(PDF) discorso
(commentato) di Eugenio Cefis presidente della Montedison all'Accademia
Militare di Modena Modena, 23 febbraio 1972
Il
documento che pubblichiamo qui di seguito, il discorso che un imprenditore
italiano ha fatto nel febbraio scorso, è di grande interesse per almeno tre
ragioni. E cioè: per chi ha fatto il discorso, per cosa è stato detto, per chi
ascoltava.
Cominciamo
proprio da questi ultimi, gli spettatori, tutti quanti o allievi dell'Accademia
Militare di Modena, o insegnanti della medesima, o dirigenti della stessa.
Pubblico eccezionale, quindi. Un bel pezzo, un pezzo importante, di quella
macchina militare che anche in Italia sta prendendo velocità ben collegata
com'è con il potere economico e con quello politico.
Passiamo
poi alla figura dell'oratore, anche questa eccezionale: Eugenio Cefis, il
presidente della Montedison, uno degli uomini, cioè, oggi più potenti del
nostro paese.
E,
infine, cosa è stato detto. Cefis ha chiacchierato soprattutto delle
multinazionali, di quelle società cioè che operano in più stati, e che quindi
sono molto grandi. Il discorso del presidente della Montedison può essere
diviso tranquillamente in tre parti: nella prima spiega, o meglio magnifica, il
concetto di multinazionale, e si rammarica che ne esistano ancora così poche;
nella seconda parte, invece, esamina i rapporti fra queste e il potere
politico, e sono le pagine dove troviamo le affermazioni più inquietanti; nella
terza parte, infine, si congeda dai suoi ascoltatori lasciando loro qualche
cauto consiglio, però facilmente decifrabile dietro l'apparente ovvietà, ricco
di possibili conseguenze (o speranze) non proprio democratiche.
Tutta
la serata, per essere brevi, ha visto l'illustrazione ai futuri quadri militari
di come sarà, o Cefis spera che sia, il capitalismo dei prossimi anni, e di
cosa possono fare a questo punto (di concreto, di operativo) gli allievi di
un'accademia dove si ritiene ancora fondamentale saper andare a cavallo, ma
dove si insegnano già la tecnologia elettronica, e forse anche il linguaggio
dei calcolatori.
Il
consiglio di Cefis ai militari, fra le righe, è stato molto chiaro: cercatevi
un vostro specifico ruolo tecnocratico-dominante all'ombra delle grandi aziende
che noi faremo. Il lavoro non vi mancherà. Anche perché, vedete, i politici
funzionano sempre meno bene...
Documento
importante, quindi, che riportiamo nella sua versione integrale, accompagnandolo
con qualche nota per renderne più comprensibile la lettura.
Signori,
perché un ex allievo di questa
Accademia torna dopo più di trent'anni tra queste mura a parlarVi di un tema
così estraneo all'arte militare come le imprese multinazionali?
Perché un ex ufficiale che le vicende
della guerra e del dopoguerra hanno portato su strade molto lontane dalla vita
militare sente il bisogno di aprire un dialogo con i soldati di domani?
È molto semplice.
Io sono convinto che Voi sarete
chiamati nei prossimi anni a svolgere un ruolo importantissimo e vorrei esserVi
utile offrendo la mia esperienza come elemento di meditazione.
Io ho lasciato Modena(1) quando si pensava ancora che la
guerra potesse essere vinta dalle baionette; alle spalle avevamo ancora una agricoltura
di sussistenza, l'agricoltura della falce e un'industria chiusa negli schemi
ristretti dell'autarchia voluta dal fascismo.
La guerra ci ha buttato allo sbaraglio
contro chi ormai aveva capito che le battaglie si vincevano con i carri armati,
contro chi aveva alle spalle l'agricoltura del trattore e un'economia aperta
alle grandi dimensioni internazionali.
Trent'anni fa l'Ufficiale aveva ancora
una funzione di tipo ottocentesco, era soprattutto uno strumento della macchina
della guerra, impegnato a sacrificarsi fino in fondo per la difesa del
territorio della Patria.
Poi qualcosa è cambiato nel mondo; è
cambiato dal 1945, da quando le esplosioni atomiche hanno dimostrato che la
guerra poteva uccidere non soltanto degli esseri umani ma l'intera umanità.
Ma nello stesso tempo i cultori
dell'arte militare hanno scoperto da molteplici esperienze (e ne citiamo
soltanto tre: resistenza europea, Algeria e Vietnam), che anche gli ordigni
bellici più spaventosi non potevano prevalere senza l'appoggio della
popolazione: in un certo senso ci siamo trovati di fronte alla rivincita della
baionetta, quando dietro a quella esiste una forza morale, esiste il senso
della storia. Io penso che oggi all'Ufficiale si imponga una duplice
responsabilità.
Da un lato, Egli deve essere cittadino del
mondo(2), perché ha un compito di dimensione mondiale per la difesa
della pace; dall'altro deve comprendere sempre meglio i meccanismi politici e
soprattutto economici che più della potenza militare influenzano il nostro
futuro.
Gli stessi elementi che indicano la forza di
un Paese sono cambiati: non contano più tanto e solo le disponibilità di
risorse e di materie prime, quanto le capacità organizzative e la velocità di
aggiornamento al processo tecnologico.
E più che mai è importante il senso del
dovere; ma intendo quel senso del dovere che può nascere soltanto in un Paese
libero, con quella libertà che in Italia è garantita dalla Costituzione
repubblicana che Voi siete impegnati a difendere.
In un'epoca in cui si pensa che la terra sia
una nave spaziale che fa parte di un convoglio assieme agli altri pianeti e che
in un futuro non tanto lontano, per rifornirsi di materie prime ci si potrà
rivolgere alle altre navi di questo convoglio, cioè gli altri pianeti, il
pensare a una guerra di conquista, ad una guerra per sottrarre risorse ad
un'altra nazione è tanto assurdo quanto criminale.
Faticosamente e tra mille contraddizioni, gli
uomini del nostro pianeta, a oriente come ad occidente, sono alla ricerca degli
strumenti migliori per garantire il progresso, il benessere e la dignità di
tutta la popolazione, e quando Voi pensate al quadro mondiale in cui si
inserirà la Vostra presenza, dovete ricordare sempre che anche Voi siete al
servizio di questo gigantesco sforzo, ragione stessa della pace.
Ecco quindi perché io vengo a parlarVi delle
imprese multinazionali; queste imprese sono uno dei maggiori protagonisti della
storia recente del mondo occidentale e possiamo prevedere che, nel bene e nel
male, il nostro futuro sarà in larga misura determinato dalle iniziative di
questi grandi organismi economici. Per questo Voi dovete conoscerle.
Il tema delle multinazionali è molto vasto,
non vorrei annoiarVi e quindi cercherò di limitarmi agli aspetti più generali
rispondendo soprattutto ad alcune domande:
— che cosa sono le multinazionali?
— che conseguenze provocano nell' economia
mondiale?
— come si svilupperà il rapporto tra queste
società che operano su basi internazionali e gli stati sovrani che tendono
sempre più a voler controllare i fatti economici che si svolgono all'interno
del loro territorio?
Iniziamo il discorso dalla definizione di
multinazionali.
È tutt'altro che facile.
Gli stessi teorici non sono d'accordo: c'è chi
definisce come multinazionali tutte quelle società che hanno struttura
produttiva in diverse nazioni, cioè che sono presenti con propri stabilimenti,
e non soltanto con un'organizzazione commerciale, in molti Paesi del mondo; in
questo caso già oggi le multinazionali sarebbero per lo meno alcune centinaia.
C'è invece chi dice che la multinazionalità è
un punto di arrivo e che si potrà parlare di imprese multinazionali soltanto
quando in un futuro più o meno lontano le scelte più importanti di un gruppo
industriale non saranno effettuate soltanto in un paese, ma vi sarà un
effettivo decentramento delle decisioni e, come conseguenza, ci saranno uguali
prospettive di carriera fino ai massimi livelli per i dirigenti di tutte le
nazionalità(3).
Se accettiamo questa definizione, dobbiamo
dire che di multinazionali non ne esiste nessuna, perché quando il gruppo
dirigente di un'impresa è formato tutto o quasi tutto da elementi della stessa
nazionalità, dai quali dipendono in pratica le maggiori decisioni, si verifica
sempre una tendenza comprensibile a scegliere i propri stretti collaboratori e
quindi anche gli eventuali successori tra persone che hanno la stessa base di
cultura e di linguaggio.
Questo fenomeno, del resto, non è limitato
alle organizzazioni economiche, come dimostra il caso della Chiesa cattolica
che, pur avendo carattere universale, ha sempre espresso da molti secoli
Pontefici della stessa nazionalità(4).
