla possibilità di una democrazia pienamente attuata, che
realizzi l’eguaglianza sostanziale e la pari dignità sociale degli esseri umani, rendendoli
pienamente liberi e partecipi della vita politica, economica
e sociale del Paese.
La lungimiranza di questo grande intellettuale è
testimoniata, in particolare, da un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera il
27 maggio 1973 che costituisce, in assoluto, la prima segnalazione della congenita e
strutturale incostituzionalità dei trattati europei.
La
lucidità dell’analisi, tenuto conto che che
viene effettuata a 16 anni dalla firma del trattato di Roma (l’embrione della
futura Unione europea, che proclamava le quattro libertà
"fondamentali" del liberismo economico: la libera circolazione delle merci, delle persone,
dei servizi e dei capitali; i quattro principi sacri, da sempre, del liberismo,
che trovarono immediato compendio nel programma posto a base della UE), è sorprendente. Ne riporto i passaggi principali:
“…Com’è
noto, il Trattato di Roma del 25 marzo 1957 che ha istituito la CEE dispone
all’art. 189 che il Consiglio … e la Commissione … “stabiliscono regolamenti e
direttive, prendono decisioni e formulano raccomandazioni o pareri. Il
regolamento (...) è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente
applicabile in ciascuno degli Stati membri. La direttiva vincola lo Stato
membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva
restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai
mezzi... La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari
da essa designati. Le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti”.
Emerge chiaramente da
questo testo che quest’articolo attribuisce un’efficacia normativa
obbligatoria ai regolamenti, che devono essere immediatamente applicati dai
singoli Stati, e alle decisioni, sottraendole completamente alla “competenza
degli organi nazionali”, che è prevista solo in merito alle forme e ai
mezzi di attuazione delle direttive. In altre parole Consiglio e commissione,
in base a quest’articolo, possono dettare norme giuridiche obbligatorie per
i cittadini di ciascuno Stato, e quindi anche dell’Italia, senza che gli organi
legislativi del paese siano neppure consultati. Come si vede, quest’articolo
sottrae al Parlamento quella che è una delle sue più gelose funzioni, la
funzione legislativa, in una sfera immensa di attività che comprende
praticamente tutta l’attività economica … ivi compreso… il campo fiscale.
Non vi è pertanto dubbio che siamo qui in presenza di UNA RADICALE
MODIFICAZIONE DELLA NOSTRA COSTITUZIONE, che riserva espressamente ed
esclusivamente ad un organo eletto dal popolo, il Parlamento, la potestà di
fare leggi, cioè di dettare norme obbligatorie per tutti.
L’inconciliabilità
di questa norma con la costituzione fu avvertita dall’opposizione fin dal momento
della firma del Trattato, tanto che, in sede di ratifica parlamentare, sollevammo
l’eccezione che un Trattato di questa natura… SOVVERTIVA IL NOSTRO ORDINAMENTO
COSTITUZIONALE… La maggioranza fu di avviso contrario, e l’argomento
principale fu che la nostra costituzione stessa prevede all’articolo 11 che
l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia fra le Nazioni”.
Ma
si può ritenere che questa norma generale autorizzi una disposizione come
quella ricordata dell’articolo 189? … a mio parere, non solo i princìpi del nostro
ordinamento ma il più semplice buon senso devono indurci a dire di no per una
serie di ragioni:
a) innanzi tutto le limitazioni
di sovranità sono consentite solo ai fini di assicurare la pace e la giustizia
fra le Nazioni, e sì riferiscono quindi a organismi tipo ONU, tribunali
internazionali e simili, ma non ad un organismo, la Comunità, il cui
fine precisato dall’art. 2 del Trattato, è quello “DI PROMUOVERE UNO SVILUPPO
ARMONIOSO DELLE ATTIVITÀ ECONOMICHE”;
b) in secondo luogo
altro è una “limitazione” di sovranità (come può essere la rinuncia
alla guerra, la limitazione del diritto di armarsi e anche l’accettazione
di controlli reciproci al riguardo, e simili) e altro è invece il
trasferimento della propria sovranità ad organi esterni, come il consiglio
o la commissione, la quale ultima, come previsto dall’art. 157, avrebbe potuto
non comprendere neppure un italiano;
c) in terzo luogo va
osservato che la parola “sovranità” ha un duplice significato: uno riguarda la
personalità internazionale dello Stato e significa il diritto di ciascuno Stato
alla piena indipendenza nei confronti di ciascun altro; il secondo riguarda invece
il modo come ciascuno Stato esercita nel proprio interno il potere sovrano…
Ora pare a me che la
“limitazione” di cui parla l’art. 11 si riferisce ai rapporti fra Stati,
ma non può intaccare il principio fondamentale della nostra costituzione,
secondo cui (art. 1) l’Italia è una repubblica democratica e
“la sovranità appartiene al popolo che la esercita”. Attribuire
poteri legislativi, senza il concorso e anche contro la volontà del Parlamento
italiano, a un consiglio composto da un rappresentante di ciascun governo, o
addirittura a una commissione nominata collegialmente dai governi membri, SIGNIFICA
SPOGLIARE IL POPOLO DELL’ESERCIZIO DELLA SOVRANITÀ in materia di estrema
importanza e, quindi, sovvertire l’ordinamento costituzionale italiano.
