lunedì 23 luglio 2018

La Classe Inadeguata


STORIA E CARATTERISTICHE DELLA BORGHESIA ITALIANA DAL DOPOGUERRA AD OGGI [1]

di
Vladimiro Giacché (PDF)
«La Fiat potrebbe riuscire benissimo in qualunque regime econo­mico, liberista o vincolista moderato, perché in Italia l'industria meccanica in generale e quella automobilistica ín particolare, se pure hanno deficienza di materie, possono contare su un mercato basso della manodopera più che altrove e per decenni».
(V. Valletta, testimonianza resa alla Commissione economica del ministero per la Costituente, 6 aprile 1946)
Una volta che il sistema economico avesse manifestato la pos­sibilità di conseguire in breve tempo il traguardo della piena occu­pazione, tutta l'arretratezza della nostra struttura produttiva, il cui peso era sempre stato scaricato sui salariati proprio in conseguen­za della disoccupazione, sarebbe venuta alla luce e avrebbe prete­so soluzioni ben diverse dalla semplice copertura costituita dal basso livello salariale».
(Napoleoni, Nota sulla congiuntura economica italiana, 1964; riprodotto in L'economia italiana: 1945-1970, a cura di A. Gra­ziani, Il Mulino, Bologna 1972, p. 302)

1. Dalla Liberazione alla vittoria del «Quarto partito» (1945-1947)

Il dopoguerra sembra aprirsi all'insegna di una forte discontinuità. A cominciare da Torino, la città simbolo del capitalismo industriale italiano. Nell'aprile 1945 gli operai assumono il controllo della Fiat, dopo averne impedito in armi la distruzione da parte dell'esercito nazista in fuga. Il 25 aprile un decreto del Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia isti­tuisce i Consigli di gestione delle fabbriche. Il 28 dello stesso mese la radio annuncia l'apertura di un procedimento di epurazione nei confronti di Agnelli e Valletta. Ai primi di maggio del 1945 si insediano alla Fiat quattro commissari nominati dal Comitato di Liberazione Nazionale, tra i quali il comunista Santhià. Sono essi a gestire la Fiat per qualche mese, affiancati da un Comitato di gestione espresso dagli operai. Si tratta però di una discon­tinuità solo apparente: ben presto, infatti, la procedura di epurazione viene chiusa su pressione delle autorità alleate, e Valletta — richiamato alla Fiat —riprende nelle sue mani tutte le leve del potere aziendale.

La continuità economica tra l'Italia fascista e l'Italia del dopoguerra è ben espressa da questo episodio. Dopo una breve parentesi si riafferma in­fatti una chiara continuità tanto negli assetti del potere economico, quanto nella titolarità di tale potere da parte dei gruppi dominanti della borghesia italiana. Basta considerare quanto scriveva nel 1939 Ettore Conti, presiden­te della Confindustria e della Banca Commerciale: «in questo periodo... si è venuta formando un'oligarchia finanziaria che ricorda, in campo indu­striale, l'antico feudalesimo. La produzione è in gran parte controllata da pochi gruppi, a ognuno dei quali presiede un uomo. Agnelli, Cini, Volpi, Pirelli, Donegani, Falck, e pochissimi altri dominano completamente i vari rami dell'industria». Con poche eccezioni, si tratta degli stessi nomi che ritroveremo nelle cronache del dopoguerra. Le 30 grandi società anonime che nel 1938 possedevano un terzo del capitale azionario italiano (Fiat, Pirelli, Olivetti, Montecatini...) sono le stesse che costituiranno l'oligopolio industriale del dopoguerra2. Di fatto, come è stato osservato, «la struttura del potere finanziario, sia nel settore industriale sia in quello dell'interme­diazione, era uscita intatta, se non rafforzata, dalla guerra»3.

Del resto, l'Italia rientra assai presto nel consesso dei principali paesi capitalistici, ormai sotto l'egemonia statunitense: il 2 ottobre 1946 aderisce agli accordi di Bretton Woods, l'anno successivo entra nel Fondo Monetario Internazionale e nella Banca Mondiale. Ma íl 1947 è decisivo soprattutto per il viaggio negli Usa di De Gasperi, l'estromissione dei comunisti e dei socia­listi dal governo e la politica deflazionistica di Einaudi: quest'ultima, ope­rando una violenta stretta creditizia, determina la crisi di molte imprese (soprattutto piccole), un aumento della disoccupazione, e quindi uno spo­stamento dei rapporti di forza a favore del padronato che risulterà decisivo per decretare la fine dell'esperienza dei Consigli di gestione4. Abbiamo così, ad un tempo, l'innesco di un significativo processo di concentrazione industriale — favorito anche dalla selettività del credito a medio e lungo termine5 e una riconferma del controllo padronale sui luoghi di lavoro.

E la vittoria per il «quarto partito», il «partito» della borghesia: questo partito, in verità il primo per importanza, ha già trovato nella Dc il suo nuovo rappresentante istituzionale (tanto più efficace in quanto formalmente «interclassista»), e troverà nel trionfo elettorale del 1948 il sigillo del proprio riconfermato potere.
2. L'Italia del «miracolo» (1948-1962)

Il 18 aprile del 1948, al termine di una campagna condotta con argo­menti terroristici, che vede mobilitata direttamente la Chiesa cattolica, il Fronte Popolare formato da comunisti e socialisti conosce una bruciante sconfitta, mentre la Dc conquista la maggioranza assoluta. Le conseguenze sui rapporti di lavoro non si fanno attendere.

Alla Fíat, Valletta interpreta il risultato elettorale come il segnale, a lun­go atteso, per ripristinare un ferreo controllo sulla forza-lavoro: «si può affermare chiaramente che il risultato delle elezioni del 18 aprile — afferma in una riunione del Comitato direttivo Fiat — ha avuto un significato princi­pale, quello che da parte di tutti c'è un desiderio di troncare con gli indugi, i rinvii, le discussioni e, attraverso ordine e disciplina, giungere a concrete, positive realizzazioni»6. La posta in gioco non è soltanto politica (colpire la forte presenza comunista e socialista in fabbrica): si tratta di mantenere i salari quanto più possibile bassi e al tempo stesso procedere, senza più doversi confrontare con la resistenza da parte dei lavoratori (ed in partico­lare degli operai specializzati), alla «razionalizzazione» dei metodi produtti­vi sotto l'egida del fordismo, che di fatto solo nel secondo dopoguerra avrebbe definitivamente trionfato alla Fiat. Detto fatto: dopo pochi mesi, Valletta mette al bando i Consigli di gestione, dando inoltre il via a provve­dimenti discriminatori nei confronti di militanti comunisti e socialisti. A partire dal 1949 saranno diverse migliaia i licenziamenti per «motivi disciplinari», i trasferimenti in un apposito «reparto confino», l'Officina Sussi­diaria Ricambi (ribattezzata Officina Stella Rossa), come pure i casi di so­spensione dei passaggi di categoria e di adibizione a mansioni più faticose e dequalificanti7. Ed infine vincerà Valletta: alle elezioni per le Commissioni Interne del 29 marzo 1955 la Fiom-Cgil crollerà dal 63,2% al 36,7% dei voti, perdendo metà dei suoi delegati.

Sarebbe però sbagliato vedere negli anni Cinquanta soltanto una serie ininterrotta di sconfitte per il movimento operaio. Perché se è vero che la controffensiva della borghesia mise a segno importanti risultati, favorita anche dalla rottura dell'unità sindacale (per cui fornì il pretesto la mobilita­zione successiva all'attentato a Togliatti del 14 luglio 1948, ma che era già stata preparata da tempo), bisogna però ricordare che nel 1949-50 la resi­stenza operaia riuscì comunque ad imporre nel complesso il rispetto del blocco dei licenziamenti. Questo ebbe due conseguenze: da un lato, «il capi­talismo italiano fu costretto a ricercare una nuova via, quella dell'ammoder­namento degli impianti e del rinnovo delle tecniche produttive, di un più rapido progresso tecnologico per ottenere dalla massa degli operai occupa­ti una produzione sempre maggiore»; dall'altro, «le lotte operaie contro i licenziamenti e per la difesa dell'industria, se resero più difficili le lotte per le rivalutazioni salariali e rinviarono quelle per un aumento dei salari reali, permisero tuttavia di mantenere una forte unità tra operai occupati e disoc­cupati» (in altri termini, «i gruppi dominanti non riuscirono a trasformare la massa dei disoccupati in una forza manovrabile politicamente contro gli operai occupati»)8.

Inoltre, il «Piano del lavoro», lanciato da Di Vittorio nel 2° congresso della Cgil (ottobre 1949), poneva all'ordine del giorno la necessità di una politica per l'occupazione basata su forti investimenti in opere pubbliche, un piano nazionale per l'edilizia popolare, nazionalizzazione delle aziende elettriche, bonifiche e trasformazioni della proprietà fondiaria. Il successo politico del Piano fu notevolissimo: esso pose il governo sulla difensiva e bloccò i progetti di liquidazione dell'Iri. La stessa creazione della Cassa per il Mezzogiorno fu una risposta al successo del «Piano del lavoro»9. Più in generale, si affermò l'idea della necessità di un intervento pubblico per il rilancio dell'economia.

Non si trattava di una novità: è ben noto, infatti, che l'industrializzazio­ne stessa del nostro Paese fu fortemente sostenuta da investimenti pubblici sin dai suoi albori. Ma forse si può dire di più: lo Stato ha spesso, sin dal tardo Ottocento, sostituito la borghesia italiana, tendenzialmente più dedi­ta alla rendita (ad esempio fondiaria) che agli investimenti industriali; tanto che si è potuto parlare di un'«industrializzazione senza imprenditori» (F. Amatori, P.A. Toninelli); di fatto, come è stato detto, «la presenza dell'in­tervento pubblico nell'economia è da noi all'origine stessa della formazione dell'industria rnoderna»10. In particolare, la prima guerra mondiale rappre­sentò il vero e proprio volano per la costruzione della grande industria in Italia, grazie al trasferimento forzoso di immensi flussi di capitali dal consu­mo privato agli investimenti industriali che allora ebbe luogo. In epoca fa­scista fu ancora lo Stato a soccorrere le grandi imprese in crisi, attraverso la creazione dell'Iri e con il salvataggio del sistema bancario su cui gravavano le immobilizzazioni dei crediti fatti alle grandi imprese e consistenti pac­chetti azionari delle imprese stesse; cosicché «nelle mani dell'Iri vennero a trovarsi quei settori dí base (siderurgico, cantieristico, meccanico, armato­riale) che prima si erano sviluppati col sostegno precipuo dello Stato»11.

Nel dopoguerra l'intervento pubblico si conferma un sostegno essenzia­le del capitalismo privato, ed anzi accresce il proprio ruolo di sostegno dei profitti secondo molteplici direttrici, che possono essere così schematizzate:
1)    Misure di sostegno della produzione e dell'esportazione (crediti age­volati all'esportazione, sgravi fiscali e rimborsi dí imposta).
2)    Politica fiscale sostanzialmente regressiva (in contrasto con la Costi­tuzione) e imperniata sulle imposte indirette12; la stessa imposta sulle so­cietà, introdotta nel 1954, è congegnata in modo da favorire i grandi gruppi.
3)    Cospicui investimenti in infrastrutture e di sostegno al reddito nel Mezzogiorno (Cassa del Mezzogiorno). Questi investimenti sono insuffi­cienti a far decollare uno sviluppo autonomo del Meridione, che di fatto finisce per svolgere il duplice ruolo di fornitore di manodopera alle grandi imprese del Nord (rappresentando un serbatoio di forza-lavoro che contri­buisce a tenere bassi i salari) e di domanda per i manufatti prodotti dalle industrie del Nord.
4)    Proprietà statale di mezzi di produzione in settori strategici: creazio­ne dell'Eni, che consente di fornire al sistema produttivo le risorse energe­tiche di cui ha bisogno, anche in contrasto con i grandi monopoli interna­zionali (la qual cosa nel 1962 costerà la vita a Mattei); sviluppo della side­rurgia pubblica (Iri, «Piano Sinigaglia»).
5)    Forti investimenti diretti dello Stato e delle imprese statali, che giun­gono a rappresentare un terzo degli investimenti industriali totali. Fallisco­no, invece — et pour cause    tentativi di coordinare l'intervento diretto dello Stato nell'economia introducendo elementi di programmazione econo­mica: Piano Vanoni (1955), costituzione del ministero per le Partecipazioni Statali (1956). Il che rende assai impropria la definizione dello Stato come «imprenditore globale» cara a Pasquale Saraceno.
6)    Progressiva apertura agli scambi internazionali: dall'ingresso nell'or­bita economica statunitense con il Piano Marshall (i cui aiuti andarono in misura prevalente a Fiat, Pirelli, Finsider, Edison)13, sino alla fondazione, nel 1957, del Mercato Comune Europeo; il tutto viene effettuato senza smantellare del tutto le barriere all'importazione di prodotti stranieri, quin­di continuando a seguire la politica di «fabbricare fabbricanti».

