lunedì 25 giugno 2018

Le Radici del (Nostro) Malessere

La sola strada da battere per uscire dalla crisi contemporanea è IL RIFIUTO DI PIEGARE OGNI UOMO ALLE ESIGENZE DEL PROFITTO, che è il motore di questa società, e lo sforzo di adeguare tutte le strutture sociali alle esigenze dell’uomo, di CREARE UNA SOCIETÀ A MISURA UMANA, UNA SOCIETÀ IN CUI GLI UOMINI POSSANO RITROVARE IL SENSO DELLA VITA, la coscienza della propria responsabilità, il gusto dei rapporti comunitari…” [L. BASSO, Le radici del malessere, Il Giorno, 13 giugno 1974].

Come ricorda il sito (www.leliobasso.it) dedicato agli scritti, alle analisi ed alle riflessioni di questo straordinario protagonista del Novecento, Lelio Bassofu un socialista rispettoso della grande tradizione del movimento operaio ma indipendente dall’ortodossia. Fu un intellettuale formatosi a contatto con le migliori menti dell’Italia prefascista (da Mondolfo a Gobetti) ma capace fino all’ultimo di confrontarsi con le nuove tendenze della ricerca e delle scienze sociali. Fu un uomo senza fede, ma di rigoroso senso etico e attento, come pochi altri con le sue idee, alle istanze e agli interrogativi della religione. Fu un democratico rispettoso delle istituzioni – che aveva contribuito in modo decisivo a pensare e a costruire - ma anche sottile critico dei limiti della democrazia novecentesca impegnato nella ricerca di alternative che ne superassero i vincoli e la estendessero a tutto il pianeta”.

Ma Lelio Basso è soprattutto una delle pochissime figure della politica italiana del Novecento che continua a dire, attraverso i suoi scritti, ancora oggi incredibilmente attuali, qualcosa di originale e di importante a chi vive in questo secolo.

Un secolo che sembra avere dato una risposta negativa al fondamentale interrogativo del Novecento: quello sulla possibilità di una democrazia pienamente attuata, che realizzi l’eguaglianza sostanziale e la pari dignità sociale degli esseri umani, rendendoli pienamente liberi e partecipi della vita politica, economica e sociale del Paese.

La lungimiranza di questo grande intellettuale è testimoniata, in particolare, da un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 27 maggio 1973 che costituisce, in assoluto, la prima segnalazione della congenita e strutturale incostituzionalità dei trattati europei.

La lucidità dell’analisi, tenuto conto che che viene effettuata a 16 anni dalla firma del trattato di Roma (l’embrione della futura Unione europea, che proclamava le quattro libertà "fondamentali" del liberismo economico: la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali; i quattro principi sacri, da sempre, del liberismo, che trovarono immediato compendio nel programma posto a base della UE), è sorprendente. Ne riporto i passaggi principali:

…Com’è noto, il Trattato di Roma del 25 marzo 1957 che ha istituito la CEE dispone all’art. 189 che il Consiglio … e la Commissione … “stabiliscono regolamenti e direttive, prendono decisioni e formulano raccomandazioni o pareri. Il regolamento (...) è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi... La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati. Le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti”.

Emerge chiaramente da questo testo che quest’articolo attribuisce un’efficacia normativa obbligatoria ai regolamenti, che devono essere immediatamente applicati dai singoli Stati, e alle decisioni, sottraendole completamente alla “competenza degli organi nazionali”, che è prevista solo in merito alle forme e ai mezzi di attuazione delle direttive. In altre parole Consiglio e commissione, in base a quest’articolo, possono dettare norme giuridiche obbligatorie per i cittadini di ciascuno Stato, e quindi anche dell’Italia, senza che gli organi legislativi del paese siano neppure consultati. Come si vede, quest’articolo sottrae al Parlamento quella che è una delle sue più gelose funzioni, la funzione legislativa, in una sfera immensa di attività che comprende praticamente tutta l’attività economica … ivi compreso… il campo fiscale. Non vi è pertanto dubbio che siamo qui in presenza di UNA RADICALE MODIFICAZIONE DELLA NOSTRA COSTITUZIONE, che riserva espressamente ed esclusivamente ad un organo eletto dal popolo, il Parlamento, la potestà di fare leggi, cioè di dettare norme obbligatorie per tutti.

L’inconciliabilità di questa norma con la costituzione fu avvertita dall’opposizione fin dal momento della firma del Trattato, tanto che, in sede di ratifica parlamentare, sollevammo l’eccezione che un Trattato di questa natura… SOVVERTIVA IL NOSTRO ORDINAMENTO COSTITUZIONALE… La maggioranza fu di avviso contrario, e l’argomento principale fu che la nostra costituzione stessa prevede all’articolo 11 che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”.