Dell’esistenza di
questo grave problema l’opposizione è stata cosciente: chi scrive… ha
personalmente sostenuto una lunga battaglia in seno alla commissione degli
esteri della Camera fino al 1969, ma governo e maggioranza si sono sempre
mostrati sordi.
Ora attendiamo la
decisione della Corte, ma se anch’essa si pronunciasse in senso contrario a
quanto qui sostenuto, il problema sarebbe risolto solo sul piano formale. Si
tratta infatti di vedere se un popolo, che vuol essere democratico, può
essere governato da norme che invadono campi sempre più vasti, e che sfuggono a qualsiasi
decisione preventiva o controllo successivo di organi elettivi, cioè al controllo della rappresentanza
dei cittadini interessati” [L. BASSO, È
incostituzionale l’adesione al MEC ?, Corriere della Sera, 27 maggio 1973].
Domanda retorica, essendo evidente che un popolo “governato da norme che ... sfuggono a qualsiasi decisione preventiva o controllo successivo di organi elettivi, cioè al controllo della rappresentanza dei cittadini interessati” non vive in regime di democrazia. L’importantissima critica di Basso all’idea che l’art. 11 Cost. autorizzi la sottrazione della funzione legislativa al Parlamento in ogni aspetto dell’attività economica, “ivi compreso il campo fiscale”, a favore di organi esterni al nostro ordinamento costituzionale privi di legittimazione democratica era dunque centrata, molto ben argomentata e pienamente fondata.
A Lelio Basso - eccellente avvocato in grado di
“leggere” una sentenza ancor prima che fosse scritta (in base a determinati
fattori extragiuridici) - dovevano tuttavia fischiare le orecchie: la
questione della legittimità costituzionale dell’art. 189 del trattato di Roma
era infatti sub
iudice (“Ora attendiamo la decisione della Corte...”) e pochi mesi dopo la pubblicazione dell’articolo
in commento la Corte Costituzionale avrebbe emesso la decisione attesa (e
temuta: “ma
se anch’essa si pronunciasse in senso contrario a quanto qui sostenuto, il problema sarebbe risolto solo sul
piano formale”) dal nostro Autore.
E’ la sentenza
n.183 del 27 dicembre 1973,
con la quale la
Corte Costituzionale affermava la prevalenza del diritto C.E.E. su quello
nazionale, anche a livello di Legge Fondamentale (entro determinati limiti). Secondo la Corte,
<< la
legge 14 ottobre 1957, n.1203, con cui il Parlamento italiano ha dato piena ed
intera esecuzione al Trattato istitutivo della C.E.E. >> trovava infatti << sicuro fondamento di legittimità nella
disposizione dell’art. 11 della Costituzione >>, disposizione che, essendo collocata tra i
principi fondamentali della Costituzione, segnerebbe << un chiaro e preciso indirizzo politico:
il costituente si riferiva, nel porla, all’adesione dell’Italia alla
Organizzazione delle Nazioni Unite, ma si ispirava a principi programmatici di
valore generale, di cui la Comunità economica e le altre Organizzazioni
regionali europee costituiscono concreta attuazione >>. La Corte richiamava << le solenni enunciative contenute nel
preambolo del Trattato, e le norme concernenti i principi (art. 1 e seguenti),
i fondamenti (artt. 9 e seguenti), e la politica della Comunità (artt. 85 e
seguenti)>> per sostenere che l’istituzione
della C.E.E. fosse stata << determinata dalla comune volontà degli Stati membri
di “porre le fondamenta di una unione sempre più stretta tra i popoli europei”,
diretta “ad assicurare mediante un’azione comune il progresso economico e
sociale dei loro paesi, eliminando le barriere che dividono l’Europa”, e ciò
nel preciso intento di “rafforzare le difese della pace e della libertà, facendo
appello agli altri popoli d’Europa, animati dallo stesso ideale, perché si
associno al loro sforzo”, nonché di “confermare la solidarietà che lega
l’Europa ai paesi d’oltremare, desiderando assicurare lo sviluppo della loro
prosperità conformemente ai principi dello Statuto delle Nazioni Unite”>>.