Sulla base di queste premesse si può affrontare con qualche serietà il tema del grande sviluppo economico che il capitalismo italiano conobbe a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta e sino al 1962. Come è noto, si tratta di un argomento che viene spesso banalizzato parlando di «miraco­lo economico». Ma i miracoli non esistono: né in economia, né altrove. Lo sviluppo economico italiano degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta non fa eccezione. Esso coincise in verità con un periodo di ricostruzione e rappresentò più propriamente una «ripresa economica straordinariamente rapida» che succedette alla immane distruzione di capitali che aveva avuto luogo con la seconda guerra mondiale14.

In verità, gli elevatissimi tassi di sviluppo che effettivamente si ebbero in quegli anni (un tasso di incremento del prodotto interno lordo del 5% me­dio dal 1950 al 1958, che crebbe al 6-7% nel 1959-1961)15 furono resi pos­sibili da una serie di condizioni poco «miracolose» e molto concrete:
1) una forte ripresa degli scambi internazionali;
2) prezzi bassi delle materie prime, a cominciare da quelle energetiche;
3) un forte intervento pubblico in economia;
4) oneri fiscali inferiori a quelli dei paesi concorrenti (grazie anche all'e­vasione fiscale);
5) salari bassi.

L'ultimo aspetto è quello fondamentale: in effetti, se nel periodo consi­derato i principali indici economici italiani si avvicinarono notevolmente a quelli dei paesi capitalistici più avanzati, ciò avvenne in misura molto mino­re per quanto riguarda i salari. L'accrescimento dei salari risultò assai infe­riore a quello della produttività: in concreto, a fronte dí un raddoppio della produttività del lavoro, si ebbe un aumento dei salari pari appena al 30%; tanto che si poté a buon diritto affermare che «la caratteristica fondamen­tale dell'attuale situazione economica italiana è quella dell' eccezionalmente basso andamento dei redditi da lavoro dipendente sul reddito nazionale, il più basso di quello registrato nei paesi capitalisticamente avanzati»16.

Per conseguenza, le imprese videro crescere in misura notevolissima i profitti ed il tasso di autofinanziamento, che nel 1959 raggiunse 1'80% degli investimenti complessivi lordi: nello stesso anno, l'emissione di azioni e ob­bligazioni coprì soltanto il 12% degli investimenti privati, e gli impieghi de­gli istituti di credito mobiliare soltanto l'8%17. Contemporaneamente, si accrebbe il peso della grande industria sia rispetto al prodotto nazionale com­plessivo (il fatturato delle maggiori imprese crebbe in misura all'incirca dop­pia rispetto alla crescita del reddito nazionale), sia in termini di assorbimen­to di forza-lavoro. E, ovviamente, anche in termini dí potere economico (e non solo). In questi anni cresce notevolmente il processo di concentrazione tra imprese (dal 1955 al 1960 l'incidenza del capitale delle prime 15 società per azioni sul totale del capitale azionario passò dal 17% al 19,8%)18; e que­sto nonostante che, nell'Italia Settentrionale e in parte di quella Centrale, sorgessero numerose nuove imprese attorno ai grandi poli industriali (o co­munque in rapporto con essi).

In definitiva, gli anni del «miracolo economico», se da un lato vedono l'affermarsi (per la prima volta nella storia d'Italia) di una borghesia indu­striale degna di questo nome ed un ruolo indubbiamente progressivo della borghesia di Stato, dall'altro vedono l'irrobustirsi delle maglie del potere oligopolistico dei grandi monopoli privati. Si tratta per di più di un potere in cui il necessario allargamento della base finanziaria avviene in modo da tutelare (nel modo meno oneroso possibile) gli assetti di comando caratteri­stici del capitalismo familiare all'italiana. Un esempio per tutti: nel 1962 — sotto l'accorta regia della Mediobanca di Cuccia — viene allargata la base finanziaria dell'Ifi, la finanziaria della famiglia Agnelli che controlla non sol­tanto la Fiat, ma qualcosa come l'11% del sistema industriale italiano; la cosa viene fatta attraverso il collocamento in Borsa di azioni privilegiate: in questo modo la famiglia Agnelli può mantenere í1 controllo sulla società sen­za dover investire altro denaro.

La tentazione di far ruotare i profitti attorno alle due variabili fonda­mentali dei prezzi di monopolio e dei bassi salari, anziché spingere sugli investimenti attraverso un reale allargamento della base finanziaria delle società possedute, è insomma una tentazione irresistibile per i centri di comando della borghesia italiana. L'economia italiana la pagherà a caro prezzo.
3. La via italiana alla crisi (1963-1972)

A gennaio 1963 viene firmato il contratto nazionale dei metalmeccanici, che prevede discreti aumenti salariali. Ma già l'anno precedente una serie di scioperi aveva costretto la Fiat ad intavolare negoziati anche con la Fiom, con la quale da 8 anni l'azienda si rifiutava anche solo di trattare; e nello stesso 1962 i disordini di Piazza Statuto a Torino avevano tra l'altro eviden­ziato con chiarezza la ripresa in forme nuove di una forte conflittualità ope­raia. Il risultato era stato un contratto aziendale che prevedeva tra l'altro la contrattazione degli incentivi (prima assolutamente discrezionali) e una qualche forma di controllo sindacale sui tempi di lavoro.

Si tratta di risultati tutt'altro che dirompenti, tenuto conto del fatto che, stando agli stessi dati ufficiali della Fiat, nel periodo 1954-1960 il salario di un operaio di terza categoria era cresciuto del 38%, a fronte di un fattura­to quasi raddoppiato (+98%), e di profitti netti addirittura quadruplicati. Ed era inoltre un fenomeno del tutto fisiologico, alla luce del fatto che nel 1962 l'Italia aveva raggiunto la piena occupazione. Tra l'altro, proprio a motivo della scarsità di manodopera, già da qualche anno in molte imprese manifatturiere del triangolo industriale sí era avuto uno «slittamento sala­riale» (Con stipendi di fatto superiori a quelli contrattuali): pertanto ín molti casi i contratti del 1962/63 non avevano fatto altro che riallineare i salari contrattuali a quelli di fatto19.

Ma il padronato non accettò questa nuova situazione. Tentò di recupe­rare i margini di profitto aumentando i prezzi, ciò che comportò un aumen­to dell'inflazione. A questo punto le autorità monetarie si trovarono di fron­te ad un bivio: salvare l'equilibrio monetario interno e negli scambi con l'e­stero (nel 1962 si era avuto un lieve disavanzo della bilancia dei pagamenti, che si accrebbe l'anno successivo), o favorire il mantenimento di un elevato tasso di sviluppo e proseguire nella politica di liberalizzazione degli scambi già avviata. Si risolsero per la prima soluzione: e, di concerto con le autorità politiche, operarono una dura stretta creditizia. Risultato: la bilancia dei pagamenti tornò in attivo e l'inflazione fu domata, ma al prezzo di una seve­ra recessione; il che comportò una severa caduta del tasso di accumulazio­ne, una caduta degli investimenti nell'industria dell'ordine del 20%, ed un forte aumento della disoccupazione (+200.000 unità nel solo 1964). Ovvia­mente, questo consentì di contenere le spinte salariali per qualche anno — la qual cosa rappresentava il vero obiettivo della manovra —.

In questa circostanza la borghesia italiana (unitamente ai suoi rappre­sentanti politici e monetari) mise ín evidenza tutti i propri i salari bassi venivano dí fatto considerati come la vera «variabile indipendente» dello sviluppo; molto minore era l'importanza attribuita agli aumenti di pro­duttività del lavoro. Come si vedrà, questo atteggiamento rappresenterà una costante sino ai nostri giorni. Ma non è tutto: nel 1963 comincia a prodursi in misura massiccia un fenomeno che diventerà un'altra costante per molti anni della storia italiana, ossia l'esportazione di capitali. L'occasione è offer­ta da due provvedimenti assunti dal governo di centro-sinistra da poco inse­diatosi: l'introduzione della imposta cedolare sui redditi dei titoli azionari e la nazionalizzazione dell'energia elettrica.

Quello dell'esportazione dei capitali è un fenomeno che si presta a diver­se considerazioni. Intanto, esso conferma la natura di classe dei provvedi­menti di politica monetaria assunti nel 1963. Infatti, come è stato osservato, alla luce dell'esportazione di capitali «sostenere che la bilancia dei paga­menti era passiva, e che tale passivo giustificava una politica di restrizione della produzione interna, era doppiamente in malafede. In primo luogo per­ché, seguendo questa strada, si comprimeva la produzione interna e si crea­va disoccupazione soltanto per compensare le fughe di capitali; il che signi­ficava lasciare lavoratori disoccupati per consentire ai finanzieri di portare i loro capitali al riparo dal fisco. In secondo luogo perché le fughe di capita­li avvenivano... attraverso le banche»; e quindi la Banca d'Italia avrebbe potuto esercitare maggiori controlli, «invece di lamentarsi, accusare gli spe­culatori, ma nella sostanza chiudere un occhio e permettere che le fughe di banconote continuassero» 20.

Ma non è tutto: infatti la nazionalizzazione dell'energia elettrica non fu un esproprio puro e semplice. Al contrario: l'indennizzo ammontò a 1500 miliardi di lire dell'epoca. Fu il governatore della Banca d'Italia, Guido Car­li, a volere — e ottenere — che questi soldi fossero versati direttamente alle società, nella convinzione che essi sarebbero stati adoperati per investimen­ti produttivi. Tutto sbagliato: non più della metà di tale cifra finì in questo modo (l'altra metà finì in speculazioni immobiliari e valutarie); e fu soprat­tutto la Sip (passata sotto il controllo dell'Iri) ad adoperare il denaro otte­nuto per investimenti nella rete telefonica.

Nel complesso, dal 1964 gli investimenti industriali effettuati dalle im­prese private crollano ad un misero 3,6% annuo, Sono invece le partecipa­zioni statali ad effettuare i maggiori investimenti. Ma cominciano anche ad accumulare debiti e ad assorbire aziende private in crisi. In compenso, le imprese private tornano a vedere profitti. In che modo? Non attraverso «co­stosi» investimenti in impianti di produzione, ma per mezzo di più econo­miche modifiche organizzative interne: cioè forti aumenti dei ritmi di lavo­ro, ricorso agli straordinari, agli incentivi individuali ed al cottimo; così da ottenere un aumento della produzione a fronte di una diminuzione della forza-lavoro occupata21. Mentre il centro-sinistra si trastulla con la «pro­grammazione economica», destinata a restare un libro dei sogni, il padro­nato reagisce alla crisi in maniera piuttosto miope: puntando tutto sull'in­tensificazione dei ritmi di lavoro, e niente sull'allargamento del mercato in­terno. Ancora una volta, i salari bassi come unica leva competitiva. Nel frat­tempo, le condizioni reali dei lavoratori nelle città industriali del Nord peg­gioravano, anche per l'assenza di strutture sociali adeguate a reggere l'on­data migratoria dal Sud.