Ma si può ritenere che questa norma generale autorizzi una disposizione come quella ricordata dell’articolo 189? … a mio parere, non solo i princìpi del nostro ordinamento ma il più semplice buon senso devono indurci a dire di no per una serie di ragioni:

a) innanzi tutto le limitazioni di sovranità sono consentite solo ai fini di assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni, e sì riferiscono quindi a organismi tipo ONU, tribunali internazionali e simili, ma non ad un organismo, la Comunità, il cui fine precisato dall’art. 2 del Trattato, è quello “DI PROMUOVERE UNO SVILUPPO ARMONIOSO DELLE ATTIVITÀ ECONOMICHE”;

b) in secondo luogo altro è una “limitazione” di sovranità (come può essere la rinuncia alla guerra, la limitazione del diritto di armarsi e anche l’accettazione di controlli reciproci al riguardo, e simili) e altro è invece il trasferimento della propria sovranità ad organi esterni, come il consiglio o la commissione, la quale ultima, come previsto dall’art. 157, avrebbe potuto non comprendere neppure un italiano;

c) in terzo luogo va osservato che la parola “sovranità” ha un duplice significato: uno riguarda la personalità internazionale dello Stato e significa il diritto di ciascuno Stato alla piena indipendenza nei confronti di ciascun altro; il secondo riguarda invece il modo come ciascuno Stato esercita nel proprio interno il potere sovrano

Ora pare a me che la “limitazione” di cui parla l’art. 11 si riferisce ai rapporti fra Stati, ma non può intaccare il principio fondamentale della nostra costituzione, secondo cui (art. 1) l’Italia è una repubblica democratica ela sovranità appartiene al popolo che la esercita. Attribuire poteri legislativi, senza il concorso e anche contro la volontà del Parlamento italiano, a un consiglio composto da un rappresentante di ciascun governo, o addirittura a una commissione nominata collegialmente dai governi membri, SIGNIFICA SPOGLIARE IL POPOLO DELL’ESERCIZIO DELLA SOVRANITÀ in materia di estrema importanza e, quindi, sovvertire l’ordinamento costituzionale italiano.

Dell’esistenza di questo grave problema l’opposizione è stata cosciente: chi scrive… ha personalmente sostenuto una lunga battaglia in seno alla commissione degli esteri della Camera fino al 1969, ma governo e maggioranza si sono sempre mostrati sordi.

Ora attendiamo la decisione della Corte, ma se anch’essa si pronunciasse in senso contrario a quanto qui sostenuto, il problema sarebbe risolto solo sul piano formale. Si tratta infatti di vedere se un popolo, che vuol essere democratico, può essere governato da norme che invadono campi sempre più vasti, e che sfuggono a qualsiasi decisione preventiva o controllo successivo di organi elettivi, cioè al controllo della rappresentanza dei cittadini interessati” [L. BASSO, È incostituzionale l’adesione al MEC ?, Corriere della Sera, 27 maggio 1973].

Domanda retorica, essendo evidente che un popolo “governato da norme che ... sfuggono a qualsiasi decisione preventiva o controllo successivo di organi elettivi, cioè al controllo della rappresentanza dei cittadini interessatinon vive in regime di democrazia. L’importantissima critica di Basso all’idea che l’art. 11 Cost. autorizzi la sottrazione della funzione legislativa al Parlamento in ogni aspetto dell’attività economica, “ivi compreso il campo fiscale”, a favore di organi esterni al nostro ordinamento costituzionale privi di legittimazione democratica era dunque centrata, molto ben argomentata e pienamente fondata.

A Lelio Basso - eccellente avvocato in grado di “leggere” una sentenza ancor prima che fosse scritta (in base a determinati fattori extragiuridici) - dovevano tuttavia fischiare le orecchie: la questione della legittimità costituzionale dell’art. 189 del trattato di Roma era infatti sub iudice (“Ora attendiamo la decisione della Corte...”) e pochi mesi dopo la pubblicazione dell’articolo in commento la Corte Costituzionale avrebbe emesso la decisione attesa (e temuta: “ma se anch’essa si pronunciasse in senso contrario a quanto qui sostenuto, il problema sarebbe risolto solo sul piano formale”) dal nostro Autore.