Tutto questo, a detta della Corte, rendeva indubitabile la << piena rispondenza del Trattato di Roma alle finalità
indicate dall’art. 11 della Costituzione >> e giustificava il
<< parziale
trasferimento agli organi comunitari dell’esercizio della funzione legislativa, in base ad un preciso criterio di
ripartizione di competenze per le materie analiticamente indicate nelle parti
seconda e terza del Trattato, in correlazione necessaria con le finalità di
interesse generale stabilite dal Trattato stesso per la politica economica e
sociale della Comunità>>. Avrebbe, in altre parole, giustificato
il fatto che un popolo fosse privato dell’esercizio della sua sovranità nelle materie “analiticamente indicate nelle parti seconda e terza
del Trattato” e costretto lo stesso popolo ad accettare (senza nemmeno essere consultato) di
“essere
governato da norme” che,
come giustamente aveva rimarcato Lelio Basso, “sfuggono a qualsiasi decisione
preventiva o controllo successivo di organi elettivi”. Il tutto condito con un’affermazione finale che la
dice lunga sulla strabiliante
“cecità” della Corte in tema di ricadute economiche, etiche e sociali delle
scelte giuridiche: secondo la Corte, in fatti, siccome
<< la
competenza normativa degli organi della C.E.E. >> era << prevista dall’art. 189 del Trattato di Roma
limitatamente a materie concernenti i rapporti economici >>, sarebbe stato << difficile configurare anche in astratto
l’ipotesi che un regolamento comunitario >> potesse << incidere in materia di rapporti civili,
etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione
italiana >>.
Un trattato che prevedeva la
creazione di un “mercato
comune” basato sulla libera circolazione delle
persone, delle merci, dei servizi e (soprattutto) dei capitali, cioè un
trattato di libero scambio, non avrebbe dunque potuto incidere, nella (miope)
visione della Corte, sui << rapporti civili, etico-sociali, politici, con
disposizioni contrastanti con la Costituzione italiana >>. Idea del tutto inattendibile (le ricadute economiche di determinate scelte
giuridiche - come la scelta di aderire ad un trattato avente finalità
prettamente economiche - incidono pesantemente sui “rapporti civili, etico-sociali, politici”, anche “con disposizioni contrastanti con la nostra
Costituzione”, e lo abbiamo tragicamente visto negli
ultimi trent’anni) e contraria
ai medesimi enunciati del trattato
[sul questo punto si legga la perfetta disamina del Dott. Luciano Barra
Caracciolo ai punti 4 e 5 del seguente articolo: http://orizzonte48.blogspot.com/2016/08/lincomprensione-delluropa-alla-corte.html
nel quale si pone in evidenza come i trattati europei, sin dagli anni ’50,
propugnassero “l’idea
del liberismo neo-classico, superata, anzi respinta, esplicitamente dalla
nostra Costituzione” e basata sul postulato, esplicitato
in modo ossessivo nei medesimi trattati
(e, quindi, immediatamente percepibile dalla Corte Costituzionale), “che l’attività economica si esplichi in condizione
di libera concorrenza” quale “ipotesi macroeconomica fondata sulla
prevalenza del sistema dei prezzi, affidati alle dinamiche dell’economia
privata non ostacolata dall’intervento dello Stato nel raggiungere l’efficienza
allocativa”.
Efficienza che subordina
dichiaratamente “crescita
e sviluppo” alla duplice condizione della stabilità dei prezzi e della “preferenza per la flessibilità verso il basso dei
prezzi relativi ai costi d’impresa (in primis i salari)”
e che, così concepita, viene automaticamente estesa ad equilibrio generale. Con conseguente “ribaltamento dell’impostazione
socio-economica accolta in Costituzione”; ribaltamento immediatamente percepibile dalla Corte, la quale “già disponeva di questo quadro di interpretazione
autentica e vincolante dei trattati”
che le avrebbe consentito di approdare a ben differente decisione].
La
motivazione della sentenza
(mutuando le parole di Arturo
Carlo Iemolo a commento della sentenza 19 giugno 1936
delle Sezioni Unite della S.C.) era però
“la
migliore via per giungere alla conclusione a cui (ndr.: la Corte Costituzionale) credeva di dover pervenire” per
risolvere la questione in modo
“politicamente
corretto” (sull’onda di un europeismo tanto
dilagante, quanto strumentale alla restaurazione di un sistema di potere che i
Padri costituenti ritenevano ampiamente superato e non più proponibile).