Il tappo doveva saltare. E saltò. Nel giugno del 1969 un gruppo di ope­rai e impiegati della Pirelli crea il primo Comitato Unitario di Base (cuB), negli stessi giorni avviene il primo sciopero «selvaggio» (cioè autorganizza­to) all'Officina 54 della Fiat a Mirafiori. Nel settembre scoppia l'«autunno caldo», dando il via ad una serie di lotte che consentiranno di conquistare tanto il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, la settimana lavorativa dí 40 ore e il diritto di assemblea (dicembre 1969), quanto lo Statuto dei lavo­ratori (1970) ed il riconoscimento dei Consigli di fabbrica (1971). La con­troffensiva delle classi dominanti non si fa attendere, ed è condotta secondo diverse direttrici. La strategia della tensione, messa in opera dai servizi segreti (italiani e USA) e dai fascisti, ne è parte integrante: nel dicembre 1969, pochi giorni dopo l'imponente manifestazione operaia che aveva sancito la chiusura positiva del contratto di lavoro, scoppia una bomba alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano. Si tenta inoltre uno spostamento a destra del quadro politico, con i disordini fascisti di Reggio Calabria e la formazione di un governo di centro-destra. La risposta più importante — e che qui più interessa — viene però data sul piano economico, e segue le due direttrici del decentramento e della finanziarizzazione.
4. Decentramento produttivo e finanziarizzazione (1970-1980)

Se consideriamo il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni No­vanta dal punto di vista dei cambiamenti nella dimensione delle imprese, cí accorgiamo del succedersi di due linee di tendenza tra loro contraddittorie.

Nei primi due decenni assistiamo ad un importante fenomeno di con­centrazione industriale, conseguente a due processi: in primo luogo la crea­zione di un mercato nazionale, che comporta un forte ridimensionamento delle attività artigianali tradizionali e più in generale l'uscita dal mercato di numerose piccole imprese a dimensione locale-regionale (entrambi i feno­meni sono particolarmente evidenti nel Mezzogiorno); in secondo luogo, l'integrazione economica europea, che impone una ristrutturazione dell'ap­parato produttivo nei settori più esposti alla concorrenza internazionale. Entrambi i processi concorrono a far sì che il peso delle piccolissime impre­se (quelle con meno di 10 addetti) passi in vent'anni da un terzo (1951) ad un quinto (1971) dell'occupazione manifatturiera totale.

Dopo il 1971, però, lo scenario cambia completamente. Riprende a cre­scere l'occupazione nelle imprese sotto i 50 addetti: dal 42% del 1971 si passa al 48% del 1981, per giungere al 58% del 1991. Il processo opposto si registra nella media e grande impresa: le imprese con più di 500 addetti, in particolare, vedono scendere la percentuale relativa di forza-lavoro occu­pata di ben 11 punti dal 1971 al 1991. Ancora più eclatante quanto accade alle imprese con più di 1.000 dipendenti: se dal 1961 alla fine del decennio l'occupazione ín queste imprese era cresciuta del 34,7% (a fronte di una crescita dell'occupazione nell'industria del 17,6%), negli anni Settanta il percorso si inverte: dal 1971 al 1980 si ha un calo del 9,7% (a fronte di una crescita dell'occupazione del 12 %)22; e il calo dell'occupazione nella gran­de industria continuerà per tutto il ventennio successivo.

È dal censimento del 1971 che possiamo fare datare l'«irresistibile asce­sa» delle piccole e medie imprese italiane. Si tratta di un fenomeno che ha dato luogo ad una folta letteratura apologetica, che ne ha fatto l'elemento (positivamente) caratterizzante l'economia italiana: così, sin dagli anni Set­tanta si è parlato di «Italia dei distretti industriali» (Becattini), di «terza Italia» (Bagnasco), di «capitalismo molecolare» (Bonomi). Secondo queste impostazioni, sono le piccole e medie imprese a rappresentare il punto di forza dell'economia italiana, contraddicendo tutte le teorie economiche che fanno delle economie di scala un importante — se non indispensabile — van­taggio competitivo.

La verità, come spesso succede, è molto più prosaica delle teorie con cui si cerca di spiegarla. Il successo delle Pmi nasce dai problemi della grande industria. Quest'ultima, infatti, grazie all'accresciuta forza e consapevolez­za della classe operaia, non può più adoperare la leva dei bassi salari e vede quindi ridursi drasticamente i margini di profitto. E reagisce esternalizzan­do produzioni, per colpire il sindacato e la capacità di contrattazione della classe operaia. Questo si traduce, come subito denunciato dal sindacato, in salari più bassi, straordinari più frequenti, diffusione del lavoro nero, più in generale minori tutele per il lavoro. Del resto, i numeri parlano da soli: po­sti pari a 100 i salari delle imprese maggiori, i salari delle imprese da 20 a 50 addetti erano pari a 67 nel 1974-7 e pari a 71 ancora alla fine degli anni Ottanta23. Come ovvio risultato, la quota dei profitti lordi sul valore aggiunto risultò più alta nelle piccole imprese che nelle grandi in tutto il periodo considerato.

Di poco posteriore alla strategia del decentramento produttivo, fu quel­la della finanziarizzazione. Essa si delineò con chiarezza a seguito dei due eventi economici fondamentali che segnarono l'inizio degli anni Settanta: la fine della convertibilità del dollaro in oro (agosto 1971), che diede inizio a ripetute crisi valutarie internazionali e costrinse la lira alla fluttuazione del cambio (1973); e la crisi petrolifera del 1973, che sancì la fine del periodo delle materie prime a basso prezzo (e colpì l'Italia in misura particolare). Ed ecco cosa successe, secondo uno dei migliori studi di sintesi sulle vicende della Borsa italiana: «A scorrere l'elenco delle società via via ammesse al listino azionario della Borsa milanese... si percepisce, forse meglio che da qualsiasi altro osservatorio, la tendenza dell'élite del capitalismo italiano a esercitare, dalla crisi petrolifera del 1973, sempre meno l'industria e sempre più la finanza, intesa non come mezzo- per sostenere la crescita della produ­zione, ma come attività a sé stante, vera e propria 'industria capace di rea­lizzare nelle sue operazioni la parte principale dei profitti»24. Il passo ora citato inquadra con precisione il processo di abbandono della grande indu­stria da parte delle principali dinastie imprenditoriali italiane, e ne data (correttamente) l'inizio agli anni Settanta. E in questi anni che «molte gran­di imprese — ma il fenomeno fu internazionale — iniziano a potenziare le unità specializzate nell'intermediazione finanziaria; intervenendo diretta­mente in operazioni di arbitraggio e sui titoli, esse 'contaminano' [sic] i loro profitti con elementi propri di altre forme di reddito (interesse, guadagni speculativi) e l'apporto della gestione extra-industriale al risultato operativo diventa sempre crescente, contribuendo a spostare gli obiettivi primari dalla produzione alla massa di manovra disponibile per gli interventi di breve impegno e di molta resa». In altri termini, in questi anni inizia la sostituzio­ne della produzione industriale con speculazioni finanziarie quale mezzo per realizzare profitti. Il motivo di questo fenomeno è dato dalla crisi di so­vrapproduzione e di accumulazione del capitale che dagli anni Settanta si prolunga sino ai nostri giorni (e che spinge, come scriveva già Grossmann negli anni Venti, verso due forme di «esportazione dei capitali»: verso la Borsa e verso l'estero). È in questo contesto che le grandi famiglie del capi­talismo italiano imboccano la strada della «finanziarizzazione». Molte so­cietà prima a carattere industriale vengono così trasformate in società fi­nanziarie che, «più che dirette a reperire risorse» per le attività industriali dei gruppi di appartenenza, appaiono «volte a realizzare vantaggi di tipo speculativo» in quanto tali25. Sfogliando l'elenco delle società quotate alla Borsa di Milano si può toccare con mano l'entità di questa trasformazione. Così, nel solo 1973 sono quotate ín Borsa, con funzione di holding finan­ziarie: la Concerie Italiane Riunite (CIR; nel 1976 verrà acquisita dal gruppo De Benedetti e ridenominata Compagnie Industriali Riunite); la Gilardini Industriale, costituita nel 1905, e venuta in possesso di De Benedetti (nel 1976 passerà a Fiat, e nel 2000 sarà incorporata nella Magneti Marelli); la Nazionale Partecipazioni Finanziaria; la Riva Finanziaria, nata il 1946 come Simic; l'Acqua Marcia, costituita nel 1867 (ora fa parte del Gruppo Calta­girone). Negli anni successivi sarà la volta della Finrex (1974) e delle Terme Demaniali dí Acqui (1978). Negli anni Ottanta avremo l'Italmobiliare (1980), Gemina (1981), Cofide (1985), Cam Finanziaria e Sogefi (1986), Ferruzzi Finanziaria (1988) e Franco Tosi (1989). Negli anni Novanta, il de­finitivo svuotamento di Olivetti e la sua trasformazione in scatola finanzia­ria. In quasi tutti questi casi, si tratta di ex società manifatturiere trasforma­te in veicoli per operazioni finanziarie. Esse portano non di rado impressa nel loro stesso nome la storia di una radicale metamorfosi del capitalismo italiano. Una metamorfosi che ha condotto le imprese finanziarie italiane a pesare sulla capitalizzazione di Borsa per qualcosa come il 37% (a fronte del 15% della Francia, del 25% del Regno Unito, del 30% della Germania, do­ve pure le banche hanno storicamente un peso significativo in Borsa)26.

Nel nuovo regime dei cambi flessibili, con la lira fluttuante, si ebbe un'impennata dell'inflazione, con il risultato di comprimere i salari reali e di premiare gli speculatori che avevano portato i capitali all'estero. Il movi­mento dei lavoratori rispose chiedendo una revisione del meccanismo della scala mobile, e l'introduzione del punto unico di contingenza (1975). Nel corso del 1975 la crisi economica si approfondì (per la prima volta dal dopo­guerra, il PIL risultò negativo), e nel gennaio del 1976 le banche statuniten­si furono sconsigliate dal concedere nuovi prestiti all'Italia. Nel 1977, con­testualmente all'avvicinamento del Pci alla compagine governativa, si ebbe la cosiddetta svolta dell'Eur: le confederazioni sindacali si dichiararono disponibili non soltanto alla «moderazione salariale», ma anche a favorire la «mobilità» del lavoro per consentire la ristrutturazione nel settore indu­striale. Contemporaneamente, lo Stato si fece carico di numerose crisi indu­striali, acquisendo dai privati aziende sull'orlo del fallimento o introducen­do particolari ammortizzatori sociali. In questa fase, il ruolo preminente dello Stato non è più quello di imprenditore (anche se l'Iri è ormai il primo gruppo industriale del Paese, e già nel 1974 il settore pubblico copre il 28,8% del fatturato e il 29,6% dei dipendenti delle prime 350 società ita­liane), ma quello di socializzatore delle perdite maturate dalle imprese priva­te e di ammortizzatore del conflitto sociale. Il tutto a carico del bilancio pub­blico, pagato quasi esclusivamente con le tasse dei lavoratori. Che così la crisi la pagano due volte.
5. I «ruggenti anni Ottanta» (1980-1989)

Sul finire degli anni Settanta il ripristino del potere della borghesia è pressoché completo. Ma è la grave sconfitta patita dal movimento operaio alla Fiat nel 1980 a chiudere il ciclo iniziato con le lotte dell'«autunno caldo». Nel 1980 la crisi dell'auto, anche grazie al secondo shock petrolifero (1979), assume proporzioni mondiali e coinvolge tanto i produttori ameri­cani quanto gli europei (con la sola eccezione della Volkswagen). Quanto alla Fiat, l'indebitamento (6.800 miliardi) è ormai pari al fatturato e più del doppio del patrimonio netto. A questo punto Umberto Agnelli chiede al governo due cose: la svalutazione della lira e la libertà di licenziare. La pri­ma richiesta non andrà a buon fine; per quanto riguarda la seconda la Fiat farà da sé. L'11 settembre viene annunciato il licenziamento dí 14.400 lavo­ratori, successivamente trasformato in cassa integrazione a zero ore per 23.000 lavoratori per due anni. Inizia uno sciopero di 35 giorni con blocco degli stabilimenti, che termina con una bruciante sconfitta, anche a seguito della marcia dei capi intermedi contro lo sciopero27. I 23.000 lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore (che presto diventeranno 33.000), tra cui centinaia di delegati di fabbrica, resteranno fuori dalla Fiat sino al 1987, ín violazione di ogni accordo; al loro rientro, saranno collocati in «reparti confino». Centocinquanta di loro si toglieranno la vita28. Comincia un pe­riodo di dura restaurazione in fabbrica, ed una svolta a destra nel Paese.