E’ la sentenza n.183 del 27 dicembre 1973, con la quale la Corte Costituzionale affermava la prevalenza del diritto C.E.E. su quello nazionale, anche a livello di Legge Fondamentale (entro determinati limiti). Secondo la Corte, << la legge 14 ottobre 1957, n.1203, con cui il Parlamento italiano ha dato piena ed intera esecuzione al Trattato istitutivo della C.E.E. >> trovava infatti << sicuro fondamento di legittimità nella disposizione dell’art. 11 della Costituzione >>, disposizione che, essendo collocata tra i principi fondamentali della Costituzione, segnerebbe << un chiaro e preciso indirizzo politico: il costituente si riferiva, nel porla, all’adesione dell’Italia alla Organizzazione delle Nazioni Unite, ma si ispirava a principi programmatici di valore generale, di cui la Comunità economica e le altre Organizzazioni regionali europee costituiscono concreta attuazione >>. La Corte richiamava << le solenni enunciative contenute nel preambolo del Trattato, e le norme concernenti i principi (art. 1 e seguenti), i fondamenti (artt. 9 e seguenti), e la politica della Comunità (artt. 85 e seguenti)>> per sostenere che l’istituzione della C.E.E. fosse stata << determinata dalla comune volontà degli Stati membri di “porre le fondamenta di una unione sempre più stretta tra i popoli europei”, diretta “ad assicurare mediante un’azione comune il progresso economico e sociale dei loro paesi, eliminando le barriere che dividono l’Europa”, e ciò nel preciso intento di “rafforzare le difese della pace e della libertà, facendo appello agli altri popoli d’Europa, animati dallo stesso ideale, perché si associno al loro sforzo”, nonché di “confermare la solidarietà che lega l’Europa ai paesi d’oltremare, desiderando assicurare lo sviluppo della loro prosperità conformemente ai principi dello Statuto delle Nazioni Unite”>>.

Tutto questo, a detta della Corte, rendeva indubitabile la << piena rispondenza del Trattato di Roma alle finalità indicate dall’art. 11 della Costituzione >> e giustificava il << parziale trasferimento agli organi comunitari dell’esercizio della funzione legislativa, in base ad un preciso criterio di ripartizione di competenze per le materie analiticamente indicate nelle parti seconda e terza del Trattato, in correlazione necessaria con le finalità di interesse generale stabilite dal Trattato stesso per la politica economica e sociale della Comunità>>. Avrebbe, in altre parole, giustificato il fatto che un popolo fosse privato dell’esercizio della sua sovranità nelle materie “analiticamente indicate nelle parti seconda e terza del Trattatoe costretto lo stesso popolo ad accettare (senza nemmeno essere consultato) diessere governato da normeche, come giustamente aveva rimarcato Lelio Basso, “sfuggono a qualsiasi decisione preventiva o controllo successivo di organi elettivi”. Il tutto condito con un’affermazione finale che la dice lunga sulla strabiliante “cecità” della Corte in tema di ricadute economiche, etiche e sociali delle scelte giuridiche: secondo la Corte, in fatti, siccome << la competenza normativa degli organi della C.E.E. >> era << prevista dall’art. 189 del Trattato di Roma limitatamente a materie concernenti i rapporti economici >>, sarebbe stato << difficile configurare anche in astratto l’ipotesi che un regolamento comunitario >> potesse << incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione italiana >>. 

Un trattato che prevedeva la creazione di un “mercato comune” basato sulla libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e (soprattutto) dei capitali, cioè un trattato di libero scambio, non avrebbe dunque potuto incidere, nella (miope) visione della Corte, sui << rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione italiana >>. Idea del tutto inattendibile (le ricadute economiche di determinate scelte giuridiche - come la scelta di aderire ad un trattato avente finalità prettamente economiche - incidono pesantemente sui “rapporti civili, etico-sociali, politici”, anche “con disposizioni contrastanti con la nostra Costituzione”, e lo abbiamo tragicamente visto negli ultimi trent’anni) e contraria ai medesimi enunciati del trattato [sul questo punto si legga la perfetta disamina del Dott. Luciano Barra Caracciolo ai punti 4 e 5 del seguente articolo: http://orizzonte48.blogspot.com/2016/08/lincomprensione-delluropa-alla-corte.html nel quale si pone in evidenza come i trattati europei, sin dagli anni ’50, propugnassero “l’idea del liberismo neo-classico, superata, anzi respinta, esplicitamente dalla nostra Costituzione” e basata sul postulato, esplicitato in modo ossessivo nei medesimi trattati (e, quindi, immediatamente percepibile dalla Corte Costituzionale), “che l’attività economica si esplichi in condizione di libera concorrenza” quale “ipotesi macroeconomica fondata sulla prevalenza del sistema dei prezzi, affidati alle dinamiche dell’economia privata non ostacolata dall’intervento dello Stato nel raggiungere l’efficienza allocativa”. 