Se, pertanto, accettiamo quest'ultima
definizione delle multinazionali, dovremo dire che si tratta di un tipo di impresa
che ancora non esiste e che al massimo oggi si può parlare di società
binazionali come la Royal Dutch-Shell che è anglo-olandese o la. Pirelli-Dunlop
che è italo-inglese.
Per semplicità di discorso mi si permetta
comunque di rinunciare alla precisione .del teorico, e di parlare di
multinazionali per definire tutte quelle aziende che oggi articolano
sostanzialmente la loro attività in molti Paesi e interessano con le loro
iniziative la economia di vaste aree geografiche sia dal punto di vista degli scambi
di risorse e tecnologie, sia da quello degli investimenti e dei riflessi sui
livelli di occupazione.
La tendenza delle imprese a guardare al di là
dei confini nazionali è assai remota e può essere fatta risalire alle compagnie
commerciali del '600, come la famosa Compagnia delle Indie, che pur facendo
capo ad un Paese europeo possedevano e sfruttavano concessioni negli altri
continenti con bandiera propria ed anche con facoltà di disporre di proprie
forze armate.
Ma le prime vere società multinazionali
rivolte non allo sfruttamento coloniale ma alla intensificazione degli scambi
tra i Paesi più progrediti, si svilupparono nel secolo scorso con le iniziative
della Shell e della Royal Dutch e in seguito negli Stati Uniti, quando questi
ultimi incominciarono ad affermarsi come po-tenza economica sulla scena
mondiale.
Come conseguenza, numerose società americane
si insediarono in Europa e in Canada con un centinaio di unità produttive.
Ne ricordiamo alcune: la Colt, la Singer, la
I.T.T.(5) la General Electric, la Westinghouse, la Kodak e la Parke
Davis.
In tutti questi casi, si trattava di società
con produzioni già relativamente sofisticate e di notevole contenuto
tecnologico, che giustificavano la costruzione di proprie unità produttive in
altri Paesi con il fatto che le proprie esportazioni in tali aree, pur già notevoli,
rischiavano di non riuscire nel tempo a fronteggiare adeguatamente la minaccia
di concorrenti locali.
Successivamente, nei primi anni di questo
secolo, con l'avvento del motore a scoppio, presero a svilupparsi sempre più le
società petrolifere, principalmente di origine americana, che avevano il
problema di aumentare costantemente le proprie fonti di approvvigionamento.
La filosofia delle società petrolifere portava
direttamente alla multinazionalità.
Infatti il petrolio greggio, se si fa
eccezione per le cospicue risorse nord-americane, doveva essere ricercato in
Paesi lontani ed arretrati.
Le possibilità di approvvigionamento
mantenevano quindi un carattere aleatorio, sia perché i luoghi di origine
potevano essere coinvolti in guerre coloniali, sia perché le rotte di trasporto
potevano essere minacciate da fatti bellici.
Tutto ciò induceva le compagnie a teorizzare
la massima flessibilità, cioè la possibilità di attingere i propri rifornimenti
da diversi Paesi e anche di indirizzare i flussi del greggio verso aree di
consumo sempre più diversificate.
Lo sviluppo delle società petrolifere, appunto
per questi motivi, è stato enorme: la Standard Oil New Jersey, cioè la Esso,
opera oggi in 100 Paesi, la Gulf in 50, la Royal Dutch-Shell è presente con
circa 300 unità produttive e commerciali in tutto il mondo.
La potenza economica di queste società le
induceva spesso a svolgere un ruolo di primo piano nella vita politica locale,
un ruolo che poteva essere preponderante nei deboli e arretrati Paesi
produttori ma, come ci insegna la storia del nostro Paese nell'immediato dopoguerra,
poteva essere di tutto rilievo anche nei Paesi consumatori, soprattutto quando
vi era alle spalle un consistente appoggio politico, come quello delle potenze
vittoriose nell'ultimo conflitto mondiale.
Ed è proprio dopo l'ultimo conflitto mondiale
che le imprese multinazionali si sono sviluppate, estendendosi a molti altri
settori industriali, soprattutto quelli tecnologicamente più avanzati, per i
quali le multinazionali sono una effettiva esigenza: lo sviluppo del
transistor o del computer non poteva concepirsi che in condizioni di multi
nazionalità(6).
Quando gli storici futuri esamineranno l'arco
di questi venticinque anni, è probabile che tra le caratteristiche principali
di questo periodo, che ha trasformato così radicalmente l'economia ed anche il
volto politico del nostro pianeta, essi citeranno al primo posto il gigantesco
incremento del volume del commercio mondiale.
Nel 1950 il volume dell'interscambio mondiale
(ad eccezione dei paesi dell'est europeo) raggiunse i 153 miliardi di dollari.
Vent'anni più tardi, nel 1970, il volume
dell'interscambio ha toccato, per la stessa area, i 573 miliardi di dollari (a
valore costante).
In vent'anni, quindi, il volume
dell'interscambio si è quasi quadruplicato. È inutile che mi dilunghi sulle
ragioni di questo sviluppo. Ne citerò solo alcune:
— l'eliminazione delle restrizioni quantitative
agli scambi;
— la riduzione delle protezioni tariffarie;
— la maggior liquidità dei mezzi di pagamento
internazionali, cioè la maggiore facilità di effettuare pagamenti da un Paese
all'altro;
— lo sviluppo sempre più accelerato del
progresso tecnologico;
— la formazione di comunità economiche su
scala continentale, come la Comunità europea;
— una rete di trasporti sempre più estesa ed
efficiente;
— l'estensione del benessere, e quindi di un
maggiore potere d'acquisto, ad uno strato sempre più ampio della popolazione
mondiale.
In questo arco di tempo, quindi, le imprese si
sono abituate a guardare alle grandi aree continentali come ad un unico
mercato.
Anche nelle decisioni di investimento, le
imprese hanno attribuito un'importanza secondaria ai confini nazionali,
scegliendo per i nuovi impianti la località che poteva apparire più proficua,
indipendentemente dal fatto che questa si trovasse nell'uno o nell'altro Stato.
Qualche dato può illustrare la dimensione
raggiunta oggi dal fenomeno industriale multinazionale.
Il totale della produzione di beni e servizi
realizzato da consociate di multinazionali, esclusa quindi la produzione di
società minori, è oggi di circa 120 mila miliardi di lire.
Tale cifra è superiore al prodotto nazionale
lordo di ogni Paese, ad eccezione di quelli degli Stati Uniti e dell'Unione
Sovietica. Circa 2/3 di questa cifra riguarda le consociate di società madri
aventi sede negli Stati Uniti, il restante terzo fa capo principalmente a consociate
di imprese europee, principalmente inglesi, olandesi, svizzere e tedesche.
Le principali società multinazionali americane
hanno oggi oltre 3.000 unità produttive all'estero; il fatturato di tali unità
è circa doppio rispetto a quello delle esportazione degli Stati Uniti.
Ancora qualche dato.
Oggi il tasso di incremento del fatturato
delle conso-ciate di società multinazionali è circa del 10% l'anno, mentre il
prodotto nazionale lordo, cioè l'indice più significativo per misurare lo
sviluppo economico di una nazione, aumenta mediamente del 5%. Tale tasso di
incremento è del 40% superiore a quello delle esportazioni. In altre parole, il
ritmo di crescita delle multinazionali è molto superiore a quello degli
indicatori dello sviluppo di tutte le economie industriali. Sulla base di questi
dati, alcuni studiosi prevedono che la quota della produzione mondiale
controllata dalle multinazionali è destinata ad aumentare ulteriormente.
Considerando anche le economie di scala di cui
godono queste imprese, cioè la possibilità di realizzare economie attraverso il
coordinamento delle loro attività, gli stessi studiosi prevedono che nel 2000,
cioè tra meno di trent'anni, oltre due terzi della produzione industriale mon-diale
sarà in mano alle 200/300 maggiori società multinazionali(7).
A questo punto ci si può domandare quali
ragioni spingono una società ad inserirsi con proprie unità produttive sui
mercati stranieri e quali vantaggi ne ricava. In un'epoca dí mercati sempre più
aperti potrebbe sembrare più agevole e vantaggioso sviluppare le proprie attività
attraverso un aumento delle esportazioni. Eppure, come abbiamo detto, il
fatturato delle filiali delle società multinazionali di origine americana all'estero
è oggi circa doppio di quello ricavato dalle esportazioni.
In modo molto schematico possiamo indicare
queste ragioni per l'espansione multinazionale:
— aspirazione
a raggiungere dimensioni ottimali.