L’obiettivo (politico) era legittimare il fatto che “la potestà di fare leggi, cioè di
dettare norme obbligatorie per tutti”
potesse appartenere ad organi esterni non eletti dal popolo. La motivazione
della sentenza non era dunque altro che “la migliore via”
(e nulla importava che si risolvesse in un’inaccettabile forzatura
interpretativa), il
percorso interpretativo idoneo per raggiungere l’obiettivo prestabilito.
Contrariamente a quanto asserito dalla Corte
Costituzionale, lo
scopo (“la pace e la giustizia tra le nazioni”), che consente, assieme alla reciprocità ed
all’eguaglianza (“in
condizioni di parità con gli altri Stati”)
le limitazioni di sovranità previste dall’art. 11 Cost. era ed è un vincolo rigido ed
imprescindibile (si veda, in proposito, oltre
all’intervento dell’on. Ruini qui sotto citato, la relazione al progetto di
Costituzione del medesimo presidente della Commissione per la Costituzione,
laddove si afferma chiaramente che l’Italia, “Stato indipendente e libero, non consente, in
linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si
dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle
necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli”). Tali limitazioni sono cioè consentite, ex
art. 11 Cost., solo
ed esclusivamente a favore di organizzazioni finalizzate a promuovere la pace e
la giustizia tra i popoli. Unioni economiche (come la C.E.E. o, attualmente, L’Unione europea) o,
a maggior ragione, monetarie, le cui regole
- al di là delle affermazioni “cosmetiche”
sulla pace ed il benessere dei popoli, o sulla piena occupazione (vista non
come obiettivo da perseguire attivamente, ma come un effetto “naturale” della
concorrenza e della stabilità dei prezzi) - prevedono l’instaurazione di un libero
mercato fortemente competitivo
e, quindi, di una feroce concorrenza mercantilista tra gli Stati membri che esclude qualsiasi forma di solidarietà,
prefiggendosi come principale (se
non unico)
obiettivo la “stabilità dei prezzi” (basata,
come sappiamo, su uno strutturale ed elevato tasso di disoccupazione “non inflazionistico”), non hanno ovviamente nulla a che vedere con le
organizzazioni considerate dai Padri costituenti nella discussione che condusse
all’approvazione dell’art. 11 Cost.
Tant’è vero che l’ipotesi
di inserire un riferimento all’
“unità
dell’Europa” nel medesimo articolo fu considerata, discussa
e scartata dall’Assemblea costituente,
sia in sede di elaborazione del progetto, sia in occasione della discussione
finale (si veda http://www.nascitacostituzione.it/01principi/011/index.htm
ed, in particolare, l’emendamento Lussu proposto e non approvato il 24 gennaio
1947 e l’emendamento Bastianetto, discusso il 24 marzo 1947 e ritirato in
seguito all’intervento dell’on. Ruini sopra richiamato).
Coerentemente, l’art. 11 Cost. non prevede "cessioni"
(cioè trasferimenti permanenti
di specifiche funzioni sovrane dello Stato ad istituzioni sovranazionali), bensì "limitazioni"
(ovvero trasferimenti
temporanei e, come abbiamo visto, per scopi non economici di specifiche funzioni sovrane dello Stato ad
istituzioni sovranazionali; funzioni immediatamente riassumibili dal soggetto titolare allorchè vengano a mancare le condizioni che
giustifichino le limitazioni stesse) di sovranità,
purché ciò avvenga a
condizioni di parità con gli altri stati.
Circostanza quest'ultima esclusa già nel trattato di Roma dall’art. 157 (il quale, come sottolineava Lelio Basso, prevedeva
la possibilità che la Commissione non comprendesse neanche un membro italiano) e,
a maggior ragione, nell’attuale
Unione europea e nell’eurozona dalla predominanza tedesca e (in minima parte) francese, nonché da criteri di convergenza
dell’inflazione e del debito pubblico (il
cui costo, per l’Italia, era più del triplo di quello francese e tedesco e,
quindi, tutt’altro
che paritario già all’inizio degli anni ’90), e di riduzione del deficit irragionevoli
sul piano scientifico, la cui applicazione asimmetrica (cioè più o meno “rigida” od “elastica” a seconda
degli Stati) ha provocato squilibri
(vantaggi e svantaggi) e divergenti modalità di attuazione della moneta unica tra
i vari Stati, nonché un consistente peggioramento
delle relazioni tra gli stessi, ormai improntate ad un rapporto di
subordinazione gerarchica rispetto alla Germania, nazione egemone che detta ed
impone regole valevoli per tutti (salvo eccezioni basate su meri rapporti di
forza), tranne che per se stessa.
