Uno studio della storia delle
opinioni è un indispensabile presupposto all'emancipazione della mente.
John
Maynard Keynes
(PDF) Nulla, ovviamente, è mai bello
come ce lo ricordiamo. Il consenso socialdemocratico e le istituzioni dello
Stato sociale dei decenni del dopoguerra coincisero con esempi di urbanistica
ed edilizia pubblica fra i peggiori dell'era moderna. Dalla Polonia comunista
alla Svezia socialdemocratica, dall'Inghilterra laburista alla Francia gollista
e al South Bronx, urbanisti presuntuosi e insensibili tappezzarono le città di
invivibili e inguardabili palazzoni di case popolari. Alcuni di questi sono
ancora fra noi: Scarcelles, una banlieue parigina, testimonia la sprezzante
indifferenza dei mandarini della burocrazia pubblica nei riguardi della vita
quotidiana dei loro sudditi; nella parte est di Londra, Ronan Point, un
palazzone di particolare bruttezza, ha avuto il buon gusto di crollare
spontaneamente, ma la maggior parte degli edifici di quell'epoca è ancora in
piedi.
L'indifferenza delle autorità
locali e nazionali per i danni provocati dalle loro decisioni rappresenta forse
un aspetto inquietante della pianificazione e del rinnovamento del dopoguerra.
L'idea che quelli al potere ne sappiano di più, che siano impegnati in un'opera
di ingegneria sociale per conto di persone che non sanno che cos'è meglio per
loro, non era nata nel 1945, ma ebbe la sua massima fioritura nei decenni
successivi. Era l'epoca di Le Corbusier: troppo spesso non ci si curava
minimamente di quello che pensavano le masse dei loro nuovi appartamenti, dei
nuovi quartieri in cui erano state trasferite, della «qualità di vita» a loro
assegnata.
Già alla fine degli anni
Sessanta, l'idea che «la mamma sa che cosa è meglio per te» cominciava a
produrre una reazione contraria. Gruppi auto-organizzati di cittadini di classe
media cominciarono a protestare per la demolizione abusiva e integrale non solo
di quartieri «brutti» e malsani, ma anche di edifici e aree urbane di pregio:
l'arbitraria demolizione della Pennsylvania Railroad Station a New York e della
Euston Station a Londra, la costruzione di un mostruoso grattacielo per uffici
nel cuore dell'antico quartiere di Montparnasse a Parigi, la grigia
riorganizzazione del tessuto urbano di intere città. Invece di un esercizio di
modernizzazione socialmente responsabile per conto della collettività, queste iniziative
cominciavano ad apparire come sintomi di un potere insensibile e senza
controlli.
Perfino in Svezia, dove i
socialdemocratici mantenevano saldamente in mano il potere, come sempre,
l'implacabile uniformità, anche nei casi migliori, dei quartieri di case
popolari, dei servizi sociali o delle politiche sanitarie pubbliche iniziò a
infastidire la generazione più giovane. Se le pratiche eugenetiche di alcuni
governi scandinavi negli anni del dopoguerra, che incoraggiavano e addirittura
imponevano una sterilizzazione selettiva nell'interesse della collettività,
fossero state maggiormente note alla cittadinanza, la sensazione di una
dipendenza oppressiva da uno Stato panottico forse sarebbe stata ancora più
accentuata. In Scozia, nella Glasgow operaia, dove oltre il 90 per cento della
popolazione cittadina viveva in palazzoni di proprietà del comune, l'aspetto
degradato di questi edifici era la dimostrazione dell'indifferenza delle
autorità municipali (socialiste) alle condizioni di vita dei loro elettori
proletari.
La sensazione, diffusa negli anni
Settanta, che lo Stato «responsabile» non prestasse ascolto ai bisogni e ai
desideri di coloro che sosteneva di rappresentare contribuì ad allargare il
divario sociale. Da un lato c'era una generazione più anziana di urbanisti e
sociologi. Eredi della presunzione manageriale degli edoardiani, questi uomini
e queste donne rimanevano orgogliosi dei risultati ottenuti. Borghesi essi
stessi, erano particolarmente soddisfatti di essere riusciti a vincolare le
vecchie élites a un nuovo ordine sociale.