Superato un determinato livello, che
naturalmente è diverso da un settore produttivo all'altro, non sono più possibili
economie di scala sulla produzione, cioè costruendo impianti sempre più grandi;
è invece possibile aumentare le economie di scala di impresa, che si realizzano
con un coordinamento dei finanziamenti, delle attività di ricerca e sviluppo,
dei sistemi avanzati di gestione.
L'investimento diretto in paesi stranieri
consente di realizzare queste economie attraverso:
— una maggiore distribuzione delle spese di
ricerca;
— un miglior utilizzo delle conoscenze
tecnologiche, delle capacità manageriali, delle tecniche di gestione e di
marketing sempre più sofisticate e costose.
— necessità
di superare le barriere commerciali con l'insediamento di unità produttive nei
mercati in cui si vuole penetrare.
Vi sono ancora moltissime aree economiche in
cui le esportazioni sono pressoché impossibili a causa di tariffe doganali
proibitive o di limiti quantitativi, cioè di contingenti di importazione. Se,
quindi, si vogliono sfruttare le possibilità, talvolta rilevanti, offerte da
tali mercati appare necessario o almeno consigliabile procedere ad un'attività
produttiva sul posto.
— possibilità
di fronteggiare meglio situazioni congiunturali avverse.
Anziché concentrare tutte le attività produttive
in un solo mercato appare talvolta più vantaggioso ripartire il proprio impegno
su più mercati; si potrà così bilanciare con il successo su uno di essi i
me-diocri risultati ottenuti in un altro.
— necessità
di fronteggiare in modo adeguato la concorrenza.
In molti casi è opportuno controbattere i
produttori stranieri effettuando direttamente investimenti sul loro mercato.
Inoltre, se esistono mercati terzi che presentano condizioni favorevoli, è
opportuno precedere le iniziative dei concorrenti effettuando propri
investimenti. Abbiamo visto che la decisione di un'impresa di trasformarsi in
multinazionale, effettuando ingenti investimenti all'estero dipende soprattutto
dalle esigenze della produzione e da quelle dei mercati di sbocco. La
produzione e i mercati hanno caratteristiche diverse in ciascun settore
industriale; è facile comprendere quindi che la caratteristica di
multinazionalità è maggiormente presente in certi settori e meno in altri dove
il ciclo produttivo può svolgersi in condizioni economicamente valide anche su
aree limitate. In generale si può dire che le multinazionali sono presenti:
— nei settori che coinvolgono lo sfruttamento
di risorse ingenti di materie prime provenienti da Paesi in via di sviluppo;
qui però siamo di fronte a un tipo particolare di multinazionale di derivazione
coloniale.
— nei settori tecnologicamente più avanzati.
Circa l'85% degli investimenti esteri delle
società manifatturiere statunitensi è concentrato nei settori automobilistico,
chimico, meccanico, elettrico ed elettronico.
Vi sono però settori che hanno importanza di
primo piano per l'economia mondiale come l'acciaio o l'industria aeronautica in
cui la multinazionalità non ha potuto svilupparsi soprattutto perché il potere
politico li ha ritenuti di tale importanza, per ragioni di solito collegate
alle esigenze della difesa, da porli sotto uno stretto controllo nazionale.
Abbiamo visto come i Paesi d'origine delle
società multinazionali siano stati soprattutto gli Stati. Uniti e, in misura
minore, la Gran Bretagna.
La penetrazione delle multinazionali di questi
Paesi ha un carattere dominante anche in certe nazioni che possono essere
considerate economicamente sviluppate, come il Canada dove 75 delle 100
maggiori società sono controllate dagli Stati Uniti o dalla Gran Bretagna, o
l'Australia dove la produzione industriale è per il 40% sotto il controllo di
società americane.
In Europa la presenza di una struttura
industriale più consistente ed anche la maggior sensibilità politica dei
Governi ha frenato il processo di sviluppo delle multinazionali senza però
impedire che esso raggiungesse dimensioni imponenti.
Infatti nel 1969 gli investimenti americani in
consociate europee, nella sola industria manifatturiera, hanno superato i 700
miliardi di lire.
È bene sottolineare però che certi discorsi
sull'invasione industriale americana in Europa devono essere rivisti alla luce
dei più recenti avvenimenti.
È vero che soprattutto attraverso le
multinazionali la presenza degli Stati Uniti nella economia europea è assai
consistente, ma è anche vero che si sta sviluppando pure un processo in senso
inverso.
È sempre più frequente il caso di grandi
società di origine europea che impiantano stabilimenti anche negli Stati Uniti.
Questa è la diretta conseguenza del sorgere
anche in Europa di società multinazionali che per la logica stessa del loro
sviluppo non possono rinunciare ad un mercato così ricco come il mercato nord
americano; ricco ed anche interessante, perché in certi settori molto avanzati,
come ad esempio il settore farmaceutico, una presenza industriale, anche
limitata, in tutti i Paesi più progrediti ha la stessa funzione degli
esploratori nell'arte militare: segnalare i movimenti degli avversari, essere
al corrente sui prodotti più avanzati che, sperimentati dapprima sul mercato
interno, saranno poi immessi sul mercato mondiale.
La multinazionale, quindi, è un fenomeno anche
europeo.
Non possiamo nasconderci però che la
situazione politica dell'Europa rende piuttosto difficile un processo di
concentrazione industriale in senso multinazionale.
Fino a quando il nostro continente sarà
frammentato in diversi stati, fino a quando la multinazionalità potrà essere
identificata con uno o due Paesi d'origine, cioè con i Paesi delle società madri,
le iniziative delle affiliate della multinazionale dovranno sempre combattere
un certo clima di diffidenza e di sospetto dovuto al fatto che i loro centri
decisionali più importanti sfuggono al controllo del potere pubblico locale(8).
Prima però di entrare nel vivo di questo discorso, cioè dell'esame del complesso
sistema dei rapporti tra multinazionali e stati nazionali, è opportuno esaminare
brevemente come avviene il processo decisionale all'interno delle società
multinazionali, cioè in sostanza chi detiene il potere di decisione in queste
società che per le loro iniziative hanno dimensioni mondiali.
Nella categoria delle imprese multinazionali
possiamo collocare società dalle caratteristiche più diverse: dalle imprese
fortemente centralizzate che per diversi motivi concedono poco spazio
all'iniziativa delle consociate, ad imprese largamente decentrate, che si
basano sulla massima autonomia all'interno del Gruppo.
Di massima si può dire che l'autonomia delle
consociate è maggiore:
— quando i Paesi in cui esse operano sono
caratterizzati da un tenore di vita relativamente elevato;
— quando esse presentano buoni risultati
gestionali, un'efficace realizzazione delle strategie di sviluppo proposte
dalla casa madre, un valido sfruttamento delle possibilità offerte dal mercato
locale.
E’ comunque in atto una tendenza verso
l'adozione di strategie globali delle multinazionali integrate su scala
mondiale e ciò soprattutto per ragioni finanziarie, di programmazione e di
controllo(9).
Si tratta di un fenomeno inevitabile,
collegato alla logica di comunicazioni sempre più rapide e agevoli, alla
formazione di un mercato finanziario ormai su basi mondiali, al fatto stesso
che molte società multinazionali delegano a loro consociate appositamente
costituite certi servizi per tutto il Gruppo, come possono essere i trasporti,
la ricerca, l'ingegneria.
In questo modo una società facente parte di
una multinazionale ed operante su un determinato territorio nazionale viene a
far capo non a una sola casa madre ma a diverse società collegate che ne
controllano le diverse funzioni.
Talvolta poi i più grandi gruppi
multinazionali prevedono società di controllo a due livelli; dapprima su scala
continentale e poi in un'unica società mondiale che a sua volta controlla le
società continentali; ed è inevitabile che una struttura di questo genere, per
quanto imposta dalle esigenze dei tempi, tolga un ulteriore margine di
autonomia alle consociate nazionali. Finora abbiamo parlato delle imprese
multinazionali. Vediamo ora l'altro protagonista dell'economia mondiale,
l'interlocutore con cui tutte le imprese multinazionali devono dialogare nelle
loro iniziative: lo Stato nazionale.
Se esaminiamo il problema storicamente,
vediamo subito che i rapporti tra multinazionali e potere politico si sono
posti in modo diverso a seconda del grado di sviluppo del Paese in cui la
multinazionale opera. Nella prima fase dello sviluppo dei Paesi del terzo
mondo, le multinazionali hanno esercitato un ruolo importantissimo. Questi
Paesi, infatti, hanno assolutamente bisogno per la loro crescita del patrimonio
di capitali, di tecnologie e di esperienze di cui dispongono le imprese
multinazionali.