Efficienza che subordina dichiaratamente “crescita e sviluppo” alla duplice condizione della stabilità dei prezzi e della “preferenza per la flessibilità verso il basso dei prezzi relativi ai costi d’impresa (in primis i salari)” e che, così concepita, viene automaticamente estesa ad equilibrio generale. Con conseguente “ribaltamento dell’impostazione socio-economica accolta in Costituzione”; ribaltamento immediatamente percepibile dalla Corte, la quale “già disponeva di questo quadro di interpretazione autentica e vincolante dei trattati” che le avrebbe consentito di approdare a ben differente decisione].

La motivazione della sentenza (mutuando le parole di Arturo Carlo Iemolo a commento della sentenza 19 giugno 1936 delle Sezioni Unite della S.C.) era peròla migliore via per giungere alla conclusione a cui (ndr.: la Corte Costituzionale) credeva di dover pervenireper risolvere la questione in modopoliticamente corretto” (sull’onda di un europeismo tanto dilagante, quanto strumentale alla restaurazione di un sistema di potere che i Padri costituenti ritenevano ampiamente superato e non più proponibile). L’obiettivo (politico) era legittimare il fatto che “la potestà di fare leggi, cioè di dettare norme obbligatorie per tutti” potesse appartenere ad organi esterni non eletti dal popolo. La motivazione della sentenza non era dunque altro che “la migliore via” (e nulla importava che si risolvesse in un’inaccettabile forzatura interpretativa), il percorso interpretativo idoneo per raggiungere l’obiettivo prestabilito.

Contrariamente a quanto asserito dalla Corte Costituzionale, lo scopo (“la pace e la giustizia tra le nazioni”), che consente, assieme alla reciprocità ed all’eguaglianza (“in condizioni di parità con gli altri Stati”) le limitazioni di sovranità previste dall’art. 11 Cost. era ed è un vincolo rigido ed imprescindibile (si veda, in proposito, oltre all’intervento dell’on. Ruini qui sotto citato, la relazione al progetto di Costituzione del medesimo presidente della Commissione per la Costituzione, laddove si afferma chiaramente che l’Italia, “Stato indipendente e libero, non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli”). Tali limitazioni sono cioè consentite, ex art. 11 Cost., solo ed esclusivamente a favore di organizzazioni finalizzate a promuovere la pace e la giustizia tra i popoli. Unioni economiche (come la C.E.E. o, attualmente, L’Unione europea) o, a maggior ragione, monetarie, le cui regole - al di là delle affermazioni “cosmetiche” sulla pace ed il benessere dei popoli, o sulla piena occupazione (vista non come obiettivo da perseguire attivamente, ma come un effetto “naturale” della concorrenza e della stabilità dei prezzi) - prevedono l’instaurazione di un libero mercato fortemente competitivo e, quindi, di una feroce concorrenza mercantilista tra gli Stati membri che esclude qualsiasi forma di solidarietà, prefiggendosi come principale (se non unico) obiettivo la “stabilità dei prezzi(basata, come sappiamo, su uno strutturale ed elevato tasso di disoccupazione “non inflazionistico”), non hanno ovviamente nulla a che vedere con le organizzazioni considerate dai Padri costituenti nella discussione che condusse all’approvazione dell’art. 11 Cost. Tant’è vero che l’ipotesi di inserire un riferimento all’unità dell’Europanel medesimo articolo fu considerata, discussa e scartata dall’Assemblea costituente, sia in sede di elaborazione del progetto, sia in occasione della discussione finale (si veda http://www.nascitacostituzione.it/01principi/011/index.htm ed, in particolare, l’emendamento Lussu proposto e non approvato il 24 gennaio 1947 e l’emendamento Bastianetto, discusso il 24 marzo 1947 e ritirato in seguito all’intervento dell’on. Ruini sopra richiamato).