Ma i beneficiari di quell'ordine,
dall'altro lato (i negozianti svedesi, i marinai scozzesi, gli afroamericani
dei quartieri degradati delle città statunitensi o gli annoiati abitanti delle
banlieues francesi), erano sempre più infastiditi dal fatto di dipendere da
amministratori, consiglieri municipali e regolamenti burocratici. Per ironia
della sorte, erano proprio gli esponenti dei ceti medi i più soddisfatti della
propria condizione (più che altro perché lo Stato sociale lo conoscevano più
sotto forma di fornitore di servizi molto apprezzati che di vincolo
all'autonomia e all'iniziativa).
Ma il divario più grande ora era
quello che separava le generazioni. Per tutti coloro nati dopo il 1945,10 Stato
sociale e le sue istituzioni non erano la soluzione a dilemmi precedenti:
rappresentavano semplicemente le condizioni normali dell'esistenza (ed erano
piuttosto noiose). I baby boomers,
che a metà degli anni Sessanta facevano il loro ingresso all'università, non
avevano conosciuto altro che un mondo di crescenti opportunità, generosi
servizi sanitari e scolastici, ottimistiche prospettive di ascesa sociale e
(forse soprattutto) un indefinibile ma onnipresente senso di sicurezza. Gli
obiettivi della precedente generazione di riformatori non interessavano più ai
loro eredi, anzi venivano percepiti sempre di più come restrizioni alla libertà
e all'espressione individuale.
L'ironico lascito degli anni Sessanta
La mia
generazione degli anni Sessanta, con tutti i suoi grandi ideali, ha distrutto
il liberalismo per via dei suoi eccessi.
Camille
Paglia
Un aspetto peculiare dell'epoca
era che la frattura generazionale correva trasversalmente alle classi sociali,
oltre che alle esperienze nazionali. L'espressione retorica della rivolta giovanile era ovviamente confinata a una
ristrettissima minoranza: anche negli Stati Uniti di allora la maggior parte
dei giovani non frequentava l'università e le proteste nei college non
rappresentavano necessariamente la gioventù americana nel suo complesso. Ma i
sintomi più generali della dissidenza generazionale — musica, abbigliamento,
linguaggio — erano insolitamente diffusi per effetto della televisione, delle
radio a transistor e dell'internazionalizzazione della cultura popolare. Alla
fine degli anni Sessanta, il divario culturale che separava i giovani dai loro
genitori era forse maggiore che in qualunque altro momento storico dall'inizio
dell'Ottocento ad allora.
Questa rottura della continuità
evocava un altro mutamento tellurico. Per la precedente generazione di politici
ed elettori di sinistra, il rapporto fra «lavoratori» e socialismo — fra
«poveri» e Stato sociale — era lampante. La «sinistra» era associata da tempo
(e vi dipendeva in gran parte) al proletariato industriale urbano. Al di là del
pragmatico apprezzamento dei ceti medi, le riforme del New Deal, le
social-democrazie scandinave e il welfare state britannico avevano fatto leva
sul sostegno presunto di una massa di operai e dei loro alleati rurali.
Ma nel corso degli anni Cinquanta
questo proletariato operaio si stava frammentando e riducendo. Lo sfiancante
lavoro manuale nelle fabbriche tradizionali, nelle miniere e nell'industria dei
trasporti stava cedendo il passo all'automatizzazione, alla crescita
dell'industria dei servizi e a una forza lavoro sempre più femminilizzata.
Perfino in Svezia i social-democratici non potevano più sperare di vincere le
elezioni semplicemente assicurandosi la maggioranza del voto operaio
tradizionale. La vecchia sinistra, con le sue radici nelle comunità proletarie
e nelle organizzazioni sindacali, poteva contare sul collettivismo istintivo e
sulla disciplina (e acquiescenza) comunitaria di una forza lavoro industriale
compatta e determinata. Ma la sua incidenza percentuale sul totale della
popolazione stava diminuendo.
La nuova sinistra, come cominciava a chiamarsi in quegli anni, era
qualcosa di molto diverso. Per la nuova generazione, il «cambiamento» non
doveva arrivare attraverso una disciplinata azione di massa definita e guidata
da portavoce autorizzati. Il cambiamento stesso si era spostato, apparentemente,
dall'Occidente industriale ai paesi in via di sviluppo, al «Terzo Mondo». Tanto
il comunismo quanto il capitalismo erano accusati di stagnazione e
«repressione». L'iniziativa dell'innovazione e dell'azione radicale era ora
affidata a contadini di paesi remoti o a una nuova gamma di categorie rivoluzionarie.