Se tutto ciò valeva, così come effettivamente valeva,
per il trattato di Roma, a maggior ragione vale per il sistema dei trattati UE,
i cui apparati di comando (Consiglio, Commissione Europea, Eurogruppo e BCE) -
che costituiscono il braccio e rispondono agli interessi dei principali gruppi
finanziari e delle multinazionali economiche - sono notoriamente privi di legittimazione democratica ed operano,
come ci ha candidamente spiegato Mario Monti (Intervista sull'Italia in Europa, 40 e ss.), "al riparo dal processo elettorale" (notare l’ “eleganza” con la quale si enunciano
certi concetti di matrice ideologica reazionaria), sfuggendo pertanto al controllo popolare.
L’art. 11 della
Costituzione, così come aveva rilevato Lelio Basso
nell’articolo in precedenza citato, non può dunque giustificare l’ingresso dei trattati
europei nel nostro ordinamento.
Consapevole della forzatura e prendendo le mosse dal capzioso postulato della << progressiva messa in crisi delle tradizionali funzioni
sovrane degli Stati nel campo della direzione e del controllo dei processi
economici >> una certa parte della dottrina
ha perciò sostenuto l’esigenza di << assumere a punto di riferimento quel fenomeno
sociale omogeneo costituito dall’insieme dei processi di verticalizzazione
ed internazionalizzazione delle funzioni politiche >> e ne ha dedotto
<< una
posizione di supremazia della Comunità internazionale >>. Posizione che rappresenterebbe il << presupposto per l’attribuzione alla
Comunità degli Stati di una vera e propria funzione normativa nel
disciplinare, per conto di questi ultimi, specifiche questioni
d’interesse generale >>, con
conseguente <<
riconoscimento di fonte di diritto alle disposizioni del Trattato sull’Unione
monetaria >> (ora dei Trattati UE). Tale
interpretazione, secondo questa dottrina, potrebbe << ritenersi in linea con le indicazioni
rivenienti dal disposto dell’art. 10 comma 1 Cost. >>, in base al quale “l’ordinamento italiano si conforma alle norme
del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
Ciò - si badi bene - ove a tale norma si dia << una lettura che ne apra i contenuti in vista della
valorizzazione dell’ordinamento internazionale >> e che << non sia circoscritta all’individuazione
esclusiva di disposizioni a carattere consuetudinario, bensì estesa a
ricomprendere anche le altre regole che possono considerarsi espressione del
potere organizzativo della Comunità internazionale, ovviamente
prescindendosi dalla natura convenzionale che le medesime presentano >> (F. Capriglione, Moneta,
Enc. Diritto, Aggiornamento III, Giuffrè, Milano, 1999, 760).
“Prescindendosi”,
“ovviamente” (!) E qui casca l’asino, perché da tale natura non è assolutamente
possibile prescindere. È infatti nozione pacifica in dottrina
e nella giurisprudenza della Corte Costituzionale che il meccanismo di adattamento automatico
previsto dall'articolo 10 Cost. vale limitatamente alle fonti
consuetudinarie, cioè a quelle norme di validità generale riconosciute come tali dalla comunità internazionale,
rimanendone invece escluso
tutto il diritto internazionale pattizio, ovvero quello che sorge da trattati validi solo per
gli stati che li hanno stipulati.
La questione fu oggetto di approfondita discussione in Assemblea
Costituente, ove venne proposto un emendamento inteso a sopprimere le parole “generalmente riconosciute” dal testo dell’articolo, poiché ritenute inutili. La
commissione dei 75 tuttavia precisò che si trattava di un’espressione tecnica per indicare il diritto
internazionale generale, lasciando ad altri procedimenti
l’adattamento del diritto italiano a quello internazionale pattizio. L’emendamento non fu approvato e nella seduta del 24
marzo 1947 l’Assemblea approvò l’attuale testo dell’articolo 10.
D’altra parte l’interpretazione estensiva di una norma inserita tra i principi
fondamentali della Costituzione deve ritenersi inammissibile: si risolverebbe infatti in una forma di revisione tacita del
principio in essa affermato, pacificamente sottratto al procedimento di revisione
in quanto “fondamentale”
e, perciò, insuscettibile di modifica (secondo l’insegnamento costante della
Corte Costituzionale).