D'altra parte soltanto queste imprese possono
accollarsi i rischi relativi all'instabilità politica che solitamente
accompagnano la fase di decollo.
In questo primo stadio, in cui la classe
politica locale è ancora molto debole e spesso sottoposta a tutela di fatto da
parte delle potenze ex coloniali, le imprese multinazionali possono dettare le
regole del gioco. Al limite può accadere talvolta che qualche Governo proceda
alla nazionalizzazione di singole unità produttive appartenenti alle
multinazionali. Ma è difficile che un tale Governo riesca a reggere alla
pressione politica che le multinazioni possono esercitare.
D'altra parte anche una nazionalizzazione in
un Paese privo di una classe dirigente e di tecnici adeguati rischia di
risolversi in una pura perdita di profitto e di prestigio.
Ben presto, infatti, i protagonisti della
nazionalizzazione scoprono che non basta possedere le materie prime e magari
gli impianti industriali quando mancano i mezzi di trasporto e di distribuzione
nelle aree di elevato consumo.
Questo è il classico meccanismo sul quale,
fino a qualche anno fa, si sono rette le cosiddette sette sorelle, che non
temevano il rischio di nazionalizzazione della industria petrolifera in quanto
sapevano che i Paesi in via di sviluppo non erano in grado di commercializzare
da soli il petrolio greggio e i prodotti raffinati. D'altro canto, è molto
difficile che un Paese ancora povero e arretrato possa permettersi di adottare
iniziative politiche che scoraggino gli investimenti esteri. Le royalties che
vengono versate al Paese ospitante, la valuta derivata dalle esportazioni, i
salari con cui la manodopera locale è retribuita, sono fatti economici di tale
rilevanza da porre in secondo piano i problemi dell'autonomia e del prestigio
politico(10).
In una fase
successiva, quella del decollo
economico, la classe politica locale si rafforza e prende in esame soluzioni
che possono servire a limitare il potere delle multinazionali.
In questa fase, la nazionalizzazione delle
affiliate locali delle società multinazionali può anche dare risultati
positivi, quando esiste nel Paese la possibilità di gestire, in proprio, con propri
tecnici, le attività produttive.
Nello stesso tempo, la classe dirigente locale
si pone il problema di come far giungere direttamente i propri prodotti nelle
aree di elevato consumo.
Si cercano accordi ad altre condizioni, con
altre società internazionali, magari in concorrenza con quelle già impegnate
sul proprio territorio, oppure si formano associazioni di Paesi produttori che
bloccano le forme di concorrenza dannosa sui prezzi di vendita delle materie
prime(11).
Anche qui il settore petrolifero è
caratteristico.
Certi Paesi hanno preferito ricorrere
direttamente alla nazionalizzazione degli impianti di estrazione e talvolta
delle raffinerie. Ma le forme più comuni di intervento dei Paesi produttori
sulla politica petrolifera si attuano oggi attraverso:
— gli accordi con le compagnie di Stato dei
Paesi consumatori;
— le iniziative dell'OPEC, l'organizzazione
dei Paesi esportatori di petrolio, che permettono ai produttori di presentarsi
con un fronte comune rispetto alle compagnie multinazionali.
Qualunque sia la forma di difesa adottata dal
potere politico, per la multinazionale il risultato è doppiamente allarmante:
da un lato sono messe in forse le fonti di approvvigionamento di tutto il
sistema; dall'altro si assiste ad un'erosione dei margini di profitto. E la
risposta delle multinazionali si sviluppa in due forme diverse di
differenziazione delle proprie attività produttive:
— diversificando le proprie fonti di
approvvigionamento per compensare le perdite subite in un Paese per eventuali
nazionalizzazioni attraverso l'aumento della produzione in altri Paesi;
— attraverso l'intervento in altri settori,
tecnologica-mente più avanzati, dove è assai difficile fare a meno del
patrimonio di esperienza che soltanto un'organizzazione multinazionale può
offrire.
Per continuare l'esempio tratto dall'industria
petrolifera, la conseguenza di questa strategia è una sempre più massiccia
presenza delle imprese multinazionali provenienti dal settore petrolifero nell'industria
chimica e petrolchimica, che richiede conoscenze assai più progredite e più
difficili da acquisire che non la semplice attività di estrazione e
raffinazione del petrolio.
In questa seconda fase, anche quando gli Stati
adottano una politica di massimo incoraggiamento agli investimenti esteri, il
Governo locale cercherà comunque di spogliare la presenza delle multinazionali
da qualsiasi addentellato politico.
Così, ad esempio, in alcuni Paesi americani, i
Governi locali hanno chiesto alle affiliate delle multinazionali di rinunciare
a far valere la possibilità d'intervento diplomatico e politico del Paese
d'origine impegnandosi, in cambio di questa rinuncia, a comportarsi con le affiliate
delle multinazionali con gli stessi criteri giuridici ed economici che valgono
nei confronti delle società locali.
Esiste, infine, una terza fase che
caratterizza i Paesi ormai industrializzati(12).
La classe politica locale ha ormai conseguito
la sua indipendenza economica, e scopre che per mantenere il ritmo delle
nazioni più ricche non può fare a meno delle imprese multinazionali e del loro
apporto di capitali e tecnologia.
Il problema dei rapporti tra Stati industriali
moderni e imprese multinazionali è appunto quello su cui è opportuno
approfondire maggiormente il nostro discorso, anche perché ci riguarda più da
vicino.
In questa fase lo Stato non deve soltanto
seguire con attenzione le iniziative delle affiliate delle imprese multinazionali
di origine estera ma deve anche considerare le conseguenze delle iniziative
delle sue società multinazionali cioè di quelle che hanno all'interno del proprio
territorio la casa madre.
Spesso, infatti, queste iniziative possono
essere oggetto di preoccupazione da parte delle autorità politiche, o perché
sono suscettibili di creare aree di tensione nei rapporti con altri Paesi, o
anche perché aggravano gli squilibri economici all'interno del Paese stesso.
Ad esempio, quando un Paese ha difficoltà
contingenti nella bilancia dei pagamenti, cioè nei conti con l'estero, preferirebbe
di gran lunga che le imprese svolgessero un'azione all'interno del Paese
realizzando nuovi impianti ed esportandone i prodotti anziché esportare i
capitali il cui rendimento è sempre a più lungo termine.
Se il Paese ha ancora aree arretrate o permane
una rilevante disoccupazione, il potere politico si preoccuperà che le risorse
esportate siano sottratte allo sviluppo interno.
Bisogna naturalmente che questa giusta
esigenza non si trasformi in un'ottica miope, perché abbiamo visto che spesso
gli impianti che possono essere realizzati all'estero, magari attraverso joint
ventures, cioè iniziative congiunte con imprese di altri Paesi, non sarebbero
ugualmente realizzabili all'interno.
Impedire queste iniziative comporterebbe
quindi una perdita secca nelle possibilità di esportazione di tecnologie ed
anche eventualmente di forniture per gli impianti in progettazione all'estero(13).
Ma l'attuale dimensione degli Stati è
compatibile con una politica efficace nei confronti delle imprese multinazionali?
Tutti i Governi si trovano oggi a dover vivere
un dilemma la cui soluzione è molto difficile.
Da un lato, ci si evolve sempre più verso
l'identificazione della politica con la politica economica. In altre parole, i
fatti economici, dai livelli di occupazione alla produzione di reddito, dagli
investimenti ai flussi di beni e servizi, sono sempre più importanti nel
determinare il clima sociale e quello politico in cui il Governo deve agire.
Esiste quindi la tendenza dello Stato a
controllare sempre più i fatti economici.
Questo avviene:
— attraverso l'intervento diretto, sotto forma
di azien-de pubbliche;
— attraverso strumenti monetari, cioè
regolando la quantità di moneta e credito a disposizione degli operatori
economici;
— attraverso strumenti fiscali e tariffari,
cioè con agevolazioni e sgravi fiscali che facilitino o rendano più difficile
il conseguimento di determinati obiettivi, oltre che naturalmente con gli
strumenti classici di azione verso l'esterno: barriere doganali, controlli
finanziari e sui cambi.
L'impiego di questi strumenti è normalmente
inquadrato in una politica di programmazione più o meno rigida che definisce
quali devono essere gli obiettivi che lo Stato persegue in politica economica.
L'altro corno del dilemma è dato dal fatto che
il territorio nazionale è sempre più insufficiente per un'economia che tende
ormai a muoversi in dimensioni mondiali.