I maschi proletari venivano soppiantati da «neri», «studenti», «donne» e (un
po' più tardi) «omosessuali».
Dal momento che nessuna di queste
categorie, in patria o all'estero, godeva di rappresentazione distinta nelle
istituzioni delle società del benessere, la nuova sinistra si presentava, più o
meno consapevolmente, come un movimento che si opponeva non semplicemente alle
ingiustizie dell'ordine capitalistico, ma principalmente alla «tolleranza
repressiva» delle sue forme più avanzate, a quei sovrintendenti benevoli che
avevano liberalizzato le vecchie restrizioni o che avevano garantito a tutti un
miglioramento della propria condizione.
Soprattutto, la nuova sinistra (e
i suoi elettori, in stragrande maggioranza giovani) rifiutava il collettivismo
tramandato dai suoi predecessori. Per la precedente generazione di riformisti,
da Washington a Stoccolma, era lampante che la «giustizia», l'«uguaglianza di
opportunità» o la «sicurezza economica» fossero obiettivi condivisi che
potevano essere raggiunti solo attraverso l'azione comune. La regolamentazione
e il controllo dall'alto, eccessivamente intrusivi, avevano i loro limiti, ma
questo era il prezzo della giustizia sociale, ed era un prezzo che valeva la
pena pagare.
La generazione più giovane vedeva
le cose in nodo molto diverso. La giustizia sociale non interessava più i
radicali. L'elemento unificante della generazione degli anni Sessanta non era
l'interesse di tutti, ma i bisogni e i diritti di ognuno. L'«individualismo»,
l'affermazione del diritto di ogni persona alla prevaricazione politica: le
manifestazioni contro la guerra del Vietnam e le rivolte razziali degli anni
Sessanta furono importanti. Ma erano scollegate dal sentimento di uno scopo
collettivo, concepite più che altro come un prolungamento della rabbia e
dell'espressione dell'individuo.
Questi paradossi della
meritocrazia (la generazione degli anni Sessanta era prima di tutto il
brillante prodotto collaterale di quegli stessi Stati sociali contro cui
riversava il suo giovanile sdegno) riflettevano una perdita di fiducia. Le
vecchie classi patrizie avevano ceduto il passo a una generazione di ingegneri
sociali animati da buone intenzioni, ma né le une né gli altri avevano previsto
la radicale disaffezione dei propri figli. Il consenso implicito dei decenni
del dopoguerra ormai era andato in frantumi e cominciava a emergere un consenso
nuovo, e decisamente innaturale, incentrato sul primato dell'interesse individuale.
I giovani radicali non avrebbero mai descritto in questo modo gli scopi che si
proponevano, ma era principalmente la distinzione fra encomiabili libertà
private e indisponenti limitazioni pubbliche ad accendere le loro emozioni. E
per ironia della sorte, anche la nuova destra che stava emergendo basava la
propria identità su questa distinzione.
La rivincita degli austriaci
Dobbiamo
renderci conto del fatto che la preservazione della libertà individuale è
incompatibile con la piena soddisfazione dei nostri punti di vista sulla
giustizia distributiva.
Friedrich
von Hayek
I conservatori — per non parlare
della destra ideologica — erano una minoranza nei decenni successivi alla
seconda guerra mondiale. La vecchia destra dell'anteguerra era stata
doppiamente screditata. Nel mondo anglofono, i conservatori non erano riusciti a prevedere, comprendere o
correggere gli enormi disastri provocati dalla Grande Depressione. Allo scoppio
della guerra, solo lo zoccolo duro del vecchio Partito Conservatore inglese e i
repubblicani sciovinisti e intransigenti contrastavano ancora gli sforzi dei
new dealers di Washington e dei governanti semikeynesiani di Londra per offrire
risposte innovative alla crisi.
Nell'Europa continentale, le
élites conservatrici pagarono il prezzo della loro accondiscendenza (se non
peggio) verso le potenze occupanti. Con la sconfitta dell'Asse, furono spazzate
via. Nell'Europa orientale i vecchi partiti di centro e di destra furono
brutalmente annientati dal nuovo potere comunista, ma anche nell'Europa
occidentale i reazionari tradizionali dovettero levare il disturbo e lasciare
il posto a una nuova generazione di moderati.