In realtà il diritto dei trattati europei entra nel nostro
ordinamento attraverso l’art. 10 Cost.,
ma
come fonte secondaria. Tra le norme di
diritto internazionale generalmente riconosciute opera infatti la consuetudine che impone agli stati di
osservare gli accordi liberamente stipulati
(pacta
sunt servanda). Da questa fonte primaria deriva
l’obbligo delle istituzioni di far rispettare i trattati nell’ambito statale
(e, dunque, di ratificarli), ma solo entro determinati limiti. Arriviamo così al nocciolo del problema.
Secondo la giurisprudenza costante della Corte Costituzionale, i
principi fondamentali della Costituzione e i diritti inalienabili della persona
(cioè tutte le norme che caratterizzano
la nostra Repubblica come uno Stato di diritto, basato su una democrazia del
lavoro) costituiscono
un “limite all’ingresso [...] delle norme internazionali
generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si
conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione (sentenze n.48 del
1979 e n. 73 del 2001)” ed operano quali “controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione
europea (ex
plurimis: sentenze n.183 del 1973, n. 170 del 1984, n.232 del 1989, n.168 del
1991, n.284 del 2007) [...] Essi rappresentano, in altri termini, gli
elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale,
perciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (art. 138 e 139
Cost.: così nella sentenza n.1146 del 1988)”
(così la sentenza della Corte
Cost. n.238 del 22 ottobre 2014, paragr. 3.2 -3.4).
Le restrizioni di sovranità (cessioni o limitazioni)
imposte dai trattati UE non dovrebbero cioè “indurre alterazioni dei lineamenti del
nostro Stato come Stato di diritto, democratico e sociale” (Mortati, Istituzioni
diritto pubblico, Tomo II, Nona edizione, Padova, 1976,
1501 e ss.). Ne consegue che il trasferimento delle relative competenze ad
organi comunitari potrebbe ritenersi ammissibile solo ove questi ultimi fossero informati
ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale e risultassero
soddisfatte le esigenze caratterizzanti il tipo di aggregazione
sociale (democrazia sociale, del lavoro) voluta dai padri costituenti.
Su questo punto la Corte dovrebbe tornare a
riflettere, concentrando l’attenzione sui primi quattro articoli della Costituzione e, in particolare, sul principio democratico, su quello di eguaglianza
e su quello lavorista.
La
forma democratica, com’è noto, è stabilita dall’art. 1
Cost.
La dichiarazione di appartenenza della sovranità al popolo implica la permanenza dell’esercizio di questa nel
popolo come contrassegno essenziale ed ineliminabile del regime democratico e significa che l’esercizio dei poteri più elevati, cioè
quelli che condizionano la direzione e lo svolgimento degli altri, è attribuito al popolo in modo ineliminabile, sicché questo non possa esserne spogliato nemmeno
attraverso procedimenti di revisione costituzionale. Il diritto del popolo di
partecipare alle supreme decisioni politiche rientra cioè fra i diritti inalienabili
di cui al successivo art.2,
restando così sottratto al potere di revisione (Mortati, Op.
cit., Tomo I, Decima edizione, Padova, 1991,
153 ss.).
Orbene, nessuno può seriamente dubitare che il potere di assumere tutte le decisioni
riguardanti la politica economica,
monetaria, fiscale,
di
bilancio rientri fra quelli più elevati e condizionanti che l’art. 1 Cost. attribuisce al
popolo in modo permanente ed ineliminabile.
Eppure i trattati UE
hanno trasferito tale potere (art. 2, commi 1° e 3°, TFUE;
art. 3, comma 1°, lett. c, TFUE; art. 4, comma 3°, ultimo periodo, TUE;
art.li da 119 a 133 TFUE; Fiscal Compact, e altri atti come il Two Pack
ed il Six Pack) ad apparati di comando (Consiglio, Commissione Europea, Eurogruppo e BCE)
notoriamente privi
di legittimazione democratica
e politicamente
irresponsabili.
Hanno quindi istituito un’unione monetaria, adottando
una moneta non nazionale, l’euro (art. 3 co. 4 TUE), emessa e controllata (ex art. 127 e ss. TFUE) da un organismo sovranazionale estraneo alla
Costituzione, totalmente indipendente “dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri” e “da qualsiasi altro organismo” (art. 130 TFUE).
Hanno poi sottoposto gli Stati a vincoli di bilancio pubblico (il 3% del deficit
: art. 126 TFUE e relativo protocollo; sino addirittura al pareggio di bilancio
con il c.d. Fiscal
Compact) che la parte più avveduta della dottrina economica
giudica insensati e deleteri;
vincoli che erodono il risparmio privato (secondo la nota relazione di contabilità nazionale
Rp = deficit + saldo bilancia pagamenti), ostacolano gli investimenti che da questo dipendono ed impediscono le politiche sociali che la
Costituzione impone alle istituzioni dello stato al fine di realizzare
l'eguaglianza sostanziale tra i cittadini
(art.3 co. 2° Cost.) e
di garantire la piena occupazione
(art. 1, 4 e 36 Cost.). Politiche che necessitano di spesa a deficit.