Infatti:
— Se i controlli statali creano vincoli
eccessivi agli investimenti e alle operazioni in un Paese, la società multinazionale
può comunque rispondere potenziando le sue attività in altre aree geografiche e
disinvestendo dal Paese in cui si sente troppo contrastata.
— Gli strumenti fiscali sono di difficile
impiego. Una società che opera in un solo Paese può sempre essere tassata dal
Governo sulla base dei suoi guadagni effettivi, ammesso che i bilanci possano
essere controllati; ma all'affiliata di una società multinazionale è abbastanza
facile dimostrare al fisco di essere sempre in perdita e, al tempo stesso,
essere un buon affare per la casa madre.
Basta infatti che acquisti le materie prime da
un'altra società del Gruppo a un prezzo sufficientemente elevato perché produca
un reddito per il Gruppo nel suo complesso(14).
— Le barriere doganali e tariffarie e in
generale il controllo sui movimenti di beni e di denaro rispetto all'estero
sono di applicazione sempre più difficile perché provocano una serie di
ritorsioni da parte di altri Paesi.
— Anche l'impiego delle imprese di Stato ha i
suoi limiti.
L'impresa di Stato risponde direttamente al
potere politico, è strettamente vincolata da esigenze sociali interne ed ha
senza dubbio grosse difficoltà a porsi su un piano concorrenziale rispetto alle
imprese multinazionali, molto più libere nei loro movimenti tra un Paese e l'altro.
Insomma gli Stati nazionali nei loro rapporti
con le imprese multinazionali sembrano spesso come i giocatori di una squadra di
calcio costretti da un assurdo regolamento a giocare soltanto nella propria
area di rigore lasciando ai loro avversari la libertà di muoversi a piacimento
per tutto il campo(15).
Del resto, un fenomeno analogo lo
sperimenterete anche Voi quando dovrete cimentarVi con i problemi della difesa
di uno Stato nazionale.
Oggi, l'arte militare, Voi lo sapete
benissimo, è strettamente collegata alla disponibilità di risorse finanziarie e
di esperienze tecniche che un Paese può difficilmente realizzare da solo senza
essere inserito in un quadro stabile di alleanze militari.
Anche dal punto di vista militare l'unica
risposta possibile è quella di un allargamento della dimensione del potere
politico a' livello almeno continentale(16).
La difesa del proprio Paese: si identifica
sempre meno con la difesa del territorio ed è probabile che arriveremo anche ad
una modifica del concetto stesso di Patria, che probabilmente i Vostri figli
vivranno e sentiranno in modo diverso da Voi(17).
Del resto non ci sarebbe da stupirsi perché,
come Voi sapete, il concetto di Patria è un concetto che si è trasformato nel
tempo tanto che, anche all'epoca del Risorgimento, ben pochi erano i cittadini
che sapevano di essere italiani e non si consideravano invece semplici abitanti
del Regno delle due Sicilie o del Granducato di Toscana.
Abbiamo visto ché il potere politico stenta a
far fronte ai problemi posti dalle dimensioni internazionali dei processi
economici. Ma 'deve essere chiaro, quando si pensa a questo problema, :che esso
non può essere affrontato in termini statici.
Non si può chiedere alle imprese
multinazionali di fermarsi ad aspettare che gli Stati elaborino una risposta adeguata sul piano politico ai problemi che
esse pongono.
Così come — e l'esperienza italiana ce lo
insegna —non si può chiedere al potere sindacale, che è l'altra grande forza
economica che esiste negli Stati democratici moderni, di bloccare le
rivendicazioni dei lavoratori in attesa che lo Stato elabori le risposte
adeguate(18).
Le forze economiche hanno una loro logica di
sviluppo che deve essere indirizzata dal potere politico verso i migliori
risultati sul piano sociale; ma per raggiungere questo obiettivo gli Stati
devono elaborare risposte sempre aggiornate, direi quasi inventare strumenti di
politica economica sempre nuovi.
Si tratta insomma di una continua sfida dal
cui esito dipenderà il futuro della società occidentale.
Se le forze operanti a livello nazionale non
riusciranno a tenere il passo dello sviluppo economico e dei suoi problemi,
assisteremo a un progressivo svuotamento del potere politico nazionale.
I maggiori centri decisionali non saranno più
tanto nel Governo o nel Parlamento, quanto nelle direzioni delle grandi imprese
e nei sindacati, anch'essi avviati ad un coordinamento internazionale(19).
Gli organi centrali statuali tenderanno sempre
più a svolgere un compito di mediazione:
— tra l'una e l'altra impresa;
— tra le imprese e i sindacati;
— tra le imprese e gli organi di autogoverno
locale, regioni e comuni, che manterranno una particolare vitalità perché in
essi si esprime più intensamente la spinta dei cittadini delle democrazie
moderne verso una più ampia partecipazione alla gestione della cosa pubblica. Che
il sistema istituzionale si stia profondamente trasformando sotto la spinta
dell'economia e soprattutto della tecnologia, lo potete constatare Voi stessi
se soltanto riflettete un momento sulla spinta crescente che appunto la
tecnologia imprime alla «professionalità» nel Vostro campo.
Gli eserciti nazionali basati sulla
coscrizione obbligatoria potrebbero essere destinati a cedere nuovamente il
passo ad apparati militari professionali analogamente a quanto avveniva alcuni
secoli fa; apparati militari non dissimili nella loro carica di tecnicità da
una moderna organizzazione produttiva.
È chiaro però che questo tipo di
professionalizzazione delle forze militari porterebbe con sé l'enorme problema
del controllo politico su un esercito fatto esclusivamente di tecnici; così come
del resto già oggi si pone il problema del controllo politico su una classe
manageriale il cui potere è in costante crescita(20).
Se questo è il tipo di società verso cui ci
stiamo avviando, è facile prevedere che in essa il sentimento di appartenenza
del cittadino allo Stato è destinato ad affievolirsi e, paradossalmente,
potrebbe essere sostituito da un senso di identificazione con l'impresa
multinazionale in cui si lavora.
Io non dico che questa prospettiva di
svuotamento degli Stati nazionali e di annullamento di quell'insieme di valori
ideologici, storici e tradizionali che essi hanno rappresentato sia la
prospettiva migliore e auspicabile.
Dico solo che siamo di fronte a una tendenza
di fatto della società moderna che potrà essere conciliata con quegli stessi
antichi valori soltanto se il potere politico nazionale sarà in grado di rispondere
alla sfida dell'economia rinnovando profondamente il proprio ruolo(21).
Che cosa può fare concretamente il potere
politico per esplicare le sue funzioni di difesa degli interessi della comunità
sociale senza per questo condannare il Paese a un tasso di sviluppo rallentato
che si risolve in un danno per tutti?
La prima risposta, la più ovvia, è quella di
favorire forme di integrazione politica su scala continentale.
È chiaro che se l'Italia è un mercato troppo
ristretto per una grande impresa, l'Europa è invece il maggior mercato del
mondo(22).
Se esistesse un interlocutore a livello
europeo in grado di esercitare un controllo politico sulle multinazionali, con
poteri ben al di là di quelli della Comunità Economica Europea, le iniziative
delle multinazionali potrebbero più facilmente contribuire a risolvere gli squilibri
economici anziché aggravarli.
Questa ipotesi però si potrà realizzare
soltanto quando i singoli Stati nazionali rinunceranno, almeno in parte, alla
loro sovranità.
È chiaro quindi che si tratta di una
prospettiva non a breve termine. Vediamo invece che cosa si può fare oggi in
un'Europa ancora suddivisa in numerosi Stati di dimensioni limitate.
Innanzitutto gli Stati devono farsi promotori
di una regolamentazione delle iniziative industriali nel diritto internazionale(23).
Come sapete il diritto internazionale nasce
dagli accordi tra gli Stati sovrani.
Questa è l'unica vera strada per cercare di
risolvere problemi che non possono essere affrontati in modo unilaterale né
dallo Stato ospitante, né dallo Stato di origine della multinazionale e neppure
dall'impresa stessa. Quest'ultima può sembrare avvantaggiata dalla pluralità
degli ordinamenti e dallo stato di incertezza e di mancanza di controlli
politici.
In realtà soffre anche tutti gli inconvenienti
di una situazione di confusione, che certo non favorisce gli investimenti, e
deve inoltre costantemente temere le reazioni ostili che possono insorgere da
parte di gruppi di pressione economica e politica locali.
Mi sembra comunque utopistica la soluzione di
chi vuol instaurare un'autorità internazionale, magari nell'ambito dell'ONU,
per il controllo sulle imprese internazionali(24).