Anche sul fronte intellettuale il
conservatorismo non se la passava molto bene. Per ogni Michael Oakeshott
trincerato nel suo rigoroso disprezzo per il pensiero moderno bien-pensant c'erano cento intellettuali
progressisti allineati al consenso postbellico. Nessuno si curava granché dei
liberisti o dei fautori dello «Stato minimo»; e se la maggioranza dei vecchi
liberali provava ancora un'istintiva avversione verso l'ingegneria sociale,
anche su quel versante si tendeva a favorire, se non altro per ragioni
prudenziali, un livello di attivismo, statale molto accentuato. Il centro
gravitazionale del dibattito politico, negli anni successivi al 1945, non era
collocato fra la destra e la sinistra, ma dentro la sinistra, da una parte i
comunisti e i loro simpatizzanti, dall'altra la corrente liberal-socialdemocratica
(predominante).
La cosa più vicina a un
conservatorismo teorico serio, in quegli anni di consenso, veniva da uomini
come Raymond Aron in Francia, Isaiah Berlin in Gran Bretagna e (anche se in
modo abbastanza diverso) Sydney Hook negli Stati Uniti. Tutti e tre questi
pensatori avrebbero rifiutato l'etichetta di «conservatori»: erano liberali
classici, anticomunisti per ragioni etiche oltre che politiche, e intrisi di
quella diffidenza questo senso, ma con conseguenze disastrose. Sei anni dopo
Edward Heath, futuro premier conservatore in Gran Bretagna, aveva saggiato il
terreno con proposte che andavano nel senso di una maggiore liberalizzazione
dei mercati e una riduzione del ruolo dello Stato, ma fu violentemente e
ingiustamente castigato per il suo «anacronistico» ricorso a teorie economiche
defunte, e dovette battere frettolosamente in ritirata.
Come la scivolata di Heath sembrò
indicare, molti erano infastiditi dal potere eccessivo dei sindacati o
dall'insensibilità della burocrazia, ma pochi erano disposti a sostenere una
virata a centottanta gradi. Il consenso socialdemocratico e le sue incarnazioni
istituzionali potevano essere tediosi e perfino paternalistici, però
funzionavano e la gente lo sapeva. Fintanto che la larga maggioranza era
convinta che la «rivoluzione keynesiana» avesse prodotto cambiamenti
irreversibili, i conservatori si sarebbero trovati in difficoltà. Potevano
vincere battaglie culturali sui «valori» e sulla «morale», ma a meno di
riuscire a portare il dibattito pubblico su un terreno radicalmente diverso
erano destinati a perdere la guerra economica e politica.
La vittoria del conservatorismo e
la profonda trasformazione che essa ha prodotto nel corso dei trent'anni successivi
non erano inevitabili, tutt'altro: c'è voluta una rivoluzione intellettuale.
Nel giro di poco più di un decennio, il «paradigma» dominante del dibattito
pubblico si è spostato dall'entusiasmo per l'intervento pubblico e per i beni
collettivi alla visione del mondo riassunta alla perfezione nella famigerata
facezia di Margaret Thatcher: «Non esiste una cosa chiamata società, esistono
solo gli individui e le famiglie». Negli Stati Uniti, quasi nello stesso
momento Ronald Reagan si conquistava una popolarità duratura proclamando che in
America era tornato il «mattino». Il governo non era più la soluzione, era il
problema.
Se il governo è il problema e la
società non esiste, allora il ruolo dello Stato si riduce ancora una volta a
quello di facilitatore. Il compito del politico è di accertare che cosa sia
meglio per l'individuo e poi offrirgli le condizioni per ricercare questo
meglio con un livello di interferenza minimo. Il contrasto con il consenso
keynesiano non poteva essere più stridente: Keynes stesso era arrivato a
convincersi che il capitalismo non sarebbe sopravvissuto se si fosse limitato a
fornire ai ricchi i mezzi per arricchirsi ancora di più.
Era proprio questa concezione
così ottusa del funzionamento di un'economia di mercato che aveva portato al
disastro, secondo lui. E allora perché oggi siamo tornati ad abbracciare questa
concezione confusa, riducendo il dibattito pubblico a una discussione condotta
in termini strettamente economici? Per riuscire a spodestare con tanta facilità
e apparente unanimità il consenso keynesiano, le contro-argomentazioni dovevano
essere molto efficaci. Lo erano, e non nascevano dal nulla.
Noi siamo gli eredi involontari
di un dibattito di cui la maggior parte della gente è completamente all'oscuro.