Coerentemente, l’art. 11 Cost. non prevede "cessioni" (cioè trasferimenti permanenti di specifiche funzioni sovrane dello Stato ad istituzioni sovranazionali), bensì "limitazioni" (ovvero trasferimenti temporanei e, come abbiamo visto, per scopi non economici di specifiche funzioni sovrane dello Stato ad istituzioni sovranazionali; funzioni immediatamente riassumibili dal soggetto titolare allorchè vengano a mancare le condizioni che giustifichino le limitazioni stesse) di sovranità, purché ciò avvenga a condizioni di parità con gli altri stati. Circostanza quest'ultima esclusa già nel trattato di Roma dall’art. 157 (il quale, come sottolineava Lelio Basso, prevedeva la possibilità che la Commissione non comprendesse neanche un membro italiano) e, a maggior ragione, nell’attuale Unione europea e nell’eurozona dalla predominanza tedesca e (in minima parte) francese, nonché da criteri di convergenza dell’inflazione e del debito pubblico (il cui costo, per l’Italia, era più del triplo di quello francese e tedesco e, quindi, tutt’altro che paritario già all’inizio degli anni ’90), e di riduzione del deficit irragionevoli sul piano scientifico, la cui applicazione asimmetrica (cioè più o meno “rigida” od “elastica” a seconda degli Stati) ha provocato squilibri (vantaggi e svantaggi) e divergenti modalità di attuazione della moneta unica tra i vari Stati, nonché un consistente peggioramento delle relazioni tra gli stessi, ormai improntate ad un rapporto di subordinazione gerarchica rispetto alla Germania, nazione egemone che detta ed impone regole valevoli per tutti (salvo eccezioni basate su meri rapporti di forza), tranne che per se stessa.

Se tutto ciò valeva, così come effettivamente valeva, per il trattato di Roma, a maggior ragione vale per il sistema dei trattati UE, i cui apparati di comando (Consiglio, Commissione Europea, Eurogruppo e BCE) - che costituiscono il braccio e rispondono agli interessi dei principali gruppi finanziari e delle multinazionali economiche - sono notoriamente privi di legittimazione democratica ed operano, come ci ha candidamente spiegato Mario Monti (Intervista sull'Italia in Europa, 40 e ss.), "al riparo dal processo elettorale" (notare l’ “eleganza” con la quale si enunciano certi concetti di matrice ideologica reazionaria), sfuggendo pertanto al controllo popolare.

L’art. 11 della Costituzione, così come aveva rilevato Lelio Basso nell’articolo in precedenza citato, non può dunque giustificare l’ingresso dei trattati europei nel nostro ordinamento.

Consapevole della forzatura e prendendo le mosse dal capzioso postulato della << progressiva messa in crisi delle tradizionali funzioni sovrane degli Stati nel campo della direzione e del controllo dei processi economici >> una certa parte della dottrina ha perciò sostenuto l’esigenza di << assumere a punto di riferimento quel fenomeno sociale omogeneo costituito dall’insieme dei processi di verticalizzazione ed internazionalizzazione delle funzioni politiche >> e ne ha dedotto << una posizione di supremazia della Comunità internazionale >>. Posizione che rappresenterebbe il << presupposto per l’attribuzione alla Comunità degli Stati di una vera e propria funzione normativa nel disciplinare, per conto di questi ultimi, specifiche questioni d’interesse generale >>, con conseguente << riconoscimento di fonte di diritto alle disposizioni del Trattato sull’Unione monetaria >> (ora dei Trattati UE). Tale interpretazione, secondo questa dottrina, potrebbe << ritenersi in linea con le indicazioni rivenienti dal disposto dell’art. 10 comma 1 Cost. >>, in base al quale “l’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.

Ciò - si badi bene - ove a tale norma si dia << una lettura che ne apra i contenuti in vista della valorizzazione dell’ordinamento internazionale >> e che << non sia circoscritta all’individuazione esclusiva di disposizioni a carattere consuetudinario, bensì estesa a ricomprendere anche le altre regole che possono considerarsi espressione del potere organizzativo della Comunità internazionale, ovviamente prescindendosi dalla natura convenzionale che le medesime presentano >> (F. Capriglione, Moneta, Enc. Diritto, Aggiornamento III, Giuffrè, Milano, 1999, 760).

Prescindendosi”, “ovviamente” (!) E qui casca l’asino, perché da tale natura non è assolutamente possibile prescindere. È infatti nozione pacifica in dottrina e nella giurisprudenza della Corte Costituzionale che il meccanismo di adattamento automatico previsto dall'articolo 10 Cost. vale limitatamente alle fonti consuetudinarie, cioè a quelle norme di validità generale riconosciute come tali dalla comunità internazionale, rimanendone invece escluso tutto il diritto internazionale pattizio, ovvero quello che sorge da trattati validi solo per gli stati che li hanno stipulati.