Le funzioni sovrane
dello stato afferenti alla politica economica, monetaria, fiscale e di bilancio sono
state definitivamente cedute a tali apparati, la cui struttura e la cui azione
in quei settori si pongono in palese ed insanabile contrasto con il
principio democratico di cui all’art. 1 Cost.
Di conseguenza (come ho dettagliatamente spiegato qui:
https://www.facebook.com/mario.giambelli.125/posts/213766299364208
e qui: https://www.facebook.com/notes/mario-giambelli/incivile-est-nisi-tota-lege-perspecta-una-aliqua-particula-eius-proposita-iudica/230267947714043/
):
- il
popolo italiano non può più scegliere l’indirizzo fiscale, economico e
monetario che gli organi elettivi dovrebbero
perseguire;
- questi indirizzi
fondamentali sono predeterminati senza alcuna partecipazione del popolo
sovrano, qualunque sia l’esito delle
consultazioni elettorali;
- svuotata da tali contenuti, rimane poco o nulla della sovranità
popolare.
In conclusione, la sovranità non appartiene più al popolo. L’intuizione di Lelio Basso (“… significa spogliare il popolo
dell’esercizio della sovranità in materie di estrema importanza…”), seppur riferita al trattato di Roma, era corretta
e maledettamente profetica.
Ma vi è di più. Le cessioni di sovranità economica,
monetaria e fiscale hanno prodotto alterazioni dei lineamenti fondamentali del nostro
stato anche come stato sociale.
I “valori” supremi
dei trattati UE sono quelli del liberismo economico:
- la
stabilità dei prezzi (art. 3, comma 3°, TUE; art.li 119
co.2°, 120, 127 TFUE);
- l’istituzionalizzazione
del mercato (art. 3, comma 3°, TUE) quale spazio
aperto senza frontiere (art. 26 co.2° TFUE), per lo sviluppo di un’economia di
mercato fortemente competitiva (art. 3, comma 3° TUE);
- la
libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi
e dei capitali (art. 26 co.2° TFUE);
- la
concorrenza (art.li 101 ss. TFUE), con il suo
corredo delle liberalizzazioni - mortali per il lavoro autonomo - e del divieto di aiuti di stato, definiti “incompatibili con il mercato interno” dall’art. 107 TFUE;
- la
demolizione del welfare;
- il
lavoro come merce (art. 151 TFUE);
- le “riforme”,
ovvero la
precarizzazione del lavoro e l’elevato tasso di disoccupazione (entrambi funzionali al principale obiettivo della
stabilità dei prezzi);
- il
divieto di ingerenza dello stato nell’economia e le
clausole antisolidarietà (art.li 107, 119,
120, 121, 123-125 TFUE);
- l’indipendenza
della banca centrale dal governo
(art.li 127-133 TFUE);
- i
vincoli di bilancio pubblico
(3% del deficit: art. 126 TFUE e relativo protocollo; pareggio di
bilancio: Fiscal
Compact + art. 81 Cost.).
Fideisticamente perseguiti dai predetti apparati di comando,
si
collocano agli antipodi di quella
“democrazia
sociale” che è “il contenuto coessenziale a qualsiasi
regime democratico” (Mortati, Op.
cit., Tomo I, Decima edizione, Padova, 1991,
147) e che rappresenta l’ideologia
accolta dalla nostra Legge fondamentale.
In quanto valori supremi del liberismo economico, essi implicano l’attuazione di una politica
economica esattamente contrapposta agli obiettivi della piena occupazione (art. 1 e 4 Cost.) e dell’uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2° Cost. ed art.li da 35 a 47 Cost.,
che ne costituiscono la specificazione) che informano invece il nostro
ordinamento costituzionale.
La cessione a quegli apparati di comando delle
funzioni sovrane in materia di politica economica, monetaria, fiscale e di
bilancio perfezionatasi con la ratifica dei Trattati UE, ha di fatto comportato la
disattivazione dei primi quattro articoli e di tutta la parte “economica” della
Costituzione. Cioè la disattivazione dei principi caratterizzanti il tipo di stato voluto
dal popolo italiano. Non siamo solo di
fronte ad una macroscopica alterazione dei lineamenti fondamentali del nostro
stato. Si
è resa inoperativa la nostra Costituzione ben oltre i limiti di una revisione
costituzionale, peraltro non ammessa in materia. Con
la progressiva cessione di specifiche funzioni sovrane, un nuovo assetto di potere si è
consolidato di fatto ed extraordinem.
