STORIA E
CARATTERISTICHE DELLA BORGHESIA ITALIANA DAL DOPOGUERRA AD
OGGI [1]
di
Vladimiro
Giacché (PDF)
«La Fiat potrebbe
riuscire benissimo in qualunque regime economico, liberista o
vincolista moderato, perché in Italia l'industria meccanica in generale e
quella automobilistica ín particolare, se pure hanno deficienza di materie, possono contare
su un mercato basso della manodopera più che altrove e per decenni».
(V. Valletta, testimonianza resa alla Commissione
economica del ministero per la Costituente, 6 aprile 1946)
Una volta che
il sistema economico avesse manifestato la possibilità di conseguire in
breve tempo il traguardo della piena occupazione, tutta l'arretratezza della nostra struttura produttiva, il cui peso era sempre stato
scaricato sui salariati proprio in conseguenza della disoccupazione, sarebbe
venuta alla luce e avrebbe preteso soluzioni ben diverse dalla semplice copertura
costituita dal basso livello salariale».
(Napoleoni, Nota sulla congiuntura economica italiana, 1964; riprodotto in L'economia italiana: 1945-1970, a cura
di A. Graziani, Il Mulino, Bologna 1972, p. 302)
1. Dalla Liberazione alla vittoria del «Quarto
partito» (1945-1947)
Il dopoguerra sembra
aprirsi all'insegna di una forte discontinuità. A cominciare da Torino, la
città simbolo del capitalismo industriale italiano. Nell'aprile 1945 gli
operai assumono il controllo della Fiat, dopo averne impedito in armi la
distruzione da parte dell'esercito nazista in fuga. Il 25 aprile un decreto del
Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia istituisce i Consigli di
gestione delle fabbriche. Il 28 dello stesso mese la radio annuncia l'apertura di
un procedimento di epurazione nei confronti di Agnelli e Valletta. Ai primi di maggio del 1945 si
insediano alla Fiat quattro commissari
nominati dal Comitato di Liberazione Nazionale, tra i quali il comunista Santhià. Sono essi a gestire la Fiat per
qualche mese, affiancati da un
Comitato di gestione espresso dagli operai. Si tratta però di una discontinuità
solo apparente: ben presto, infatti, la procedura di epurazione viene chiusa
su pressione delle autorità alleate, e Valletta — richiamato alla Fiat —riprende nelle sue mani tutte le leve del potere
aziendale.
La continuità economica
tra l'Italia fascista e l'Italia del dopoguerra è ben espressa da questo
episodio. Dopo una breve parentesi si riafferma infatti una chiara
continuità tanto negli assetti del potere economico, quanto nella titolarità di tale
potere da parte dei gruppi dominanti della borghesia italiana. Basta
considerare quanto scriveva nel 1939 Ettore Conti, presidente della Confindustria e
della Banca Commerciale: «in questo periodo... si è venuta formando
un'oligarchia finanziaria che ricorda, in campo industriale, l'antico
feudalesimo. La produzione è in gran parte controllata da pochi gruppi, a ognuno
dei quali presiede un uomo. Agnelli, Cini, Volpi, Pirelli, Donegani, Falck, e
pochissimi altri dominano completamente i vari rami dell'industria». Con poche
eccezioni, si tratta degli stessi nomi che ritroveremo nelle cronache del dopoguerra. Le 30
grandi società anonime che nel 1938 possedevano un terzo del capitale azionario
italiano (Fiat, Pirelli, Olivetti, Montecatini...) sono le stesse che
costituiranno l'oligopolio industriale del dopoguerra2. Di fatto, come è
stato osservato, «la struttura del potere finanziario, sia nel settore industriale sia
in quello dell'intermediazione, era uscita intatta, se non rafforzata, dalla
guerra»3.
Del resto, l'Italia rientra assai
presto nel consesso dei principali paesi capitalistici, ormai sotto l'egemonia statunitense: il 2
ottobre 1946 aderisce agli accordi di Bretton
Woods, l'anno successivo entra nel Fondo Monetario Internazionale e nella Banca
Mondiale. Ma íl 1947 è decisivo soprattutto per il viaggio negli Usa di De Gasperi, l'estromissione dei
comunisti e dei socialisti dal governo e la
politica deflazionistica di Einaudi: quest'ultima, operando una violenta stretta
creditizia, determina la crisi di molte imprese (soprattutto piccole), un aumento della disoccupazione, e
quindi uno spostamento dei rapporti di
forza a favore del padronato che risulterà decisivo per decretare la fine dell'esperienza
dei Consigli di gestione4. Abbiamo così, ad un tempo, l'innesco di
un significativo processo di concentrazione industriale — favorito anche dalla selettività del credito a
medio e lungo termine5 e una riconferma del controllo padronale sui luoghi di
lavoro.
E la vittoria per il
«quarto partito», il «partito» della borghesia: questo partito, in verità il
primo per importanza, ha già trovato nella Dc il suo nuovo rappresentante
istituzionale (tanto più efficace in quanto formalmente «interclassista»), e
troverà nel trionfo elettorale del 1948 il sigillo del proprio riconfermato
potere.
2. L'Italia del
«miracolo» (1948-1962)
Il 18 aprile del 1948, al
termine di una campagna condotta con argomenti terroristici, che vede mobilitata direttamente
la Chiesa cattolica, il Fronte Popolare formato da comunisti e socialisti conosce
una bruciante sconfitta, mentre la Dc conquista la maggioranza assoluta. Le
conseguenze sui rapporti di lavoro non si fanno attendere.