È più facile e più, proficuo creare una
disciplina comune, eventualmente a livello di aree continentali, armonizzando
le norme giuridiche, fiscali ed amministrative vigenti nei vari Paesi,
attraverso, come dicevo prima, una tenace, diuturna attività di contrattazione.
L'età in cui viviamo è del resto, chiaramente
sotto il segno del negoziato e della pattuizione: perfino la programmazione da
« imperativa » che era, si è fatta « contrattuale », e ogni giorno — si può
dire — il diritto-imperio cede il passo al diritto-contratto.
Anche la creazione della cosiddetta Società
europea, cioè di un nuovo diritto societario che permetta alle imprese di
operare a pari condizioni in tutti i Paesi della Comunità Economica Europea
rappresenterebbe un passo importante in questa direzione.
Ma il protagonista principale del dialogo del
potere politico con le imprese multinazionali sarà ancora per molto tempo
l'organo della programmazione nazionale. Ed io credo che chi è responsabile
della programmazione di un Paese debba valutare l'operato delle multinazionali
facendo un calcolo che va al di là di qualsiasi diffidenza xenofoba, ma anche
di qualsiasi convenienza immediata.
Troppo spesso i responsabili della politica
economica, quando esaminano i progetti delle imprese multinazionali dei loro
Paesi, si limitano a considerarne la convenienza in termini di royalties, di imposte,
di quote di importazione, di reinvestimento dei profitti.
Essi non valutano sufficientemente quelle
conseguenze che non si ripercuotono immediatamente sul bilancio dello Stato, ma
sull'economia in generale, e cioè il tipo di tecnologia introdotta, il livello
di autonomia della impresa, la presenza o meno di attività di ricerca, i rapporti
che si instaurano con il personale, la possibilità dei dipendenti del Paese di
arrivare ad alti livelli decisionali.
Se gli organi della programmazione nazionale
vogliono compiere una verifica di questo genere sui programmi delle grandi
imprese, l'unica soluzione possibile è la continua contrattazione dei programmi
aziendali.
Le imprese oggi operano con programmi a 5-10 o
addirittura 20 anni; è giusto quindi che questi programmi siano continuamente verificati
con quelli degli Stati per identificare tempestivamente le possibili aree di
at-trito ed elaborare soluzioni prima di arrivare a conflitti insanabili.
Ha scritto uno dei maggiori esperti delle
multinazionali, Christopher Tugendhat:
«la posizione delle imprese è sotto certi
aspetti analoga a quella della Chiesa Cattolica in passato. Spesso Re e
Imperatori temevano che la loro posizione di potere fosse indebolita dalla
organizzazione internazionale della Chiesa, dalla sua influenza sulle politiche
nazionali e dalle sue immense ricchezze. Di solito queste tensioni si sono
risolte in due modi. Alcuni Paesi hanno rotto con Roma e hanno creato Chiese
indipendenti, altri hanno negoziato concordati col Papa, definendo le
rispettive sfere di influenza e creando una cornice giuridica che permettesse
loro di lavorare insieme in armonia. Oggi nessun Paese industriale avanzato può
creare Chiese indipendenti, cioè isolarsi totalmente dalle imprese multinazionali
e internazionali, perché questo significa rinunciare a tutti i vantaggi che tali
imprese possono offrire. L'impresa multinazionale è una realtà politica ed
economica del mondo moderno. Se gli Stati vogliono poter godere del massimo dei
benefici che le imprese possono fornire, e ridurre al minimo i costi, devono
promuovere intese che permettano di lavorare assieme».
Signori, vi chiedo scusa se vi ho rubato tanto
tempo, ma un argomento di questa mole e di questa importanza non poteva essere
sintetizzato in poche parole.
Da quanto vi ho detto, io spero che vi sia
rimasta soprattutto una sensazione: che il mondo sta cambiando rapidamente, e
che il ruolo che ciascuno di noi sarà chiamato a svolgere in futuro potrebbe
essere molto diverso da quanto ci aspettiamo(25).
Perciò, rivolgendomi a voi, ufficiali di
domani, vorrei concludere con una esortazione: non disdegnate le scienze
politiche, non trascurate lo studio dei fenomeni sociali, approfonditeli con attenzione
e meditate sulle loro linee evolutive. In poche parole, occupatevi di politica(26).
Non certo come militari, come casta, ma come cittadini, per dare un senso al
vostro impegno di fedeltà alla Costituzione Repubblicana.
Studiate i problemi del mondo che Vi circonda;
riflettete sull'importanza del Vostro ruolo in un'epoca che non può più
permettersi la guerra.
La difesa della Patria, del pezzo di terra su
cui si è nati e cresciuti, non si realizza oggi solo attraverso la lotta armata
per difenderne i confini, ma anche con una chiara coscienza di quei valori di
libertà, di democrazia e di giustizia sociale su cui è costruita la nostra
Repubblica.
Siate i difensori di questi valori, e in Voi
si perpetuerà la migliore tradizione dell'Esercito Italiano.
Il discorso di Cefis è
finito. Poche considerazioni.
Una cosa impressiona
soprattutto in questo manifesto ideologico: la sua totale riduzione a un unico
«valore»: la crescita, lo sviluppo, il moltiplicarsi delle multinazionali.
Tutto lo scritto è
dominato da questa logica economica assoluta che avanza sul pianeta e che ogni
cosa distrugge. E per coloro che cadono, anche quando si tratta di rispettabili
invenzioni borghesi come gli stati nazionali, Cefis ha poche e sbrigative
parole di cordoglio. Non c'è tempo, bisogna correre avanti, verso le
multinazionali sempre più grandi, sempre più potenti.
Nulla vien detto di
come diavolo funzionerà questo pianeta una volta che sia stato conquistato
dalle multinazionali. Nulla si dice di cosa sostituirà i partiti e gli stati
che vengono dati già per defunti.
Forse, ed è l'ipotesi
più credibile, Cefis è convinto che in realtà questi vecchi arnesi di
mediazione sociale non abbiano più senso: le .multinazionali tengono nel loro
ventre tanto benessere, ma anche tanto potere concrete interi continenti), che
non è più il caso di ricorrere a sottili e complesse mediazioni. Insomma,
finalmente il capitale può gettare la maschera, e presentarsi sulla scena
mondiale proprio come è fatto, almeno in parte.
Continuerà, infatti, a
muoversi in una zona ricca di aspetti misteriosi. Non sarà facile, cioè,
capirne subito tutti gli intrecci, le alleanze, i comportamenti apparentemente
contraddittori (e invece funzionali alla sua crescita).
Di un'altra cosa Cefis
non parla: della possibilità che i lavoratori non siano d'accordo con questo
tipo di società che si sta spianando davanti a loro.
Proprio non vi accenna
nemmeno in due righe. Però deve averci pensato: liquida infatti gli stati e i
partiti, ma conserva come elementi del suo discorso i sindacati.
E, in fondo, se non
avesse pensato (anche senza avere il coraggio di dirlo chiaramente) che da lì,
dai lavoratori, possono venire guai seri a questa cosa che sta crescendo così
in fretta, perché mai insisterebbe così tanto con i militari?
Non basterebbero il
loro esempio, e le loro opere di bene, per convincere il mondo?
Ma Cefis sa benissimo che
non è così. L'universo multinazionale che lui descrive è soltanto, in realtà,
il vecchio universo capitalistico, soltanto più semplice, più duro, più grande.
Di ecumenico non avrà dentro proprio nulla.
Anzi, tutto lascia
pensare che sarà ancora più inabitabile di quello che conosciamo già, di quello
che viviamo adesso. L'universo cefisiano, quindi, non si presenta come universo
della pace finalmente raggiunta, ma come teatro di scontri e di lotte (di
classe) ancora più violente di quelle che si son già fatte: tutte le poste in gioco
sono state infatti rialzate, e ogni volta che si alzerà un cartello di protesta
si rischierà di prendersela magari di
tutto il mercato.
E come ci insegna la
storia, quando in un gioco (nella lotta di classe) si cambiano le poste, si
rialzano, cambiano anche tutte le regole: inevitabilmente.
Cefis, ai suoi amici
militari, ha cominciato a spiegare quali possono essere le nuove.
Anche noi, dovremmo
cominciare a spiegarcele, a ricercarle queste nuove regole.
Per questa volta,
prendendo il discorso del presidente della Montedison, non abbiamo fatto altro
che rubare una dispensa, un manuale, un pezzo di cultura padronale. È sicuro,
però, che dovremo procurarci qualche testo più nostro, e in fretta.