La questione fu oggetto di approfondita discussione in Assemblea Costituente, ove venne proposto un emendamento inteso a sopprimere le parole “generalmente riconosciute” dal testo dell’articolo, poiché ritenute inutili. La commissione dei 75 tuttavia precisò che si trattava di un’espressione tecnica per indicare il diritto internazionale generale, lasciando ad altri procedimenti l’adattamento del diritto italiano a quello internazionale pattizio. L’emendamento non fu approvato e nella seduta del 24 marzo 1947 l’Assemblea approvò l’attuale testo dell’articolo 10.

D’altra parte l’interpretazione estensiva di una norma inserita tra i principi fondamentali della Costituzione deve ritenersi inammissibile: si risolverebbe infatti in una forma di revisione tacita del principio in essa affermato, pacificamente sottratto al procedimento di revisione in quantofondamentale” e, perciò, insuscettibile di modifica (secondo l’insegnamento costante della Corte Costituzionale).

In realtà il diritto dei trattati europei entra nel nostro ordinamento attraverso l’art. 10 Cost., ma come fonte secondaria. Tra le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute opera infatti la consuetudine che impone agli stati di osservare gli accordi liberamente stipulati (pacta sunt servanda). Da questa fonte primaria deriva l’obbligo delle istituzioni di far rispettare i trattati nell’ambito statale (e, dunque, di ratificarli), ma solo entro determinati limiti. Arriviamo così al nocciolo del problema.

Secondo la giurisprudenza costante della Corte Costituzionale, i principi fondamentali della Costituzione e i diritti inalienabili della persona (cioè tutte le norme che caratterizzano la nostra Repubblica come uno Stato di diritto, basato su una democrazia del lavoro) costituiscono un limite all’ingresso [...] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione (sentenze n.48 del 1979 e n. 73 del 2001)ed operano quali controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n.183 del 1973, n. 170 del 1984, n.232 del 1989, n.168 del 1991, n.284 del 2007) [...] Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, perciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (art. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n.1146 del 1988)” (così la sentenza della Corte Cost. n.238 del 22 ottobre 2014, paragr. 3.2 -3.4).

Le restrizioni di sovranità (cessioni o limitazioni) imposte dai trattati UE non dovrebbero cioè “indurre alterazioni dei lineamenti del nostro Stato come Stato di diritto, democratico e sociale” (Mortati, Istituzioni diritto pubblico, Tomo II, Nona edizione, Padova, 1976, 1501 e ss.). Ne consegue che il trasferimento delle relative competenze ad organi comunitari potrebbe ritenersi ammissibile solo ove questi ultimi fossero informati ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale e risultassero soddisfatte le esigenze caratterizzanti il tipo di aggregazione sociale (democrazia sociale, del lavoro) voluta dai padri costituenti.
Su questo punto la Corte dovrebbe tornare a riflettere, concentrando l’attenzione sui primi quattro articoli della Costituzione e, in particolare, sul principio democratico, su quello di eguaglianza e su quello lavorista.

La forma democratica, com’è noto, è stabilita dall’art. 1 Cost.

La dichiarazione di appartenenza della sovranità al popolo implica la permanenza dell’esercizio di questa nel popolo come contrassegno essenziale ed ineliminabile del regime democratico e significa che l’esercizio dei poteri più elevati, cioè quelli che condizionano la direzione e lo svolgimento degli altri, è attribuito al popolo in modo ineliminabile, sicché questo non possa esserne spogliato nemmeno attraverso procedimenti di revisione costituzionale. Il diritto del popolo di partecipare alle supreme decisioni politiche rientra cioè fra i diritti inalienabili di cui al successivo art.2, restando così sottratto al potere di revisione (Mortati, Op. cit., Tomo I, Decima edizione, Padova, 1991, 153 ss.).

Orbene, nessuno può seriamente dubitare che il potere di assumere tutte le decisioni riguardanti la politica economica, monetaria, fiscale, di bilancio rientri fra quelli più elevati e condizionanti che l’art. 1 Cost. attribuisce al popolo in modo permanente ed ineliminabile.

Eppure i trattati UE hanno trasferito tale potere (art. 2, commi 1° e 3°, TFUE; art. 3, comma 1°, lett. c, TFUE; art. 4, comma 3°, ultimo periodo, TUE; art.li da 119 a 133 TFUE; Fiscal Compact, e altri atti come il Two Pack ed il Six Pack) ad apparati di comando (Consiglio, Commissione Europea, Eurogruppo e BCE) notoriamente privi di legittimazione democratica e politicamente irresponsabili.

Hanno quindi istituito un’unione monetaria, adottando una moneta non nazionale, l’euro (art. 3 co. 4 TUE), emessa e controllata (ex art. 127 e ss. TFUE) da un organismo sovranazionale estraneo alla Costituzione, totalmente indipendentedagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri” e “da qualsiasi altro organismo” (art. 130 TFUE).