Gli anni Ottanta, sono generalmente ricordati dalla pubblicistica corren­te come anni spensierati e di modernizzazione29. È una prospettiva che è difficile condividere: sarebbe molto più corretto considerarli come il decen­nio dei debiti.
I
nnanzitutto del debito pubblico: che si inerpica sulla strada che lo por­terà a raggiungere, a fine decennio, il 100% del PIL. E una conseguenza de­gli elevatissimi tassi di interesse (nel 1980 sono al 19%, come conseguenza di un'inflazione che giunge a superare il 20%), ma anche dei bilanci forte­mente in perdita delle imprese statali: dal 1980 al 1984 lo Stato versò a Irí, Eni, Enel, Efim e Gepi poco meno di 30.000 miliardi di liren. Né va dimen­ticato un ulteriore aspetto, ossia l'attivazione di ammortizzatori sociali per alleviare gli effetti della crisi: alla crescita del debito pubblico è tutt'altro che estraneo il saldo occupazionale fortemente negativo prodottosi tra il 1981 e il 1985, che vide l'industria italiana perdere 3.700.000 posti di lavoro.

Ma anche la bilancia commerciale presenta saldi molto negativi «non sol­tanto nei settori del petrolio e delle fonti di energia, ma anche nei prodotti agricoli, nelle carni, nel latte, nei prodotti chimici, nelle macchine per ufficio, negli autoveicoli». Sono in attivo soltanto i settori tradizionali del made in Italy e poco altro: «le macchine utensili, i motocicli, i prodotti tessili e del- l'abbigliamento, cuoio e calzature, legno e mobilio, gomma e plastica» — ed è facile osservare che si tratta per lo più di settori di modesto livello tecno- logico, molto esposti alla concorrenza internazionale dei paesi di nuova industrializzazione (Taiwan, Singapore, Hong Kong, Corea del Sud) e di Stati che proprio negli anni Ottanta fanno ingresso nella Comunità Europea (Spagna, Grecia e Portogallo)31.

Infine, i debiti delle imprese private. I tempi in cui l'autofinanziamento rappresentava l'80% delle spese per nuovi investimenti sono ormai un lontano ricordo. Di mezzo ci sono gli anni Settanta, in cui l'indebitamento delle imprese aveva conosciuto una progressione pressoché costante32. Negli anni Ottanta questo processo continua, sia pur con caratteristiche in parte diffe­renti.

Per un verso, infatti, abbiamo un gonfiamento delle rendite finanziarie e un conseguente forte sviluppo del mercato borsistico, il quale a sua volta alimenta scalate a società e processi di fusione tra imprese. Il meccanismo è
questo: nonostante la montagna del debito pubblico, ed anzi proprio a causa di essa, la corresponsione di tassi di interesse elevati su una massa sempre crescente di debito pubblico creava opportunità di rendite finanziarie
per risparmiatori, ma soprattutto per gruppi finanziari, aziende di credito e speculatori33. Queste rendite alimentano la Borsa di Milano, che conosce un vero e proprio boom dal 1982 al 1987: a trainare la sua crescita sono soprat­tutto i fondi comuni di investimento, che raccolgono denaro dai risparmia­tori. Questo denaro è a sua volta utilizzato per spregiudicate operazioni so­cietarie. Un esempio su tutti: ai risparmiatori si rivolge Mario Schimberni, che vuole fare di Montedison una public company, ossia una società ad azio­nariato frammentato, gestita dai manager (ossia dallo stesso Schimberni). In questa iniziativa sarà scalzato da Raul Gardini, genero di Serafino Ferruzzi ed erede dell'impero da lui fondato.

E qui vediamo l'altra faccia del debito delle imprese. Fedele al suo mot­to, secondo cui «chi non ha debiti non ha idee», Gardini impegna cifre no­tevolissime nella scalata a Montedison, per poi dar vita ad una joint-venture tra Eni e Montedison, che nelle sue intenzioni deve diventare un colosso  mondiale nella chimica. L'avventura, come è noto, si concluderà negli anni Novanta con la rescissione della joint-venture, con esborsi miliardari, con il  suicidio a piede libero di Gardini e quello in carcere di Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni e partner di Gardini nell'avventura Enimont; ma soprat­tutto con il fallimento della Montedison — travolta da 20.000 miliardi di de­biti — e la distruzione della chimica italiana.

La vicenda Montedison è una buona metafora degli anni Ottanta: il capitalismo predatorio all'italiana di questi anni, che nelle imprese che af­fronta mette soltanto «idee» e relazioni politiche (in particolare con il Psi di Craxi e la Dc di Forlani e De Mita), facendo sì che i soldi li mettano gli altri (i risparmiatori, le banche pubbliche o direttamente lo Stato), non produce né il rafforzamento dell'apparato produttivo né la creazione di imprese di dimensione europea. Produce soltanto una montagna di debiti, che la col­lettività, e più precisamente i lavoratori, si troveranno a pagare negli anni Novanta.
6. «Signori, la festa è finita» (dal 1990 ad oggi)

«Signori, la festa è finita»: così, nel giugno del 1990, Gianni Agnelli apo­strofò gli azionisti della Fiat. Alla luce di quanto abbiamo visto, è lecito domandarsi chi avesse «festeggiato» negli anni Ottanta. Certamente, non i lavoratori dell'industria manifatturiera, né i giovani (in particolar modo del Mezzogiorno). Qualcuno, però, negli anni Ottanta aveva avuto motivo di far festa: tra loro ví erano proprio gli azionisti Fiat, che — risolto come abbia­mo visto il problema della conflittualità operaia — avevano beneficiato di ingenti investimenti in tecnologia dei primi anni Ottanta (generosamente sostenuti dallo Stato) ed erano riusciti a rivedere un utile cospicuo grazie alla ripresa europea del mercato dell'automobile ed al successo della «Uno». Come se non bastasse, a questo si era aggiunta anche la «mano visibile» del governo italiano, che nel 1986 aveva regalato l'Alfa Romeo alla casa torine­se, bloccando all'ultimo momento la firma dell'accordo di vendita della so­cietà automobilistica pubblica alla Ford. Basso il prezzo: appena 1.000 mi­liardi di lire (equivalenti ai contributi che la Fiat all'epoca percepiva dallo Stato), per di più pagabili in comode rate decennali. Avendo già acquisito la Lancia, l'Auto Bianchi e la Ferrari, la Fiat aveva così il controllo dell'intera produzione automobilistica nazionale.

Poi, però, anziché investire nello stesso settore dell'auto i profitti realiz­zati, la Fiat aveva spinto sempre più l'acceleratore sulla «diversificazione» degli investimenti. Questa scelta avvenne alla luce del sole, come risultato dello scontro tra l'ing. Ghidella e l'ing. Romiti: quest'ultimo fu appoggiato da Gianni Agnelli (e da Mediobanca), e vinse. Fu lo stesso Agnelli a raccon­tare così la faccenda ai dirigenti Fiat: «ho dovuto affrontare un conflitto d'in­terpretazione del ruolo della Fiat all'interno del Gruppo. Per Ghidella pre­vale la visione autocentrica, mentre per me la Fiat è una holding industriale e finanziaria»34. Difficile contestare il giudizio espresso da Agnelli: nell'87 il gruppo Fiat contava qualcosa come 750 società controllate, guadagnava co­me gli altri 60 gruppi industriali messi assieme, e totalizzava il 4% del PII, nazionale, e già alla metà degli anni Ottanta le partecipazioni Fiat capitaliz­zavano ormai un quarto dell'intera Borsa italiana. Tra esse c'erano società come Snia, Gemina (Rizzoli e «Corriere della Sera»), Magneti Marelli, Uni­cem, Sorin, Olcese, Toro Assicurazioni, Rinascente. In altri termini, in que­sti anni già si profila quella trasformazione della Fiat in holding finanziaria che poi sarà realizzata pienamente nel corso degli anni Novanta. Per quan­to riguarda gli assetti di controllo, basterà dire che all'inizio del 1987 viene costituita la Accomandita Giovanni Agnelli e soci, società non quotata a cui vengono conferite il 75% delle azioni Ifi che erano di proprietà degli Agnelli. La proprietà familiare della Fiat è messa al sicuro ancora per un po': però al prezzo di rendere fragile la base finanziaria della società.

La combinazione di quelle due scelte compiute negli anni Ottanta, da nn lato il dirottamento degli utili provenienti dall'auto su altri settori di attività, dall'altro la blindatura su base familiare del controllo societario (con conse­guente insufficienza strutturale della base finanziaria della società), è all'ori­gine della crisi della Fiat che esplode negli anni Novanta. Una crisi da cui neppure le due svalutazioni della lira del 1992 e del 1995 (rispettivamente del 30% e del 10%) riusciranno a risollevarla. E la cosa non può stupire se si pensa che la Fiat nel decennio compreso tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta ha destinato agli investimenti in ricerca 4 miliardi di dollari. Nello stesso periodo la Volkswagen (che all'epoca aveva le stesse dimensioni di Fiat) ne ha spesi 20, Bmw (che era più piccola) ha speso 8 míliardi35.
6.1. Addio alla grande industria

Il caso della Fiat, però, è tutt'altro che isolato. Tanto che si è potuto par­lare di un vero e proprio «addio alla grande industria». Può sembrare ecces­sivo, ma le cose stanno proprio così.
Basta gettare uno sguardo ai titoli di Borsa: Montedison è stata cancel­lata dal listino. Olivetti anche. Fiat continua a perdere colpi (negli anni della bolla speculativa della new economy la sua capitalizzazione di Borsa è stata superata da quella di Tiscali...). Pirelli va abbastanza male nei suoi settori storici (pneumatici e cavi), e la sua più importante partecipazione è oggi rappresentata dal gruppo Telecom (oltreché da un impero immobiliare nato dalle aree dismesse dei suoi impianti industriali). Va male anche il business manifatturiero tradizionale dei Benetton. Tra le imprese industriali di qual­che entità resistono praticamente solo Eni, Enel e Finmeccanica — tutte quante ancora controllate dallo Stato —.