(a cura di Giorgio
Radice)
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(1) Due parole su chi è Eugenio Cefis vanno pur dette. Vice-presidente dell'Eni ai tempi di Enrico Mattei, ne prese il posto quando questi venne liquidato facendolo esplodere per aria con il suo aereo. Mattei era impegnato nella battaglia contro le «sette sorelle» del petrolio. Cefis, invece, chiuse subito la partita, e fece pace con i petrolieri americani: l'Eni smise così di disturbare i loro affari in Nord Africa.
In anni più recenti, Cefis è stato la mente
che dalla poltrona di presidente dell'Eni ha diretto la scalata alla
Montedison: ha portato, cioè, l'Iri e l'Eni, le imprese pubbliche, ad avere una
posizione di controllo nel più grande gruppo privato italiano. Fu un grosso
scandalo: Cefis, fra l'altro, si era scordato di informare il potere politico,
al quale per legge era sottoposto.
Per alcuni anni, dopo la scalata di Cefis, la
Montedison venne diretta da un sindacato di controllo fatto per metà dalle
aziende pubbliche e per metà da quelle private (Agnelli, Pirelli, Bastogi,
ecc.).
Dopo vari presidenti, e tanta crisi economica (la chiamavano l'«elefante
malato»), Cefis si decise a fare il grande salto: lasciò l'Eni e diventò
presidente della Montedison.
Da quel punto in avanti non è più possibile
dire cosa sia Cefis: se un manager pubblico che lavora per lo stato, se un
capitano di ventura che cavalca una società da 2000 miliardi all'anno senza
averne in tasca nemmeno un'azione, se il personaggio più esposto di un blocco
di potere (Fanfani), che ha individuato nella Montedison una base economica per
imprese orientate verso una società un po' più efficiente, ma molto più
autoritaria di quella attuale.
Quel che è certo è che in pochi mesi Cefis ha fatto
fuori il vecchio sindacato di controllo. Oggi a comandare nella Montedison è
lui: al centro di un complicato gioco di alleanze con gruppi italiani fra i più
squalificati (Pesenti e Monti, due fascisti sicuri, più altri non migliori) e
con partners stranieri di tutto rispetto (i francesi Gillet-Bizot, l'americana
Esso Standard, alcuni petrolieri canadesi, ecc.), con l'aggiunta, infine, di un
po' di complicità da parte di alcuni istituti pubblici (banche, sopratutto).
Nello stesso periodo di tempo, e cioè in pochi
mesi, Cefis ha messo a segno alcuni grossi colpi: ha comprato la Carlo Erba, la
maggiore industria farmaceutica italiana; ha cacciato i soci francesi (che però
ha compensato dandogli in cambio parte della stessa Montedison) dalle aziende
da lui controllate (Farmitalia, Rhodiatoce, Snia Viscosa), delle quali è
diventato così il padrone assoluto; ha messo le mani sulla Bastogi, la più
importante società finanziaria italiana, e se n'è prenotata un'altra, la
Centrale.
Ha fatto un'autentica strage nei dirigenti
Montedison che mandavano avanti la società prima che lui arrivasse, e infine ha
scoperto che nel gruppo, 180 mila dipendenti sparsi in un migliaio di società,
ci sono almeno 15 mila lavoratori in più, esuberanti,.dei quali quindi qualcuno
dovrà occuparsi poiché lui non ne ha i mezzi.
La Montedison, infatti, va male: anche
quest'anno ha chiuso il bilancio con oltre 200 mila milioni di perdite. E sta
cercando di farsi finanziare dallo stato, cioè da noi, programmi chimici per
quasi 2000 miliardi.
(2) L'affermazione è talmente banale da
sembrare quasi stupida. Poche pagine più avanti, però, Cefis spiegherà che gli
stati nazionali sono ormai delle scatole vuote, senza potere. Allora, dire che
i militari sono cittadini del mondo significa già dire qualcosa di più:
significa che devono organizzare il loro potere su scala internazionale più di
quanto non abbiano fatto finora. Idem per l'invito ad occuparsi di politica in
modo più sistematico: invito inquietante quando si è convinti che gli stati nazionali
sono ormai appunto delle scatole vuote, e che in realtà non esiste un « potere
politico » sul pianeta.
(3) È bene ricordare a questo punto che chi
dice queste cose, Eugenio Cefis, è presidente di una società, la Montedison,
che in anni recenti si è mezza distrutta proprio perché non è mai riuscita a
far girare insieme i dirigenti che venivano dalla Montecatini con quelli che
venivano dalla Edison. Due società, cioè, di antica tradizione milanese, e le
cui rispettive sedi distano soltanto poche fermate di tram (da largo Donegani a
Foro Bonaparte).
(4) Qui troviamo il primo di una lunga serie
di riferimenti di Cefis alla chiesa cattolica. Lo stesso documento che state
leggendo, almeno nelle sue parti principali, è stato fatto pubblicare da Cefis
sul mensile «Successo», a mò di manifesto ideologico, con il titolo ambizioso
ma rivelatore «La multinazionale ecumenica».
(5) La I.T.T. è quella società americana
che in questi mesi è stata al centro di un colossale scandalo finanziario e
politico negli Stati Uniti: è stata accusata infatti di aver complottato con la
CIA contro Allende per farlo saltare da presidente del Cile, di aver finanziato
il congresso del partito repubblicano per ottenere favori dall'amministrazione
Nixon, e di altre cose del genere. Il suo presidente incassa ogni anno, come vi
spiegano le guide turistiche di New York davanti al grattacielo della ITT, più
di un miliardo di lire di stipendio.
(6) Cefis dice una cosa sacrosanta: a un certo
livello di tecnologia l'unica dimensione aziendale possibile è quella multinazionale.
Le spese di ricerca infatti sono tali che solo un mercato che sia l'intero pianeta
permette di farvi fronte. Questo stesso fatto, però, porta le multinazionali ad
operare in una specie di «zona spaziale» al di sopra dei territori e delle
leggi nazionali.
(7) E La logica del capitalismo, cioè, è
proprio quella della sempre maggior concentrazione. Se le previsioni di Cefis
sono giuste, però, bisogna ammettere che questa concentrazione è molto più
rapida di quanto si potesse pensare. Due terzi della produzione mondiale in
mano a 300 società fra trent'anni, significa che partiti e sindacati nazionali
come li conosciamo noi adesso, ad esempio, rischiano di non riuscire nemmeno a
scalfire l'avversario di classe (che può rifarsi in un continente delle botte
che ha preso in un altro). L'antico problema, cioè, di come battere il capitale
si trasforma e si ripropone in termini assolutamente nuovi.
(8) Cominciano a fioccare le critiche di Cefis
alla situazione politica europea, troppo arretrata, troppo immobile, troppo vecchia.
Buona, ormai, per scriverci la storia.
(9) L'autonomia «nazionale» delle varie
filiali delle multinazionali, cioè, può riguardare solo gli aspetti marginali,
le questioni di dettaglio, non i nodi veri, reali. I centri di potere, a
dispetto dell'auspicata diversa origine nazionale dei dirigenti, saranno unici
e magari piantati in qualche «paradiso fiscale» della legislazione societaria
così incerta da non permettere nemmeno di capire quale sia l'esatto indirizzo
della società in questione. Valga per tutti l'esempio recente dei fondi di
investimento, verso i quali fino a qualche anno fa c'era un entusiasmo
colossale, quasi tutti piantati alle Bahamas, da dove sono spariti come
fantasmi ai primi segni della bancarotta imminente.
(10) Probabilmente, è la prima volta che un
capitano dell'industria ricostruisce con tanta freddezza e lucidità la storia
degli ultimi 50 anni del Medio Oriente: dove il potere politico non esiste, o è
debole, comanda la multinazionale, che può disporre in patria di solidi appoggi
politici. E infatti, come tutti ricordano, nel Medio Oriente inglesi, francesi
e americani hanno fatto guerre, sbarchi, colpi di stato: tutto, come dice
Cefis, per esercitare la necessaria «pressione politica».
(11) E qui siamo quasi nell'autobiografia: si
tratta infatti della storia dell'Eni, e dei suoi rapporti con i paesi
produttori di petrolio.
(12) Qui comincia la parte più interessante di
tutto il discorso di Cefis: quella che ci riguarda più direttamente.
(13) Attenzione: Cefis non si limita a
spiegare che le multinazionali, facendo i loro affari un po' qua e un po' la, a
volte non fanno quello che i governi locali vorrebbero. Dice, molto
chiaramente, che le multinazionali, in particolari condizioni, sono in grado di
assestare dei colpi terribili all'economia dei singoli stati. Una cosa
gravissima, quindi. Ma vediamo come possono difendersi gli stati nazionali.