Hanno poi sottoposto gli Stati a vincoli di bilancio pubblico (il 3% del deficit : art. 126 TFUE e relativo protocollo; sino addirittura al pareggio di bilancio con il c.d. Fiscal Compact) che la parte più avveduta della dottrina economica giudica insensati e deleteri; vincoli che erodono il risparmio privato (secondo la nota relazione di contabilità nazionale Rp = deficit + saldo bilancia pagamenti), ostacolano gli investimenti che da questo dipendono ed impediscono le politiche sociali che la Costituzione impone alle istituzioni dello stato al fine di realizzare l'eguaglianza sostanziale tra i cittadini (art.3 co. 2° Cost.) e di garantire la piena occupazione (art. 1, 4 e 36 Cost.). Politiche che necessitano di spesa a deficit.
Le funzioni sovrane dello stato afferenti alla politica economica, monetaria, fiscale e di bilancio sono state definitivamente cedute a tali apparati, la cui struttura e la cui azione in quei settori si pongono in palese ed insanabile contrasto con il principio democratico di cui all’art. 1 Cost.


- il popolo italiano non può più scegliere l’indirizzo fiscale, economico e monetario che gli organi elettivi dovrebbero perseguire;

- questi indirizzi fondamentali sono predeterminati senza alcuna partecipazione del popolo sovrano, qualunque sia l’esito delle consultazioni elettorali;

- svuotata da tali contenuti, rimane poco o nulla della sovranità popolare.

In conclusione, la sovranità non appartiene più al popolo. L’intuizione di Lelio Basso (“ significa spogliare il popolo dell’esercizio della sovranità in materie di estrema importanza…”), seppur riferita al trattato di Roma, era corretta e maledettamente profetica.

Ma vi è di più. Le cessioni di sovranità economica, monetaria e fiscale hanno prodotto alterazioni dei lineamenti fondamentali del nostro stato anche come stato sociale.

Ivalorisupremi dei trattati UE sono quelli del liberismo economico:
- la stabilità dei prezzi (art. 3, comma 3°, TUE; art.li 119 co.2°, 120, 127 TFUE);
- l’istituzionalizzazione del mercato (art. 3, comma 3°, TUE) quale spazio aperto senza frontiere (art. 26 co.2° TFUE), per lo sviluppo di un’economia di mercato fortemente competitiva (art. 3, comma 3° TUE);
- la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali (art. 26 co.2° TFUE);
- la concorrenza (art.li 101 ss. TFUE), con il suo corredo delle liberalizzazioni - mortali per il lavoro autonomo - e del divieto di aiuti di stato, definiti “incompatibili con il mercato interno” dall’art. 107 TFUE;
- la demolizione del welfare;
- il lavoro come merce (art. 151 TFUE);
- le “riforme”, ovvero la precarizzazione del lavoro e l’elevato tasso di disoccupazione (entrambi funzionali al principale obiettivo della stabilità dei prezzi);
- il divieto di ingerenza dello stato nell’economia e le clausole antisolidarietà (art.li 107, 119, 120, 121, 123-125 TFUE);
- l’indipendenza della banca centrale dal governo (art.li 127-133 TFUE);
- i vincoli di bilancio pubblico (3% del deficit: art. 126 TFUE e relativo protocollo; pareggio di bilancio: Fiscal Compact + art. 81 Cost.).

Fideisticamente perseguiti dai predetti apparati di comando, si collocano agli antipodi di quellademocrazia sociale” che è “il contenuto coessenziale a qualsiasi regime democratico” (Mortati, Op. cit., Tomo I, Decima edizione, Padova, 1991, 147) e che rappresenta l’ideologia accolta dalla nostra Legge fondamentale. In quanto valori supremi del liberismo economico, essi implicano l’attuazione di una politica economica esattamente contrapposta agli obiettivi della piena occupazione (art. 1 e 4 Cost.) e dell’uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2° Cost. ed art.li da 35 a 47 Cost., che ne costituiscono la specificazione) che informano invece il nostro ordinamento costituzionale.

La cessione a quegli apparati di comando delle funzioni sovrane in materia di politica economica, monetaria, fiscale e di bilancio perfezionatasi con la ratifica dei Trattati UE, ha di fatto comportato la disattivazione dei primi quattro articoli e di tutta la parteeconomicadella Costituzione. Cioè la disattivazione dei principi caratterizzanti il tipo di stato voluto dal popolo italiano. Non siamo solo di fronte ad una macroscopica alterazione dei lineamenti fondamentali del nostro stato. Si è resa inoperativa la nostra Costituzione ben oltre i limiti di una revisione costituzionale, peraltro non ammessa in materia. Con la progressiva cessione di specifiche funzioni sovrane, un nuovo assetto di potere si è consolidato di fatto ed extraordinem.