A fronte di tutto ciò, l’affermazione della Corte
Costituzionale secondo la quale sarebbe stato <<
difficile configurare
anche in astratto l’ipotesi che un regolamento comunitario >> potesse << incidere in materia di rapporti civili,
etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione
italiana >> fa sorridere amaramente.
Proprio lì, nell’incapacità
(o, forse, nella mancanza di volontà) della Corte di prevedere le conseguenze devastanti di una sentenza
“politicamente
corretta”, ma decisamente miope sul piano giuridico ed
economico, affondano le radici del nostro attuale malessere.
Ben altra storia
avrebbe scritto la Corte (per il presente e
per il futuro) se
avesse saputo (o voluto) guardare al di là degli obiettivi
simulati o “cosmetici”
del trattato di Roma, riconoscendone
invece l’impostazione ideologica liberista di stampo neo-classico
esplicitamente respinta dalla nostra Costituzione e
resa chiaramente percepibile dagli enunciati del medesimo trattato.
Se avesse ascoltato le parole profetiche di Lelio
Basso, la Corte Costituzionale non avrebbe permesso di restaurare un sistema di potere che mirava, sin
da allora, a “piegare ogni uomo alle esigenze del
profitto”, a “spogliare il popolo dell’esercizio della
sovranità in materia di estrema importanza” e a “sovvertire l’ordinamento costituzionale italiano”.
La decisione della Corte Costituzionale ha invece
aperto la via alla restaurazione. Si è così verificata la situazione che Piero Calamandrei, il 4 marzo 1947,
aveva
ipotizzato in Assemblea Costituente:
l’abolizione, anche
di fatto, dei principi fondamentali della Costituzione [“posizioni eterne dello spirito” (Meuccio Ruini) nelle quali trova sostanza la forma
repubblicana della nostra nazione, caratterizzandosi in esse] comporta non tanto la modifica, ma la completa distruzione della nostra
Legge Fondamentale, con un ritorno “allo stato meramente politico” in cui le forze politiche sono in libertà “senza avere più nessuna costrizione di
carattere legalitario, e in cui quindi i cittadini, anche se ridotti
ad una esigua minoranza di ribelli alle deliberazioni quasi unanime della
Assemblea nazionale, potrebbero valersi di quel diritto di resistenza
che l’art. 30 del progetto riconosce come arma estrema contro le infrazioni
alla Costituzione”. http://www.nascitacostituzione.it/03p2/06t6/s2/139/index.htm
)
Uscire
dai trattati europei non rappresenta
dunque una delle diverse scelte politiche possibili, ma un preciso dovere giuridico. Dobbiamo riprendere ciò che la barbarie liberista, rivitalizzata
nella UE, ci ha sottratto: la possibilità di
decidere il nostro futuro, cioè la sovranità popolare, in tutte le sue sfaccettature.
Dobbiamo riprendere
il percorso tracciato dalla nostra Costituzione, sciaguratamente interrotto per “entrare in Europa”.
E’ il percorso del progresso sociale e democratico. E’
il compito a cui siamo chiamati.
Recedere
dai trattati UE:
ce lo impone la nostra Costituzione,
per
il rispetto dei suoi principi fondamentali. Per
affermare i quali migliaia di Italiani, milioni di persone hanno combattuto,
sacrificando gli anni migliori della loro vita. Lo hanno fatto per affermare
quelle istanze sociali di eguaglianza, di libertà e giustizia soffocate dalle
dittature e, prima ancora, dall’oligarchia liberale e liberista che ne favorì
l’ascesa e che dalle stesse venne poi favorita. E che oggi è tornata ad
imporsi, rigenerata nella UE.
Lo hanno fatto per cambiare la storia della
democrazia. Per consentire alle migliori intelligenze del nostro Paese di
scrivere quel meraviglioso progetto di democrazia ideale che è la Costituzione
della Repubblica Italiana. Ce lo ha spiegato, ancora una volta, Piero Calamandrei in
un memorabile discorso agli studenti milanesi del 26 gennaio 1955. Un discorso, un insegnamento magistrale che andrebbe
riproposto ogni anno nelle scuole: https://www.youtube.com/watch?v=2j9i_0yvt4w
Amare la nostra
Costituzione significa amare la libertà,
il progresso sociale, la
democrazia.
Farla rivivere è un
dovere. Per rispettare il passato e per sperare in un futuro.
Mario Giambelli Gallotti

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