(14) Verissimo: nel 1970, vendendo benzina
agli italiani, la Esso, nuova socia di Cefis, ha perso qui da noi oltre 6
miliardi di lire. La Shell ha perso soltanto un miliardo. La Bp (inglese) ci ha
rimesso più di 4 miliardi, e la Total (francese) più di 800 milioni. L'Agip,
invece, facendo lo stesso .mestiere ha guadagnato nel 70 più di 2 miliardi.
Adesso, Cefis ci ha spiegato com'è potuta
accadere una cosa tanto strana, che per dì più si ripete da anni e anni.
(15) Ecco. Finalmente Cefis ha spiegato cosa
possono fare gli stati per imbrigliare le multinazionali: niente. Al massimo possono
difendersi malamente. Di attaccare non si parla nemmeno. Le multinazionali, però,
sono « ecumeniche »: perché aspettarsi del male da loro?
Più avanti, comunque, Cefis sarà ancora più
esplicito.
(16) Apprezzare, per favore, l'abilità con cui
il presidente della Montedison. comincia a introdurre nei cervelli militari
seduti davanti a lui il sospetto che la sorte degli eserciti è ormai quella
delle imprese industriali: la multinazionalità, cioè, una scala operativa che
sia «almeno continentale» (ma l'ideale sarebbe appunto la Nato; che, come si
sa, attraversa addirittura l'oceano).
(17) E qui, francamente, come ex allievo
dell'Accademia Militare di Modena Cefis ha superato se stesso: la Patria è un ferrovecchio,
state attenti perché fra qualche anno avremo da misurarci con qualcos'altro. E
voi, intanto? Aggiornatevi, altrimenti sarete tagliati fuori.
Ricordarsi, è importante, che poche righe
prima Cefis ha spiegato che le risorse. finanziarie e tecniche per una buona
guerra multinazionale possono venire soltanto, appunto, dalle multinazionali. E
che gli stati, come ribadirà fra poco, sono robe d'altri tempi.
Insomma: prima gli ha indicato quale tipo di
lavoro militare sarà richiesto nei. prossimi .anni, adesso gli sta spiegando
chi saranno gli eventuali datori di lavoro: le multinazionali.
(18)Questo è il cuore del discorso di Cefis:
le multinazionali non possono attendere, devono obbedire al loro destino che è
quello di coprire l'intero pianeta con i loro uffici e i loro prodotti. Se gli
stati non riescono a tenere il passo, ebbene, peggio per loro.
Ma subito Cefis lancia un ponte ai sindacati,
alle organizzazioni, cioè, che oggi più dei partiti rappresentano i lavoratori.
E nemmeno questi, i lavoratori, dice Cefis, possono aspettare che gli stati
trovino il modo di regolarsi con le multinazionali. Insomma: queste società
planetarie di cui Cefis sta parlando da più di mezz'ora possono essere
immaginate come degli autobus sui quali c'è posto e prosperità per i lavoratori,
i loro sindacati, ma non per gli stati nazionali e per i partiti (che infatti non
vengono nemmeno nominati durante tutta la conferenza: già rimossi, già
eliminati dal cervello del presidente?).
Saltano, insomma, tutte le mediazioni
politiche: restano di fronte i padroni e i sindacati operai, l'ultima trincea
organizzativa delle masse. I primi però, i padroni, sono gli unici capaci di
dare un lavoro, i mezzi tecnici, i soldi, oltre che agli operai, anche ai
militari.
E fascismo? È la nuova società corporata? È il
nuovo capitalismo?
(19)Finalmente, dopo 17 pagine di discorso,
l'ha detto: a comandare saranno, in prima persona, le grandi società multinazionali.
Agli stati nazionali, come spiega due righe più sotto, saranno riservati semplici
compiti di mediazione. O meglio: gli stati saranno ridotti a delle specie di
salotti dove i protagonisti veri del pianeta, le multinazionali e i lavoratori,
più precisamente: i loro sindacati, il capitale e il lavoro insomma, si
recheranno a discutere le loro controversie.
Probabilmente con i militari, e del tipo
allucinante descritto dieci righe più sotto, che sorvegliano gli ingressi e che
magari passano l'aria condizionata.
(20) Insomma: l'immagine dei futuri militari
comincia poco a poco a prendere corpo: devono essere integrati su scala
multinazionale, soldi e mezzi tecnici vengono dalle multinazionali, saranno
inevitabilmente dei professionisti a tempo pieno (nemmeno più legati alla
patria, che. nel frattempo sarà sparita). In breve: dei centurioni che
viaggiano in jet, comunicano fra di loro con reti radar di cui nessun altro può
avere il controllo, dispongono di armi micidiali. Certo allora che il problema
del «controllo politico» su gente del genere si pone.
Ma chi può esercitarlo, se Cefis vede giusto?
Il padreterno, oppure Ford, o la Esso, o Cefis stesso?
(21) Cefis non auspica, non spera, lui registra
obiettivamente: il pianeta sarà delle multinazionali. E allora pone, per la
terza o la quarta volta, l'angoscioso interrogativo: ma gli stati nazionali
cosa possono fare?
(22) Rileggere, per favore, e più volte.
Questo è un passaggio dialettico di cui più di un sofista si sarebbe vantato
per anni. Ricostruiamolo: cosa possono fare gli stati nazionali per difendersi
da tutte queste multinazionali che avanzano? Risposta: «favorire forme di
integrazione politica su scala continentale». Bene, giusto, così gli stati
saranno più forti e potranno difendersi meglio. E invece no. La risposta giusta
è: l'Europa è il maggior mercato del mondo. E infatti, dieci righe più avanti,
Cefis spiegherà che l'integrazio-ne politica europea è qualcosa che si colloca
lontano nel futuro, quella economica invece è più a portata di mano. Quindi:
come difendersi dalle. multinazionali? Preparando loro un bel mercato, grande
come l'Europa, dove potranno crescere e svilupparsi come funghi.
(23) Si può tornare
a sperare. Cefis parla di buone leggi internazionali, che vanno fatte, per controllare
le multinazionali. Basta proseguire, però, la let-tura per un altro paio di
capoversi e la delusione è di nuovo completa: Cefis spiega, giustamente, che le
multinazionali non crescono bene nel casino legislativo dei vari stati. Quindi,
si facciano buone leggi multinazionali.
(24) Liquidata in tre righe l'Onu, Cefis si
lancia per alcune pagine in una serie di carezze verso gli stati nazionali,
trattati finora come dei cadaveri ingombranti. Spiega loro con calma e pazienza
quali enormi vantaggi possono portare ai loro assistiti (i cittadini). Tanti
buoni affari, tanta tecnologia d'avanguardia, tante belle intese al di sopra
dei mari e degli oceani. E tutte le critiche che aveva fatto nelle pagine precedenti?
Scomparse: adesso le multinazionali non sono più quelle cose che possono
provocare guasti incredibili all'economia dei singoli stati. Sembrano tutte la
dea-primavera intenta a distribuire sulla terra fiori e messi di grano.
Come mai? È l'altra faccia della medaglia:
Cefis, cioè, come prima non ha nascosto che le multinazionali possono essere
una cattiva cosa, adesso vuole spiegare perché possono essere, anzi sono, un'ottima
cosa.
Qualche riga più sotto, infine, concluderà,
con un'oggettività liquidatoria impressionante, che gli stati nazionali,
volendo, possono anche mettersi in testa di fare la guerra alle multinazionali,
ma che proprio non è il caso: sarebbero comunque perdenti: e allora «Se gli
stati vogliono poter godere del massimo dei benefici che le imprese possono
fornire, e ridurre al minimo i costi, devono promuovere intese che permettano
di lavorare assieme».
Insomma, via ogni progetto di guerra, si facciano
i grandi mercati (quello europeo prima di tutti), si facciano delle buone leggi
multinazionali così tutto sarà più chiaro, e si discuta fra stati e
multinazionali: chi si sarà comportato bene sarà trattato bene. Va da sé che
però dovremo mandare lì i militari professionisti, che dovremo preoccuparci in
qualche mo do degli stati che stanno morendo. Va da sé, cioè, che dovremo
preoccuparci di comandare. Questo, in sintesi, l'universo cefisiano della
multinazionali.
(25) Ne siamo più
che convinti: con gli stati nazionali che spariscono, le multinazionali che
comandano, i militari che diventano professionisti, certo che il ruolo di «
ciascuno di noi » potrebbe essere molto diverso.
(26) Appunto, cari militari, occupatevi di
politica, di politica, e ancora di politica. Studiate i fenomeni sociali. La
vostra futura guerra, permanente, non sarà infatti contro un altro esercito, ma
tutta dentro la società, preparatevi.