Se ci chiedessero che cosa ci sia dietro il nuovo (vecchio) pensiero economico,
forse risponderemmo che è opera di una serie di economisti angloamericani riconducibili
in larghissima maggioranza all'Università di Chicago. Ma se ci chiedessero da
dove i Chicago boys abbiano preso le
loro idee, scopriremmo che l'influenza più grande è stata esercitata da un
gruppetto di stranieri, tutti immigrati dall'Europa centrale: Ludwig von Mises,
Friedrich von Hayek, Joseph Schumpeter, Karl Popper e Peter Drucker.
Mises e Hayek sono stati gli
eminenti precursori della «scuola di Chicago». Schumpeter è noto soprattutto
per la sua entusiasta descrizione dei poteri «creativi e distruttivi» del
capitalismo, Popper per la sua difesa della «società aperta» e le sue opere sul
totalitarismo. Quanto a Drucker, i suoi saggi sul management hanno esercitato
un'enorme influenza sulla teoria e la pratica dell'attività imprenditoriale nei
prosperi decenni del boom economico del dopoguerra. Tre di questi studiosi
erano nati a Vienna, un quarto (Mises) nella Leopoli austriaca e oggi ucraina
(Lemberg in tedesco e L’viv ín ucraino), il quinto (Schumpeter) in Moravia,
qualche decina dí chilometri più a norddella capitale dell'impero austroungarico.
Tutti e cinque erano rimasti profondamente scossi dalla catastrofe che aveva
colpito il loro paese natale tra le due guerre.
Dopo il cataclisma della prima
guerra mondiale e un breve esperimento di socialismo municipale a Vienna (dove
Hayek e Schumpeter avevano preso parte al dibattito sulla socializzazione
economica), l'Austria era stata travolta da un golpe reazionario nel 1934 e
poi, quattro anni dopo, dall'invasione e dall'occupazione nazista. Come
moltissimi altri, i giovani economisti austriaci erano stati costretti da
questi eventi a prendere la via dell'esilio, e tutti Hayek in particolare
—avrebbero impostato i propri scritti e i propri insegnamenti all'ombra di
quella che era diventata la domanda centrale della loro vita: perché l'Austria
liberale era crollata aprendo la strada al fascismo?
La loro spiegazione fu che i tentativi
infruttuosi della sinistra (marxista) di introdurre nell'Austria post Grande
Guerra pianificazione pubblica, servizi controllati dagli enti locali e
attività economica collettivizzata non solo non erano approdati a niente, ma
avevano scatenato una reazione contraria. Popper, per citare il caso più noto,
sosteneva che l'indecisione dei socialisti della sua epoca, paralizzati dalla
loro fede nelle «leggi della storia», non poteva reggere il confronto con le
energie radicali dei fascisti, che agivano. Il problema era che i socialisti
avevano troppa fede nella logica della storia e nella ragione degli uomini. I
fascisti, a cui non importava né dell'una né dell'altra cosa, erano nella
posizione ideale per spodestarli.
Agli occhi di Hayek e dei suoi
contemporanei, la tragedia europea era stata originata dall'inadeguatezza della
sinistra: prima perché incapace di raggiungere i suoi obiettivi, e poi perché
incapace di reggere la sfida lanciatale dalla destra. Ognuno di loro, anche se
per vie diverse, arrivò alla stessa conclusione: il modo migliore (anzi,
l'unico) per difendere il liberalismo e una società aperta era tenere lo Stato
fuori dalla vita economica. Tenendo l'autorità a distanza di sicurezza,
impedendo ai politici — non importa se animati da buone intenzioni — di
pianificare, manipolare o dirigere gli affari dei loro concittadini, si sarebbe
riusciti a tenere a freno gli estremisti, sia di destra che di sinistra.
Con lo stesso dilemma (capire
cos'era successo fra le due guerre e impedire che tornasse a ripetersi), come
abbiamo visto, si trovò alle prese Keynes. L'economista inglese si poneva
sostanzialmente lo stesso interrogativo di Hayek e dei suoi colleghi austriaci.
Ma per Keynes era diventato evidente che la difesa migliore dall'estremismo
politico e dal collasso economico consisteva nell'incrementare il ruolo dello
Stato, incluso, ma non soltanto, l'intervento economico in funzione
anticiclica.