Questo quadro desolante ci è confermato dalle ricerche di Mediobanca sulle imprese multinazionali. Cominciamo con le dimensioni: su 274 multi­nazionali mondiali, le 18 principali multinazionali tedesche nel 2001 hanno fatturato 737 miliardi di curo; le 24 francesi, 478 miliardi di euro; le 15 ita­liane, 170 miliardi di euro. Tra esse, di dimensione comparabile agli omolo­ghi europei sono soltanto Fiat [e i dati si riferiscono ad un periodo prece­dente l'aggravarsi della crisi], Eni e Telecom [che tra l'altro è una società di servizi e non manifatturiera]. E veniamo all'occupazione: le multinazionali tedesche impiegano 2.700.000 lavoratori, quelle francesi 1.900.000, le no­stre appena 600.000. Quanto ai settori, se a livello mondiale il 31,4%, circa un terzo del fatturato delle multinazionali, è prodotto nei due settori più avanzati, elettronica e chimica, per quanto riguarda l'Italia soltanto 1'1,1% del fatturato proviene dall'elettronica, e solo il 3 % dalla chimica (4,1% in tutto). Non è finita. Gli utili prodotti da queste società sono decisamente miseri: soltanto 3 multinazionali italiane su 15 (Italcementi, Eni e Telecom) hanno avuto buoni risultati nel 2001. In compenso, le imprese italiane han­no, a parte l'Ení, debiti elevati e scarso capitale proprio. Inoltre, sono all'ul­timo posto nelle spese per ricerca e sviluppo, a cui è destinano soltanto il 2,4% del fatturato (contro il 3,7% della media europea, il 4,7% degli USA, ed il 5,7% del Giappone). L'unica cosa in cui sono imbattibili è la capacità di tenere basso il costo della forza-lavoro anche in presenza di rilevanti aumenti di produttività: infatti, a fronte di un incremento del valore aggiun­to per addetto dell'89,5% nel periodo 1992-2001, il costo della forza-lavo­ro è aumentato appena del 15,9% (in valori nominali); si tratta di un dato inferiore a quello dí tutti gli altri principali paesi presi in considerazione dalla ricerca36. Ma questo non invidiabile primato non ha affatto allontana­to la crisi.

Di fronte a tutto questo, viene spontaneo chiedersi se dobbiamo dire addio anche alle grandi famiglie del capitalismo italiano. Stando alla vera e propria frana del sistema industriale italiano che abbiamo descritto più sopra, ci si aspetterebbe di sì. Ma è necessario ricredersi. Niente di questo è successo: praticamente nessuna delle principali famiglie è scomparsa. Tanto le famiglie storiche del capitalismo italiano quanto i parvenu mantengono saldamente le loro posizioni. In che modo? Le mantengono avvalendosi della stessa struttura del controllo societario che adoperano da decenni: quella delle «strutture pirami­dali» o «a scatole cinesi».

Bisogna prima di tutto partire da un dato: la concentrazione del con­trollo delle società quotate da parte di uno o più soci è maggiore in Italia che negli altri principali paesi europei: «per circa tre quarti delle società quotate è infatti presente un azionista di controllo». In particolare, «la concentrazio­ne proprietaria delle principali società quotate italiane è superiore in misura notevole rispetto a quelle delle imprese tedesche e francesi e, ín misura minore, rispetto a quelle delle imprese spagnole»37.

Non solo: in Italia negli ultimi anni la .concentrazione è cresciuta. Ed è cresciuta, in particolare, la concentrazione attraverso le «scatole cinesi». Si tratta di uno strumento che consente agli azionisti più importanti di una determinata società di controllare un quota del capitale assai maggiore di quel-la effettivamente detenuta, e quindi fa sì che si abbia la concentrazione del controllo senza che ci sia la concentrazione della proprietà 38.

Ma come funzionano in concreto le «scatole cinesi»? Praticamente ab­biamo a che fare con una catena di società, che può essere anche molto lunga. Il primo anello della catena è una società in accomandita per azioni. Si tratta rigorosamente di una società non quotata, e quindi non contendibile. Spesso è di diritto olandese o lussemburghese, per pagare meno tasse (del dovuto). Con questo sistema gli Agnelli hanno il controllo della Fiat, Marco Tronchetti Provera quello di Pirelli e di Telecom. Il tutto, con un risparmio considerevole rispetto all'acquisizione diretta di queste società. Quanto considerevole? Qualcuno si è preso la briga di fare due conti, e i risultati sono questi: «la famiglia Agnelli governa su un impero che vale cento rischian­do di tasca propria, in proporzione, non più di dodici», mentre «Tronchetti regna su Telecom con solo lo 0,54% del capitale»39.

L'uso del meccanismo delle «scatole cinesi» accomuna praticamente tutte le dinastie imprenditoriali italiane che controllano società quotate in Borsa. In concreto, in questo modo sono controllati 130 miliardi di curo, ossia il 30% del valore totale della Borsa italiana. In questo contesto, i pic­coli investitori quale ruolo giocano? La risposta è facile:  il ruolo di mettere i soldi nelle società controllate da quei signori, rendendo loro possibile di controllarle senza doverle  possedere. Questo Per quanto riguarda la struttura del controllo. Non meno impor­tante è però determinare quale sia  oggi l'oggetto del controllo. Questo og­getto, lo abbiamo visto, non sono più le grandi imprese manifatturiere. Per un  motivo molto semplice: perché negli ultimi anni le principali famiglie del capitalismo italiano sono state protagoniste di una vera e propria migrazio­ne generalizzata dal settore manifatturiero e industriale a quello dei servizi e precisamente dei servizi di pubblica utilità —. Quanto è avvenuto è stato così sintetizzato da un giornalista economico: «I gruppi industriali italiani cadono come birilli, l'uno dopo l'altro, nelle mani di strutture internaziona­li più attrezzate alla competizione globale; mentre ciò che resta delle grandi famiglie, vecchie e nuove, cerca riparo sotto l'ombrello delle non proprio innovative utility»40,

Ma cosa ha reso possibile questa fuga dalla grande industria? La rispo­sta è semplice: le massicce privatizzazioni effettuate nel corso degli anni Novanta. Può sembrare paradossale, se si pensa a tutti i Soloni che ci ave­vano spiegato come le privatizzazioni sarebbero servite non soltanto a dimi­nuire il debito pubblico, ma anche a creare «un mercato finanziario svilup­pato»41. Ora, questo obiettivo si componeva, a sua volta, di due obiettivi-condizioni. In primo luogo, la diffusione dell'investimento azionario a livel­lo di massa, presentato come un fattore di «democrazia economica»42. In secondo luogo, la quotazione in Borsa di un numero maggiore di imprese private. In che modo le privatizzazioni avrebbero potuto contribuire a rag­giungere questi obiettivi? Così: le società da privatizzare sarebbero state quotate in Borsa, facendone delle public companies (aziende ad azionaria­to molto frammentato) ed invogliando i risparmiatori ad acquisirne delle quote. In questo modo la quantità dei titoli trattati alla Borsa di Milano sarebbe cresciuta, lo «spessore» del mercato — come si dice ín gergo — sa­rebbe aumentato, e questo avrebbe indotto alla quotazione molti proprie­tari di imprese private che sinora non avevano preso in considerazione tale possibilità.

Questa operazione è riuscita solo a metà: la prima metà. Molti risparmiatori hanno partecipato alle privatizzazioni. Ma in Italia il modello delle public companies non si è affermato. I capitalisti italiani, salvo pochissime eccezioni, si sono ben guardati dal portare le proprie imprese in Borsa, tant'è vero che dal 1999 ad oggi il numero delle società quotate si è ridotto. In compenso, i più forti tra loro hanno acquisito le società privatizzate assu­mendone il controllo. In questo modo, «la maggior parte delle principali società privatizzate ad azionariato diffuso sono state oggetto di successive acquisizioni che hanno portato in alcuni casi al loro delisting [cancellazione dal listino di Borsa, ndr] o alla determinazione di un assetto dí controllo for­temente concentrato»43.

Tra le società privatizzate, le attenzioni dei capitalisti industriali del no­stro Paese si sono rivolte verso i servizi di pubblica utilità. C'è addirittura un caso in cui la stessa società, nel volgere di pochi anni, è entrata nell'orbi­ta di 3 distinti nomi storici del capitalismo italiano: è il caso di Telecom, che prima viene privatizzata dandone il controllo di fatto (con appena lo 0,6% del capitale!) agli Agnelli, sia pure attraverso un patto di sindacato con altri soci; poi subisce la scalata dí Olivetti (nel frattempo diventata una scatola finanziaria nelle mani di Colaninno); infine passa sotto il controllo della Pi­relli di Tronchetti Provera. Ma anche famiglie meno blasonate condividono la passione per le società in via di privatizzazione. È il caso dei Benetton, che hanno acquisito il controllo totale di Autostrade (e in precedenza avevano comprato GS e Autogrill, e sí erano messi in cordata con Tronchetti Provera per Telecom).

Il perché di questa passione generalizzata è presto detto: queste società rappresentano una fonte di profitti certa, che può godere di una rendita di monopolio (o, quando va male, oligopolistica); si tratta tra l'altro di una fon­te di profitti sottratta non soltanto alle fasi alterne del ciclo economico (le bollette si pagano sempre), ma anche alla concorrenza internazionale. Il per­corso quindi è questo: le grandi famiglie del capitalismo italiano sbarcano dal settore manifatturiero, dove perdono colpi non riuscendo a sostenere la concorrenza internazionale, e si imbarcano sulla scialuppa di salvataggio rappresentata dalle società pubbliche in via di privatizzazione. La riprova? L'impressionante coincidenza tra il momento del passaggio aí servizi pub­blici e la crisi nei settori di origine.

Così, la Fiat si lancia nell'avventura di Edison al peggiorare della situa­zione nel settore auto. Pirelli si compra Telecom nel 2001, quando si avver­tono i primi segni della crisi nei suol comparti tradizionali, ed in particola­re nel settore cavi e sistemi di telecomunicazione, crisi che nel 2002 si aggra­verà drasticamente (perdita netta di 58,4 milioni di euro e giro d'affari ín calo del 13,2%). Infine, Benetton nei primi mesi del 2003 lancia un'OPA[offerta pubblica di acquisto in Borsa] sulle azioni di Autostrade. Negli stes­si giorni il principale quotidiano economico italiano metteva in luce come il conto economico della società nel 2002 avesse visto la contrazione di tutte le voci principali, dal fatturato (-5 %) al risultato operativo (-15%), per fini­re con una perdita netta di 9,8 milioni di euro (contro l'attivo di 148 dell'anno prima).

Insomma, come ha osservato Giangiacomo Nardozzi, «la grande stagio­ne delle privatizzazioni ha sì lasciato la gran parte delle attività dismesse in mani italiane, ma a costo di indebolire lo slancio competitivo di importanti pezzi dell'industria, offrendo occasioni di più facili profitti»44. Va aggiunto che tra le imprese da privatizzare non mancavano quelle industriali. Queste imprese, però, i «nostri» capitalisti le hanno lasciate a società transnaziona­lí fuori d'Italia. Riepilogando: «Krupp ha comprato la Acciai Speciali Terni diventando il primo produttore mondiale di laminati piani in acciaio inossidabile. La Nestlé con Italgel è entrata nel settore dei surgelati, con Motta, Alemagna e Antica Gelateria del Corso nei gelati, completando la sua gamma di prodotti. La Pilkington, con la Siv, ha raddoppiato la sua quota in Europa nei vetri per autoveicoli raggiungendo con il 36% la Saint Gobain. Prendendo l'Alcantara dall'ENI, il gruppo giapponese Toray ha rag­giunto il 50% della produzione mondiale di tessuti tipo suede a base di ultramicrofibre. Con la Inca, la Dow Chemical è entrata in un mercato dal quale era assente: i granuli di Pet per bottiglie di acque minerali. La General Electric ha preso la Nuovo Pignone che, con una quota del 25%, rappre­senta il maggior produttore mondiale nei compressori per impianti petroli­feri. Una delle vendite più dolorose per l'industria italiana italiana è stata la Elsag Bailey finita alla Abb, colosso svizzero-svedese, leader mondiale nei flussometri e tra i primi nell'automazione industriale»45. È inutile aggiunge­re che tutte queste acquisizioni, a differenza della quasi totalità di quelle ef­fettuate dai capitalisti di casa nostra, sono funzionali ad un ulteriore svilup­po nel settore manifatturiero delle multinazionali acquirenti.
6.2. Le piccole e medie imprese nella crisi

Questo per quanto riguarda i grandi nomi dell'industria manifatturiera italiana. E le piccole e medie imprese? La questione non può essere trascu­rata, se si pensa che «i sistemi produttivi in cui hanno un ruolo preminente le imprese micro, piccole e medie assorbono in Italia una quota di addetti all'industria manifatturiera che va dal 35 al 40 per cento del totale... Questi sistemi, presi tutti insieme, sono un pezzo molto rilevante del sistema produttivo italiano, più grosso di Fiat più Eni più Iri»46. Vediamo quindi quali sono le linee di tendenza.