A fronte di tutto ciò, l’affermazione della Corte Costituzionale secondo la quale sarebbe stato << difficile configurare anche in astratto l’ipotesi che un regolamento comunitario >> potesse << incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione italiana >> fa sorridere amaramente.

Proprio lì, nell’incapacità (o, forse, nella mancanza di volontà) della Corte di prevedere le conseguenze devastanti di una sentenzapoliticamente corretta”, ma decisamente miope sul piano giuridico ed economico, affondano le radici del nostro attuale malessere.

Ben altra storia avrebbe scritto la Corte (per il presente e per il futuro) se avesse saputo (o voluto) guardare al di là degli obiettivi simulati ocosmetici” del trattato di Roma, riconoscendone invece l’impostazione ideologica liberista di stampo neo-classico esplicitamente respinta dalla nostra Costituzione e resa chiaramente percepibile dagli enunciati del medesimo trattato.

Se avesse ascoltato le parole profetiche di Lelio Basso, la Corte Costituzionale non avrebbe permesso di restaurare un sistema di potere che mirava, sin da allora, a “piegare ogni uomo alle esigenze del profitto”, a “spogliare il popolo dell’esercizio della sovranità in materia di estrema importanza” e a “sovvertire l’ordinamento costituzionale italiano”.

La decisione della Corte Costituzionale ha invece aperto la via alla restaurazione. Si è così verificata la situazione che Piero Calamandrei, il 4 marzo 1947, aveva ipotizzato in Assemblea Costituente: l’abolizione, anche di fatto, dei principi fondamentali della Costituzione [“posizioni eterne dello spirito” (Meuccio Ruini) nelle quali trova sostanza la forma repubblicana della nostra nazione, caratterizzandosi in esse] comporta non tanto la modifica, ma la completa distruzione della nostra Legge Fondamentale, con un ritorno “allo stato meramente politico” in cui le forze politiche sono in libertà “senza avere più nessuna costrizione di carattere legalitario, e in cui quindi i cittadini, anche se ridotti ad una esigua minoranza di ribelli alle deliberazioni quasi unanime della Assemblea nazionale, potrebbero valersi di quel diritto di resistenza che l’art. 30 del progetto riconosce come arma estrema contro le infrazioni alla Costituzione”. http://www.nascitacostituzione.it/03p2/06t6/s2/139/index.htm )

Uscire dai trattati europei non rappresenta dunque una delle diverse scelte politiche possibili, ma un preciso dovere giuridico. Dobbiamo riprendere ciò che la barbarie liberista, rivitalizzata nella UE, ci ha sottratto: la possibilità di decidere il nostro futuro, cioè la sovranità popolare, in tutte le sue sfaccettature. Dobbiamo riprendere il percorso tracciato dalla nostra Costituzione, sciaguratamente interrotto per “entrare in Europa”. E’ il percorso del progresso sociale e democratico. E’ il compito a cui siamo chiamati.

Recedere dai trattati UE: ce lo impone la nostra Costituzione, per il rispetto dei suoi principi fondamentali. Per affermare i quali migliaia di Italiani, milioni di persone hanno combattuto, sacrificando gli anni migliori della loro vita. Lo hanno fatto per affermare quelle istanze sociali di eguaglianza, di libertà e giustizia soffocate dalle dittature e, prima ancora, dall’oligarchia liberale e liberista che ne favorì l’ascesa e che dalle stesse venne poi favorita. E che oggi è tornata ad imporsi, rigenerata nella UE.

Lo hanno fatto per cambiare la storia della democrazia. Per consentire alle migliori intelligenze del nostro Paese di scrivere quel meraviglioso progetto di democrazia ideale che è la Costituzione della Repubblica Italiana. Ce lo ha spiegato, ancora una volta, Piero Calamandrei in un memorabile discorso agli studenti milanesi del 26 gennaio 1955. Un discorso, un insegnamento magistrale che andrebbe riproposto ogni anno nelle scuole: https://www.youtube.com/watch?v=2j9i_0yvt4w

Amare la nostra Costituzione significa amare la libertà, il progresso sociale, la democrazia.

Farla rivivere è un dovere. Per rispettare il passato e per sperare in un futuro.

Mario Giambelli Gallotti

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