Hayek proponeva il contrario. Nel
suo celebre saggio del 1944, La via della
schiavitù, scriveva:
Nessuna descrizione in termini generali può dare un'idea adeguata della
somiglianza di gran parte della letteratura politica in Inghilterra con le
opere che distrussero in Germania la fede nella civiltà occidentale e crearono
l'ambiente ideale in cui il nazismo ha potuto avere successo.
In altre parole, Hayek, che ormai
viveva in Inghilterra e insegnava alla London School of Economics, prefigurava
esplicitamente (basandosi sul precedente austriaco) un esito fascista qualora
il Labour, con i suoi obiettivi proclamati in tema di welfare e servizi
sociali, avesse conquistato il potere in Gran Bretagna. Come sappiamo, il
Labour vinse, ma la sua vittoria, lungi dall'aprire la strada a una riedizione
del fascismo, contribuì a stabilizzare la Gran Bretagna del dopoguerra.
Negli anni successivi al 1945,
gli osservatori più accorti valutarono che gli austriaci avevano fatto un
semplice errore categoriale. Come tanti altri profughi, avevano dato per scontato
che le condizioni che avevano determinato il tracollo del capitalismo liberale
nell’Europa fra le due guerre fossero riproducibili costantemente e
all'infinito. E dunque, agli occhi di Hayek, la Svezia, per via dei successi
politici delle maggioranze di governo socialdemocratiche e del loro ambizioso
programma legislativo, era un altro paese destinato a seguire la strada che
aveva precipitato la Germania nell'abisso.
Fraintendendo gli insegnamenti
del nazismo (o applicando assiduamente un gruppo ben selezionato di essi), gli
intellettuali profughi dell'Europa centrale finirono per auto-emarginarsi nel
prospero Occidente del dopoguerra. Per citare Anthony Crosland, che nel 1956,
all'apice della fiducia nella socialdemocrazia, scriveva: «Nessuno ormai, di
qualsiasi estrazione sociale, crede nella tesi di Hayek, un tempo molto
popolare, che sostiene che qualunque interferenza con il funzionamento del
mercato ci spinge immancabilmente lungo la china scivolosa che conduce al
totalitarismo». Gli intellettuali profughi (e specialmente gli economisti fra
loro) vivevano in una condizione di risentimento endemico verso i loro ospiti
poco comprensivi. Qualunque teoria sociale non individualistica, qualunque
argomentazione fondata su categorie collettive, su obiettivi comuni o sul
concetto di bene sociale, giustizia e così via, sollevava in loro reminiscenze
inquietanti di cataclismi passati. Ma anche in Austria e in Germania le
circostanze erano cambiate enormemente: i loro ricordi avevano scarsa utilità
dal punto di vista pratico. Uomini come Hayek o Mises sembravano condannati
alla marginalità professionale e culturale. Solo quando i sistemi di welfare di
cui tanto diligentemente avevano predetto il fallimento cominciarono a entrare
in crisi, tornarono a trovare un pubblico attento alle loro teorie: una
tassazione elevata inibisce la crescita e l'efficienza, la regolamentazione pubblica
soffoca l'iniziativa e lo spirito imprenditoriale, meno lo Stato interviene più
la società è sana, e via discorrendo.
Dunque, quando ripetiamo i luoghi
comuni convenzionali sul libero mercato e le libertà occidentali, in realtà
stiamo riecheggiando, come la luce di una stella che si sta spegnendo, un
dibattito ispirato e guidato settant'anni fa da uomini nati quasi tutti verso
la fine dell'Ottocento. Certo, il fatto di essere oggi incoraggiati a pensare
solo in termini economici non è associato normalmente a queste diatribe ed
esperienze politiche remote. Quasi nessuno degli studenti delle facoltà di
economia ha mai sentito parlare di alcuni di questi esotici pensatori stranieri,
e nessuno li incoraggia a farlo. Ma ignorare le origini austriache del loro (e
del nostro) modo di pensare è come parlare una lingua che non comprendiamo fino
in fondo.
Vale la pena di sottolineare che
Hayek non può essere considerato responsabile delle semplificazioni ideologiche
dei suoi seguaci. Come Keynes, l'economista austriaco considerava l'economia
una scienza interpretativa, imprevedibile e imprecisa. Hayek considerava
sbagliata la pianificazione perché doveva necessariamente basarsi su calcoli e
previsioni fondamentalmente privi di senso e quindi irrazionali. La
pianificazione non era un errore
morale, e non era nemmeno indesiderabile in linea di principio. Era
semplicemente impraticabile (e se fosse stato coerente, Hayek avrebbe ammesso
che più o meno lo stesso si poteva dire per le teorie «scientifiche» sul
funzionamento del mercato).