Intanto, le piccole e medie imprese sono sempre più piccole. Se ai ceri­simenti del 1981 e 1991 la dimensione media in termini di addetti delle aziende italiane risultava pari a 4,5, essa nel 2001 è scesa a 3,9. Il 95 per cen­to delle aziende italiane oggi ha meno di 10 dipendenti; anche nell'industria la dimensione media è appena di 6,5 addetti47. Per dirla con Mario Sarcinelli, «la piccola dimensione si è accentuata nella struttura industriale ita­liana negli anni 90. Tra il '96 e il '99 il peso della classe d'imprese composta da 1-2 addetti è aumentato; quella con 100 dipendenti e oltre rappresenta­va meno di un quarto dell'occupazione nelle industrie e nei servizi»48. Vo­lendo esprimere tutto questo in termini paradossali, si potrebbe dire che il nanismo industriale italiano cresce. Si tratta però di capire il perché.

Il nanismo è in primis la logica conseguenza del controllo familiare delle imprese. E non è un caso che anche il carattere familiare del capitalismo ita­liano si sia rafforzato negli ultimi anni: la percentuale di persone fisiche resi­denti che detengono la proprietà o il controllo diretto dell'impresa è infatti giunta all'89,9% del totale49. Il controllo familiare di un'impresa ha precise implicazioni negative sia in termini di governance, sia in termini di finan­ziamento.

Con riferimento al governo dell'impresa, è evidente che la selezione del management su base familiare-dinastica (una base che oltretutto col passa­re delle generazioni sí amplia talora a dismisura, creando ovvi problemi di ingovernabilità dell'impresa) si rivela nella maggior parte dei casi inefficien­te: essa risulta in generale inadeguata a gestire la crescita aziendale e comun­que a governare un'entità complessa qual è oggi l'impresa.

Ma il tema più delicato è quello del finanziamento: come constata Fortis, «uno degli aspetti più critici del sistema delle Pmí italiane» è per l'appunto rappresentato dal fatto che esse, «essendo in larga maggioranza ad aziona-fiato famigliare, ormai presentano un livello inadeguato di capitalizzazio­ne». Per logica conseguenza, le Pmi sono in genere molto indebitate, con una forte prevalenza del debito bancario e soprattutto di quello a breve ter­mine (nel caso delle imprese sino a 50 addetti, nel 2000 l'incidenza dei debi­ti a breve termine superava il 70% del totale). Non solo: a differenza di quanto le ricorrenti giaculatorie confindustriali indurrebbero a ritenere, prestiti bancari alle imprese sono in aumento. Basti pensare che il volume dei prestiti alle imprese non finanziarie è salito del 70% nel periodo 1995-2002, e del 4% nel solo 2002 (in quest'ultimo anno è cresciuto addirittura del 7,2% il credito alle imprese con meno di 20 addetti)50. Il punto è che, in assenza dí un'adeguata patrimonializzazione, i finanziamenti non servono a finanziare investimenti, ma solo il circolante: in altri termini, consentono il galleggiamento dell'impresa, non il suo sviluppo e la sua crescita.

Ma c'è di più: come ha rilevato Ciocca nell'intervento già citato, «superata la recessione del 1992-93, la quota dei profitti sul reddito nazionale, il saggio del profitto sul capitale investito, il rendimento degli attivi d'impresa sono tendenzialmente aumentati», situandosi «su valori in media superiori a quelli degli anni precedenti la recessione»51. Ora, se questo è vero una domanda sorge spontanea: dove sono finiti i profitti realizzati dalle Pmi? La risposta è obbligata: nel patrimonio personale dell'imprenditore e della sua famiglia. La situazione è stata così descritta da Marcello De Cecco in un suo brillante saggio: «mediante lo svuotamento sistematico dei bilanci, gli imprenditori italiani sono riusciti a costituirsi fortune familiari che, sommate tra loro, raggiungono dimensioni totali veramente ragguardevoli.

Le loro imprese continuano ad essere indebitate con le banche, mentre gli imprenditori appaiono come i migliori clienti potenziali per le nuove attività di consulenza finanziaria che le banche hanno iniziato da quando il Tesoro italiano ha cominciato, qualche anno fa, a remunerare a tassi assai meno convenienti per gli investitori il proprio debito»52.

Quindi, cospicui patrimoni personali e familiari a fronte di una scarsa patrimonializzazione delle imprese, con quello che ne consegue: dimensioni rachitiche e crescita asfittica delle imprese stesse.

L'alternativa a tutto questo, in teoria, ci sarebbe: aprire l'azienda ad altri soci, ad investitori istituzionali o quotarla in Borsa53. Ma ovviamente questo comporterebbe, per il nanocapitalista italico, il rischio di perdere il control­lo della società. E quindi si preferisce ricorrere esclusivamente (o quasi) a prestiti bancari — e si resta nani —. Vale però la pena dí notare che l'alterna­tiva tra apertura del capitale a terzi e crescita patrimoniale da un lato, e sten­tata sopravvivenza mantenendo il controllo familiare dell'impresa dall'altro, rappresenta — prima o poi — un'alternativa secca, che non consente scappa­tole o «terze vie». Infatti, come ricordava Marx, «con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, cresce il volume minimo del capitale individua­le, necessario per far lavorare un'azienda nelle sue condizioni normali», ossia «aumenta il volume minimo dí capitale che è necessario al capitalista individuale per la messa in opera produttiva del lavoro»54. Per capire come tutto questo si traduca in concreto nella situazione attuale, è sufficiente ri­farsi a un recente testo sui mercati finanziari europei: «l'omogeneizzazione dei mercati mondiali ha determinato in molte industrie un sostanziale au­mento delle economie di scala e un incremento delle dimensioni minime di investimento... Tutto ciò richiede di norma risorse finanziarie eccedenti quelle aziendalmente disponibili per la crescita, e il mercato internazionale dei capitali è pronto a fornirle purché si sia in grado di dimostrare che dalla crescita, dalle fusioni e dalle acquisizioni deriveranno guadagni adeguati al capitale investito. In tal modo il mercato internazionale dei capitali diviene il vero giudice del merito e della fattibilità delle strategie e dei progetti di impresa. Per l'Europa continentale ciò significa sottrarre il giudizio sulla condotta delle imprese ai gruppi di controllo che l'avevano tradizionalmen­te esercitato in modo esclusivo»55. Qui ci si riferisce alle grandi imprese: ma è un discorso che ovviamente vale a maggior ragione per le piccole e medie. Insomma: al processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali non è possibile sottrarsi — se non al prezzo di sopravvivere ín nicchie limitate; o in una relazione di indipendenza formale, ma dipendenza sostanziale — ca­ratterizzata da una precarietà di fondo — dal grande capitale (come avviene ad esempio nel rapporto di subfornitura).

Alla luce di quanto precede, non c'è davvero da stupirsi della crisi che oggi colpisce le piccole e medie imprese italiane e i tanto decantati «distretti industriali». Se proprio ci si deve stupire di qualcosa, è del fatto che così
tante imprese di piccole dimensioni abbiano potuto sopravvivere così a lungo normalmente, ed anzi spesso facendo non pochi profitti. Ma anche a questo riguardo lo stupore è fuori luogo: effettivamente è possibile rintracciare un insieme ben determinato di fattori che hanno consentito alle impre­se italiane di vendere le loro merci a prezzi relativamente convenienti. Ve­diamoli:
1)    I salari bassi. Bassi — si intende — non soltanto in relazione alle grandi imprese, ma anche alle imprese concorrenti degli altri paesi industrialmen­te avanzati. Non stiamo parlando di eventi lontani nel tempo: come ci ricorda Ciocca, negli anni Novanta «la dinamica delle retribuzioni in termini reali si è attenuata anche rispetto a quella della produttività». Nonostante il gergo un po' criptico, è facile capire cosa il testo appena citato significhi; tant'è vero che lo stesso autore subito dopo aggiunge: «il salario non è fra i principali problemi presenti dell'economia italiana»56. Ma, a ben vedere, è precisamente per questo motivo che le buste paga — soprattutto alla luce del carovita che imperversa attualmente — non appaiono ulteriormente comprimibili. Si tratta quindi di un fattore non riproponibile (o, se si vuole, ormai «anelastico»). Ma c'è un problema, se vogliamo, ancora più serio: l'utilizzo esclusivo o preminente della leva del costo della forza-lavoro come fattore di competitività è un disincentivo all'innovazione di processo (è in certo qual modo regressivo, risospingendo indietro la frontiera dei profitti, dal plusvalore relativo al plusvalore assoluto)57, e spinge ad una competizione basata esclusivamente sul prezzo dei prodotti e non sulla loro qualità (con­tenuto tecnologico, innovazione, ecc.). Cosicché si finisce, naturalmente, per competere con imprese dei paesi cosiddetti emergenti, le quali comunque si giovano di un costo della forza-lavoro molto inferiore a quello italia-
no e quindi, dalla competizione su questo terreno, hanno tutto da guadagnare. Dunque, si tratta anche di un fattore che dà benefici nel breve ma ha effetti distruttivi nel lungo periodo.
2) Le svalutazioni competitive. Per decenni la competitività delle impre­se italiane è stata «dopata» per mezzo di svalutazioni competitive della lira (le quali, giova ricordarlo, rappresentano una delle più classiche forme di politica dí classe e socializzazione delle perdite, oltreché di ingiusto privile­gio attribuito ai debitori nei confronti dei creditori). Per avere un'idea delle dimensioni di questo «doping» basterà ricordare che «tra il 1971 e il 1993 la diminuzione del tasso di cambio nominale, nei confronti delle principali monete, è stata prossima al 70 per cento»38. Piccolo problema: con Pento questa storia è finita, anche se la svalutazione iniziale dell'euro nei confron­ti del dollaro (durata sino all'inizio del 2002) può aver dato l'illusione che le cose non fossero granché cambiate. Non aver capito che questo nuovo vin­colo costringeva a cambiair gioco costituisce uno dei più gravi errori stra­tegici compiuti dall'imprenditoria italiana.
3 ) Un'evasione fiscale spropositata. Che l'evasione fiscale e contributiva (grazie all'evasione in senso stretto ed al lavoro nero) abbia costituito nel corso degli anni uno dei maggiori (indebiti) vantaggi competitivi per le pic­cole e medie imprese è così poco un mistero, che alcuni autori ne parlano in premessa dai loro ragionamenti su piccole imprese e distretti industriali59. Del resto, persino Antonio Fazio, che difficilmente potrebbe essere consi­derato un acceso giacobino, ha potuto parlare di «abnorme estensione del lavoro irregolare» 60. Ed è il meno che si possa dire, in presenza di dati come questi: una media italiana di lavoro irregolare pari al 14,5% delle unità lavo­rative totali nel 2000, che diventa il 22% nel Mezzogiorno (con punte del 29, 25 e 24% in Calabria, Campania e Sicilia) ma che anche nella regione più «virtuosa» (il Piemonte) è comunque superiore al 10%; il che, tradotto in cifre assolute, fa oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori al nero secondo le elaborazioni condotte dalla Banca d'Italia su dati Istat. Ma secondo l'Euri­spes nel 2003 le cose stanno ancora peggio: la percentuale sul totale dovreb­be oscillare addirittura tra il 30% e il 48% del totale, e le cifre assolute assommare a qualcosa tra i 7 e gli 11 milioni di lavoratori in nero; in tal caso l'economia sommersa (che sfugge del tutto al fisco) varrebbe non meno di 317 miliardi di euro (il 27% dell'intero prodotto interno lordo! )6'1. Alla luce di questi dati, davvero non sorprende che l'Agenzia delle Entrate stimi l'am­montare totale dell'evasione fiscale annua come superiore a 200 miliardi di curo..

Il problema per quest'ultimo «fattore competitivo» è ovviamente in primo luogo se questa forma di — chiamiamola così — incentivazione sotto­banco sia nel lungo periodo sostenibile per il nostro «sistema paese»: e la risposta non può che essere negativa. Ma è anche un altro: íl fatto cioè che questo enorme gettito mancato si traduce inevitabilmente in servizi pubbli­ci inefficienti, inadeguata spesa per l'istruzione (siamo al 4,9% del PIL, con­tro una media OCSE del 5,9%), un bassissimo tasso di laureati (pari a un terzo rispetto a molti paesi europei ed al Giappone, e a poco meno di un quarto rispetto agli USA), carenze infrastrutturali croniche, ecc.
7. Conclusioni sulla borghesia italiana

Quanto sopra è più che sufficiente a spiegare l'attuale, gravissima crisi del capitalismo italiano. Una crisi che ci sta regalando, dal primo trimestre del 2001 ad oggi, «la più lunga fase di ristagno in mezzo secolo»62. Ma che è cominciata non appena gli effetti dell'ultima svalutazione competitiva, quella del 1995, hanno cominciato ad affievolirsi. Questo è il significato delle cifre riportate nella relazione letta dal Governatore della Banca d'Italia il 31 maggio 2003: «In cinque anni, tra il 1997 e il 2002, la produzione indu­striale ha segnato in Italia un aumento del 3 per cento. In Francia l'incre­mento è stato intorno all'i_ 1, in Germania del 12; nell'area dell'euro, esclu­dendo l'Italia, sí situa al 14 per cento... La quota delle esportazioni italiane nel mercato mondiale era progressivamente salita, tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, dal 2 al 4,5 per cento... Dalla metà degli anni Novanta è iniziato un declino della competitività che ha riportato la partecipazione ita­liana agli scambi mondiali al livello raggiunto alla metà degli anni Sessanta. A prezzi costanti, la quota di mercato è diminuita dal 4,5 per cento nel 1995 al 3,6 nel 2002. La perdita è diffusa in tutti i mercati»63. Come ormai sap­piamo, il 2003 è andato ancora peggio".

Siamo al declino di un modello di specializzazione, di un modello di­mensionale, in ultima analisi di un modello di capitalismo. E una situazione che può spingere l'Italia inesorabilmente ai margini dell'economia europea, relegandola ad un ruolo periferico nella divisione internazionale del lavoro. E’ il fallimento della borghesia italiana: tanto del drappello delle «grandi famiglie» quanto dell'esercito dei «piccoli».

Ovviamente, sarebbe sbagliato considerare la crisi italiana al di fuori del quadro di una crisi di accumulazione del capitale di portata mondiale, che è di lunga durata ma che sembra essersi decisamente approfondita negli ul­timi anni. In questa crisi si inserisce la progressiva erosione — in tutti i paesi capitalistici avanzati — del salario diretto (tramite la precarizzazione dei rap­porti di lavoro), di quello indiretto (tramite lo smantellamento dello «stato sociale» ) e di quello differito (per mezzo dell'attacco alle pensioni). In questa crisi si inseriscono anche i conflitti bellici che non a caso hanno conosciuto una vera e propria escalation nell'ultimo decennio65. Altri relatori i­llumineranno le dinamiche della crisi che si presentano oggi a livello inter­nazionale.

Ciò detto, una cosa è indubbia: se la crisi è mondiale, il caso italiano sembra però assumere una particolare gravità. In questa gravità va ricono­sciuto il fallimento della borghesia italiana, la sua incapacità di essere classe dirigente. Bisogna però intendersi sul significato di «classe dirigente», per evitare di cadere in posizioni moralistiche ed astratte. Nell'attuale fase sto­rica la borghesia dei paesi capitalisticamente avanzati ha un solo modo per essere classe dirigente: quello di svolgere diligentemente il proprio compito di «funzionario del capitale», di strumento dell'accumulazione del capitale; in questo senso — e solo in questo — la borghesia può oggi essere «classe diri­gente». Quando Claudio Napoleoni, in un suo per altri versi memorabile articolo sulla crisi del 1963, osservava che gli imprenditori «non hanno fatto che sfruttare fino in fondo le convenienze che il particolare mercato italia­no offriva loro», e da qui faceva discendere l'insostenibilità di ogni tesi che, «dal ruolo svolto dagli imprenditori nella produzione, voglia dedurre la legittimità della pretesa della borghesia a porsi come classe dirigente», era quindi vittima di un equivoco: perché, se il loro comportamento opportu­nistico favorisce l'accumulazione del capitale, precisamente per mezzo di tale comportamento i capitalisti sono classe dirigente. Dello stesso equivoco sono M fondo vittime tutti coloro - e sono molti - i quali ritengono oggi possibile giustificare l'attività dell'impresa capitalistica in quanto essa sareb­be rivolta - almeno indirettamente - a «fini sociali» . A questo riguardo bi­sognerà rispondere, con Guido Rossi, che «l'impresa capitalistica non può sopportare, per la sua stessa natura, una destinazione a 'fini sociali'. L'im­presa capitalistica ha solo in se stessa e nel proprio sviluppo il suo scopo mediato e finale»66. Detto in altri termini: il borghese (il proprietario dei mezzi di produzione) ha un solo dovere: quello di essere un buon «funzio­nario del capitale».

Certo, è un dovere che produce conseguenze paradossali. Una su tutte: quanto più il borghese (il proprietario dei mezzi di produzione, l'imprenditore) svolge con efficacia il proprio compito di «funzionario del capitale», tanto più vede svanire il proprio ruolo in quanto tale. Infatti, quanto più si procede sulla strada della concentrazione e centralizzazione dei capitali, tanto più perde di importanza la figura classica del proprietario come perno dell'organizzazione della produzione. Si tratta di un fenomeno che Marx —con lo straordinario acume che lo contraddistingueva — osservò trattando della società per azioni e ponendone in rilievo il duplice carattere progres­sivo: da un lato essa trasforma «i proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari», e quindi radicalizza la ten­denza di fondo del modo di produzione capitalistico, operando la comple­ta separazione del lavoro dalla proprietà dei mezzi di produzione; dall'altro nella società per azioni il capitale «acquista direttamente la forma di capita­le sociale (capitale di individui direttamente associati) contrapposto al capi­tale privato»: in tal senso «le imprese azionarie capitalistiche sono da consi­derarsi... come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato»67.

Il fatto è che in Italia la borghesia ha svolto assai male la propria missio­ne di funzionario del capitale. Ce lo dice già il fatto che il capitalismo italia­no viene tuttora a buon diritto definito come un capitalismo familiare. Non solo: con lo stesso buon diritto è stato individuato, tra i tratti tipici del capi­talismo italiano, «il peso delle famiglie nella grande impresa»68. Ora, non si tratta di una caratteristica formale astratta, da ascrivere ai «caratteri nazio­nali» degli italiani (come il gesticolare mentre si parla, arrivare in ritardo agli appuntamenti e simili). No: si tratta di un dato di fatto, di una «sopravvi­venza storica» che ha pesanti conseguenze sul piano pratico ed economico. Infatti il carattere familiare della proprietà:
a)       fa sì che i dirigenti d'impresa non soltanto in genere non godano di sufficiente autonomia operativa rispetto alla proprietà, ma spesso addirittu­ra coincidano con il proprietario e con i suoi discendenti, che in tal caso vengono prescelti a quel ruolo unicamente a motivo della consanguineità con il fondatore (modalità di selezione che non costituisce propriamente l'ultimo grido in fatto di modernità...);
b)       fa sì che la coincidenza dei ruoli tra manager e proprietario si verifi­chi anche in società di grandi dimensioni, e non soltanto — come scriveva Burnham — «nella sfera delle 'piccole industrie', la cui importanza storica è irrilevante»69.