La differenza, naturalmente, era
che la pianificazione esigeva costrizione per funzionare come si deve, e questo
portava direttamente alla dittatura, il vero bersaglio di Hayek. Il mercato
efficiente può essere un mito, ma almeno non comporta una coercizione
dall'alto. Nondimeno, il rifiuto dogmatico da parte di Hayek di qualunque
controllo centrale si prestava all'accusa di... dogmatismo. Fu Michael Oakeshott
a osservare che anche l'«hayekísmo» era una dottrina: «Un piano per Opporsi a
ogni forma di pianificazione forse è meglio del suo contrario, ma appartiene
allo stesso tipo di politica».
Negli Stati Uniti, tra una nuova
generazione di spavaldi econometristi (una sottodisciplina sulla cui pretesa
scientificità sia Hayek che Keynes avrebbero avuto molto da ridire), la
convinzione che il socialismo democratico sia un obiettivo irraggiungibile e
dalle conseguenze perverse è diventata qualcosa di simile a una teologia. Un
credo che si è allacciato alla condanna popolare di qualunque sforzo per
accrescere il ruolo dello Stato, o del settore pubblico, nella vita quotidiana
dei cittadini americani.
In Gran Bretagna questa particolare
estensione della lezione austriaca non è riuscita a guadagnarsi altrettanto credito.
Le ragioni sono evidenti: la popolarità dell'assistenza sanitaria gratuita o
dell'istruzione universitaria sovvenzionata, per citare gli esempi più noti. Ma
durante l'era Thatcher-Blair-Brown la santificazione di banchieri, broker,
agenti di Borsa, nuovi ricchi e chiunque abbia accesso a ingenti somme di
denaro ha prodotto un'ammirazione incondizionata per un'«industria dei servizi
finanziari» regolamentata il meno possibile, e conseguentemente una fede nella
naturale bonarietà del mercato globale dei prodotti finanziari.
Che cosa avrebbe pensato Hayek (o
perfino Schumpeter, il profeta della distruzione capitalistica) di questa
volgare venerazione del denaro e di chi
lo possiede è un'altra questione. Ma è indiscutibile che le tesi usate per
giustificare l'enorme e crescente divario di ricchezza nella Gran Bretagna
moderna derivano direttamente dall'apologetica della deregolamentazione,
dell'interferenza minima e delle virtù del settore privato, a cui hanno dato un
contributo fondamentale i testi economici della scuola austriaca.
Il caso britannico, ancora di più
di quello americano, mostra le conseguenze pratiche di questa retro-trasformazione
del linguaggio economico moderno (anche se la triste storia degli entusiasmi
islandesi per le contrade selvagge del bandit
banking è ancora più illuminante). Partendo da una manciata di brillanti
intellettuali fuggiti dall'Europa fra le due guerre, passiamo attraverso due
generazioni di professori di economia dediti a riconfigurare la loro
disciplina... fino ad arrivare agli scandali che negli ultimi anni hanno visto
protagonisti banche, mutui, finanza privata e hedge fund.
Dietro ogni banchiere e agente di
Borsa cinico (o semplicemente incompetente) c'è un economista che dalla sua
posizione di autorità intellettuale incontestata garantisce a loro (e a noi)
che le azioni da essi compiute sono utili per la collettività e che in ogni
caso non devono essere sottoposte a supervisione collettiva. Dietro a questo economista
e ai suoi lettori creduloni ci sono, a loro volta, tutti coloro che hanno preso
parte a dibattiti conclusi da tempo. Lo stato esangue del nostro linguaggio
pubblico corrente, la nostra incapacità di concepire qualcosa che vada oltre le
categorie e i clichés che conformano e distorcono le decisioni della politica,
tanto a Washington quanto a Londra, rendono dunque omaggio a una delle maggiori
intuizioni di Keynes:
Gli uomini della pratica, che si credono affatto liberi da ogni
influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto.
Pazzi al potere, i quali odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da
qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro. Sono sicuro che il
potere degli interessi costituiti è assai esagerato, in confronto con
l'affermazione progressiva delle idee.