[1] Questo lavoro nasce nell'ambito dell'attività di ricerca del Centro Studi per le Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES-PROTEO). Alcuni risultati di tale ricerca, qui ripresi e sviluppati, sono stati presentati in alcuni articoli pubblicati sui numeri 2/2002, 2-3/2003, 1/2004 della rivista «Proteo»: Cent'anni di improntitudine. Ascesa e caduta della Fiat, La scialuppa del Titanic. Dalla crisi ai servizi pubblici: il punto d'approdo delle grandi famiglie del capitalismo italiano, Il calabrone ha perso le ali. Le piccole e medie imprese nella crisi.
[2] Vedi U. Bertone, Capitalisti d'Italia, Boroli, Novara 2003, pp. 37, 41.
[3] R. Balducci, Capitale finanziario e struttura industriale, in F. Vicarelli (a cura di),Capitale industriale e capitale finanziario: il caso italiano, Il Mulino, Bologna 1979, p. 362.
[4] Del resto i Consigli di gestione — apertamente osteggiati dagli angloamericani — non erano mai stati formalmente riconosciuti: il decreto predisposto in proposito dal mini­stro Morandi non fu mai approvato.
[5] «Nel periodo gennaio 1945-febbraio 1948 l'intero ammontare dei finanziamenti concessi dagli Istituti speciali è ripartito tra 222 imprese, 15 delle quali ne assorbono il 28,5%»: R. Balducci, cit., p. 367.
[6] Cit. in V. Castronovo, FIAT 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Rizzoli, Milano
1999, p. 791.
[7] Soltanto dal 1954 al 1958 furono quasi 2,000 gli iscritti e simpatizzanti di partiti di sinistra licenziati dalla Fiat: cfr. G. Carocci, Inchiesta alla nAT. Indagine su taluni aspetti della lotta di classe nel complesso ni', in «Nuovi Argomenti», 1958, pp. 3-31. Va inoltre aggiunto che le nuove assunzioni venivano effettuate attraverso vere e proprie schedatu­re che consentivano di evitare operai con idee di sinistra. Le schedature della Fiat (oltre 350.000 schede!) furono rinvenute, suscitando grande scandalo, nel 1970.
[8] G. Arnendola, Lotta di classe e sviluppo economico dopo la liberazione, in Tendenze del capitalismo italiano, Atti del Convegno dell'Istituto Gramsci (23-25 marzo 1962), Editori Riuniti, Roma 1962, vol. i, pp. 179-180.
[9]   Vedi in proposito P. Peluffo (a cura di), Storia del Mediocredito Centrale, Laterza,
Roma-Bari 1997, pp. 45 sgg.
[10] A. Pesenti, V. Vitello, Tendenze attuali del capitalismo italiano, in Tendenze del capi­talismo italiano, cit., vol. i, p. 65.
[11] Ivi, p. 66.
[12] Nel 1959, ad esempio, le imposte dirette fornirono appena iI 20,9% del gettito, a fronte del 79,1% rappresentato dalle imposte indirette: G. Grilli, L. Raffaelli, Orien­tamenti di politica tributaria, in Tendenze del capitalismo italiano, cit., vol. li, p. 327.
[13] Dei 1470 milioni di dollari di aiuti del Piano Marshall le società citate assorbirono da sole oltre il 30%. La Fiat ricevette da sola il 26,4% dei fondi devoluti al settore meccani­co e siderurgico: complessivamente, ad essa andò più del 12 `)/0 della totalità degli aiuti concessi all'industria italiana; inoltre, il Piano creava le premesse per una ripresa econo­mica che avrebbe rilanciato la domanda di autovetture sul mercato italiano ed europeo.
[14] Si veda in proposito E Janossy, La fine dei miracoli economici, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 19, 86; in particolare sul «miracolo» italiano vedi pp. 95-105.
[15] Ma nell'industria il ritmo di incremento fu addirittura del 9% medio, e fu del-1'11,4% nel 1959, del 13,6% nel 1960 e del 9,5% nel 1961: vedi A. Pesenti, V. Vitello, Tendenze attuali del capitalismo italiano, cit., pp. 13-14.
[16] R. Spesso, intervento in Tendenze del capitalismo italiano, cit., vol. 1, p. 285; vedi anche la comunicazione di G. Longo, «Miracolo economico» e commercio estero nello svi­luppo dell'economia italiana nel secondo dopoguerra, ivi, vol. 11, in particolare pp. 369­370.
[17] D'Alessandro, Autofinanziamento d'impresa, Roma, 1962, p. 40; F. di Pasquantonio, intervento in Tendenze del capitalismo italiano, eh., vol. I, p. 222. L'elevato tasso di auto­finanziamento non era un fenomeno soltanto italiano: nel 1965 esso era all'85% negli Usa: vedi la prefazione di Adolf Berle all'edizione italiana di A.A. Berle jr., G.C. Means, Società per azioni e proprietà privata, Einaudi, Torino 1966, p. xxv.
[18] P. Ciofi, Alcuni aspetti dello sviluppo dei monopoli negli anni 1950-1960, in Tendenze del capitalismo italiano, cit., vol. Il, p. 142.
 [19] V. Giacché, Una legge nelle stagioni della politica industriale: storia della Sabatini, in Peluffo (a cura di), Storia del Mediocredito Centrale, cít., pp. 246 sgg.
[20] A. Graziani, Lo sviluppo dell'economia italiana, Dalla ricostruzione alla moneta euro­pea, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 88.
[21] Ivi,p. 89.
[22] Dati riportati in S. Brusco, S, Paba, Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni novanta, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italia no dal dopoguerra ad oggi, Donzelli, Roma 1997, p. 271; U. Bertone, Capitalisti d'Italia, cit., p. 113.
[23] S. Brusco, S. Paba, op, cit., pp. 324 e 308. Gli autori notano inoltre che i differen­ziali sono certamente più alti ancora. in guado non si hanno dati relativamente alle imprese sino a 20 addetti, pur aggiungendo che «molti india inducono a pensare che nei distretti industriali i differenziali salariali siano nettamente più bassi».
[24] G. De Luca, Dall'economia industriale all'«industria della finanza»: le società quotate al listino azionario della Borsa di Milano dal 1861 al 2000, in Le società quotate alla Borsa valori di Milano dal 1861 al 2000. Profili storici e titoli azionari, a cura di G, De Luca, Scheiwiller, Milano 2002, pp. 25-27.
[25] Ivi, pp. 63-64.
[26] Dati riportati in P. Ciocca, La nuova finanza in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 246.
[27] La cosiddetta «marcia dei 40 mila». Anche se in piazza non erano più di 12.000.
[28] Per le vicende dei cassintegrati FIAT si veda L'altra faccia della FIAT, a cura del Coordinamento Cassintegrati, Massari, Roma 1990.
[29] La recente santificazione di Craxi come «modernizzatore» operata da Piero Fassíno (nel libro Per passione, Rizzali, Milano 2003) la dice lunga sulla scarsa sincerità e la poca convinzione con la quale acche la parte del Pci formalmente contraria al «patto di san Valentino» combatté la battaglia referendaria contro l'attacco craxiano alla scala mobile.
[30] U. Bertone, Capitalisti d'Italia, cit., pp. 125-126.
[31] A. Graziani, Lo sviluppo dell'economia italiana, cit., pp. 148-150.
[32] Si veda ad esempio U. Marani, Finanziamenti e investimenti industriali in Italia (1966-1976), Boringhieri, Torino 1980.
[33] A. Graziani, Lo sviluppo dell'economia italiana, cit., p. 146.
[34] G. Agnelli, discorso ai dirigenti della Fiat, 25 novembre 1988. (corsivi miei)..
[35] Dati citati da A. Fazio, «Il Sole 24 Ore», 12 ottobre 2002.
[36] R & S, Multinationals: Financial Aggregates (274 Companies). 2002 edition, Milano, gennaio 2003. La ricerca è scaricabile dal sito internet www.mbres,it. Per la cronaca, i dati sulla produttività ed il costo del lavoro sono stati riportati anche da «Il Sole 24 Ore», i128 gennaio 2003. In una tabella e non nel titolo, come è ovvio...
[37] Consob, Relazione per l'anno 2002, pp. 4, 7.
[38] L'ex Presidente della Consob, Spaventa, ha così descritto la situazione: «l'esercizio del controllo con un impegno più modesto nella proprietà viene sovente ottenuto ricor­rendo a lunghe e complicate strutture piramidali» (Incontro annuale con il mercato finan­ziario, 8 aprile 2002, p. 11).
[39] Vedi, rispettivamente, M. Mucchettí, op. ci1., p. 52, ed il titolo in prima pagina del quotidiano finanziario «MF» del 17 luglio 2003.
[40] 0. De Paolini, La classe che non c'è più, «Borsa & Finanza», 19 ottobre 2002.
[41] Su questo ed altri aspetti delle motivazioni addotte per le privatizzazioni vedi R. Martufi, L.Vasapollo, Vizi privati... senza. pubbliche virtù. Lo stato delle privatizzazioni e il Reddito Sociale Minimo, Mediaprint, Napoli 2003, p. 82.
[42] Al riguardo vale la pena di riproporre quanto scriveva Lenin poco meno di 90 anni fa: «La 'democratizzazione' del possesso di azioni, dalla quale i sofisti borghesi e gli opportunisti `pseudosocialdemocratici' si ripromettono (o fingono di ripromettersi) la `democratizzazione del capitale', l'aumento di importanza e di funzione della piccola produzione, ecc., nella realtà costituisce un mezzo per accrescere la potenza dell'oligar­chia finanziaria» (V.I. Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916-7; tr. it. in Scritti economici, a cura di U. Cenoni, Roma 1977, p. 535).
[43] Consob, Relazione per l'anno 2002, p. 3.
[44] «Il Sole 24 Ore», 20 ottobre 2002.
[45] S. Cingolani, I boiardi son spariti, dove sono i capitalisti?, «Il Riforrnista», 17/5/2003.
[46] S. Brusco, S. Paba, Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopo­guerra agli anni novanta, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopo­guerra ad oggi, Donzelli, Roma 1997, p. 320.
[47] P. Ciocca, L'economia italiana: un problema di crescita, relazione letta alla Società Italiana degli Economisti, Salerno, 25 ottobre 2003, n. 25.
[48] M. Sarcinelli, Imprese, la sfida di essere grandi, «Il Sole 24 Ore», 22 febbraio 2003.
 [49] Indagine sulle imprese manifatturiere, cit., p. 7. Del pari significativo che le uniche imprese a fare eccezione siano proprio quelle grandi.
[50]  Vedi: M. Fortis, cit., p. 74; Indagine sulle imprese manifatturiere. Ottavo rapporto sul­l'industria italiana e la politica industriale, Capitalia, Roma, dicembre 2002, p. 34; Rela­zione del governatore sull'esercizio 2002, maggio 2003, pp. 260, 268. Considerazioni ulte­riori meriterebbero le modalità di erogazione del credito, che in Italia avvengono attra­verso il «multiaffidamento» (ossia il rapporto contemporaneo con più banche, al fine di poter operare in maniera meno trasparente), ed alle prospettive derivanti dall'adozione dei nuovi requisiti patrimoniali previsti dall'accordo internazionale che va sotto il nome di «Basilea H»: i due temi sono legati tra loro, nel senso che l'accordo, basando ín misu­ra maggiore la valutazione del merito di credito su elementi oggettivi (ossia quantitativi), rafforza l'esigenza di una maggiore trasparenza dei bilanci delle imprese. Precisamente per questo motivo esso è così aversato in Italia dalle rii e dal commercialista che le rap­presenta al governo.
[51] P. Ciocca, L'economia italiana, cit., p. 4.
[52] M. De Cecco, Piccole imprese, banche, cOninzercialisti. Note sui protagonisti della seconda indusirializzaziane italiana, relazione al convegno L'economia italiana e l'Europa. Vent'anni di tasformazioni, crisi e opportunità, Urbino, 14 marzo 2003, p. ll (vedi anche pp. 5-6).
[53] L'apertura di un'impresa italiana ad investitori istituzionali è evento così raro che merita articoli (tra l'ammirato ed il perplesso) sui giornali. Si veda ad esempio E. De Rosa, Ai fondi i tesori del made in Italy, «Il Corriere della Sera», 10 novembre 2003.
[54] K. Marx, Il Capitale, L m, cap. 15, cit., p. 303. Coerentemente, Marx vedeva nelle «imprese azionarie capitalistiche» una forma superiore di configurazione societaria rispetto alle imprese di proprietà di un singolo capitalista: vedi Il Capitale, 1. Fu, cap. 27, partic. pp. 522-523.
[55] G.M. Gros-Pietro, E. Reviglio, A. Torrisi, Assetti proprietarie mercati finanziari euro­pei, Il Mulino, Bologna 2001, p. 347. È appena il caso di notare come il passo citato riprenda di fatto (consapevolmente o meno) l'analisi marxiana.
[56] P. Ciocca, L'economia italiana, cit., p. 6. A fugare ogni dubbio al riguardo bastereb­bero i dati riportati dall'autore alla nota n. 18 della sua relazione.
[57] Questo e non altro è il significato concreto di quanto si legge in un passo della Relazione sul 2002: «La moderazione salariale e la maggiore flessibilità dei rapporti di lavo­ro sono da alcuni anni all'origine della crescita del numero di occupati, sebbene soprat­tutto in attività caratterizzate da bassi livelli di produttività» (p. 94; corsivi miei).
[58] Considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia, 31 maggio 2003, p. 15.
[59] S. Brusco, S. Paba, op. cit., p. 265.
[60] Nelle Considerazioni finali, cit., p. 20.
[61] Vedi Relazione sul 2002, cit., pp. 139-140, 149; S. Tamburello, Economia sommersa a quota 317 miliardi nel 2003, «Corriere della Sera», 25 agosto 2003. Cfr. anche E Schneider D.H. Ernste, Shadow EC0120121iCS: Size, Causes and Consequences, in «journal of Economie Literature», 2000, p. 104.
[62] P. Ciocca, L'economia italiana, cot,, p. 1.
[63] Considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia, 31 maggio 2003, pp. 15-16.
[64] V. Chierchia, E. Pagnotta, made in Italy soffre ancora, «Il Sole 24 Ore», 23 gennaio 2004.
[65] In argomento si veda Il piano inclinato del capitale, a cura di L. Vasapollo, jaca Book, Milano 2003.
[66] Vedi, rispettivamente: C. Napoleoni, Nota sulla congiuntura economica italiana (1964), riprodotto in A. Graziani (a cura di), L'economia italiana: 1945-1970, Il Mulino, Bologna 1972, p. 301; G. Rossi, &forma dell'impresa o riforma dello Stato? (1976), in G. Rossi, Trasparenze e vergogna. Le società e la borsa, II Saggiatore, Milano 1982, p. 20.
[67] K. Marx, Il Capitale,l. III, cap. 27, Editori Riuniti, Roma 1968, vol. III, torno I, pp. 518 sgg.
[68] N. Colajanni, L'economia italiana dal dopoguerra a oggi, Sperling & Kupfer, Milano 1989.
[69] J. Burnham, La rivoluzione manageriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 75.