Alla Fíat, Valletta
interpreta il risultato elettorale come il segnale, a lungo atteso, per
ripristinare un ferreo controllo sulla forza-lavoro: «si può affermare
chiaramente che il risultato delle elezioni del 18 aprile — afferma in una riunione del
Comitato direttivo Fiat — ha avuto un significato principale, quello che da
parte di tutti c'è un desiderio di troncare con gli indugi, i rinvii, le discussioni
e, attraverso ordine e disciplina, giungere a concrete, positive realizzazioni»6.
La posta in gioco non è soltanto politica (colpire la forte presenza comunista
e socialista in fabbrica): si tratta di mantenere i salari quanto più
possibile bassi e al tempo stesso procedere, senza più doversi confrontare con
la resistenza da parte dei lavoratori (ed in particolare degli operai
specializzati), alla «razionalizzazione» dei metodi produttivi sotto l'egida del
fordismo, che di fatto solo nel secondo dopoguerra avrebbe definitivamente
trionfato alla Fiat. Detto fatto: dopo pochi mesi, Valletta mette al bando
i Consigli di gestione, dando inoltre il via a provvedimenti discriminatori
nei confronti di militanti comunisti e socialisti. A partire dal 1949 saranno
diverse migliaia i licenziamenti per «motivi disciplinari», i trasferimenti in
un apposito «reparto confino», l'Officina Sussidiaria Ricambi (ribattezzata
Officina Stella Rossa), come pure i casi di sospensione dei passaggi di categoria
e di adibizione a mansioni più faticose e dequalificanti7. Ed infine vincerà
Valletta: alle elezioni per le Commissioni Interne del 29 marzo 1955 la Fiom-Cgil crollerà dal
63,2% al 36,7% dei voti, perdendo metà dei suoi delegati.
Sarebbe però sbagliato
vedere negli anni Cinquanta soltanto una serie ininterrotta di sconfitte per il
movimento operaio. Perché se è vero che la controffensiva della borghesia mise a segno
importanti risultati, favorita anche dalla rottura dell'unità sindacale (per cui fornì
il pretesto la mobilitazione successiva all'attentato a Togliatti del 14 luglio
1948, ma che era già stata preparata da tempo), bisogna però ricordare che nel
1949-50 la resistenza operaia riuscì comunque ad imporre nel complesso
il rispetto del blocco dei licenziamenti. Questo ebbe due conseguenze: da
un lato, «il capitalismo italiano fu costretto a ricercare una nuova via,
quella dell'ammodernamento degli impianti e del rinnovo delle tecniche
produttive, di un più rapido progresso tecnologico per ottenere dalla massa
degli operai occupati una produzione sempre maggiore»; dall'altro, «le lotte
operaie contro i licenziamenti e per la difesa dell'industria, se resero
più difficili le lotte per le rivalutazioni salariali e rinviarono quelle per un
aumento dei salari reali, permisero tuttavia di mantenere una forte unità tra
operai occupati e disoccupati» (in altri termini, «i gruppi dominanti non
riuscirono a trasformare la massa dei disoccupati in una forza manovrabile
politicamente contro gli operai occupati»)8.
Inoltre, il «Piano del
lavoro», lanciato da Di Vittorio nel 2° congresso della Cgil (ottobre
1949), poneva all'ordine del giorno la necessità di una politica per
l'occupazione basata su forti investimenti in opere pubbliche, un piano nazionale per
l'edilizia popolare, nazionalizzazione delle aziende elettriche, bonifiche e
trasformazioni della proprietà fondiaria. Il successo politico del Piano fu
notevolissimo: esso pose il governo sulla difensiva e bloccò i progetti di
liquidazione dell'Iri. La stessa creazione della Cassa per il Mezzogiorno fu
una risposta al successo del «Piano del lavoro»9. Più in generale, si affermò
l'idea della necessità di un intervento pubblico per il rilancio dell'economia.
Non si trattava di una novità: è ben
noto, infatti, che l'industrializzazione stessa del nostro Paese fu fortemente
sostenuta da investimenti pubblici sin dai suoi albori. Ma forse si può dire di più: lo
Stato ha spesso, sin dal tardo Ottocento,
sostituito la borghesia italiana, tendenzialmente più dedita alla rendita (ad esempio
fondiaria) che agli investimenti industriali; tanto che si è potuto parlare di
un'«industrializzazione senza imprenditori» (F. Amatori, P.A. Toninelli); di fatto, come è stato detto,
«la presenza dell'intervento pubblico
nell'economia è da noi all'origine stessa della formazione dell'industria rnoderna»10.
In particolare, la prima guerra mondiale rappresentò il vero e proprio volano per la costruzione della
grande industria in Italia, grazie al
trasferimento forzoso di immensi flussi di capitali dal consumo privato agli investimenti
industriali che allora ebbe luogo. In epoca fascista fu ancora lo Stato a soccorrere le grandi imprese
in crisi, attraverso la creazione dell'Iri e con
il salvataggio del sistema bancario su cui gravavano le immobilizzazioni dei crediti fatti
alle grandi imprese e consistenti pacchetti azionari delle imprese stesse; cosicché «nelle
mani dell'Iri vennero a trovarsi quei settori dí
base (siderurgico, cantieristico, meccanico, armatoriale) che prima si erano sviluppati
col sostegno precipuo dello Stato»11.
Nel dopoguerra
l'intervento pubblico si conferma un sostegno essenziale del capitalismo
privato, ed anzi accresce il proprio ruolo di sostegno dei profitti secondo
molteplici direttrici, che possono essere così schematizzate:
1)
Misure di sostegno della produzione e dell'esportazione
(crediti agevolati all'esportazione, sgravi fiscali e rimborsi dí imposta).
2)
Politica fiscale
sostanzialmente regressiva (in contrasto con la Costituzione) e imperniata sulle imposte
indirette12; la stessa imposta sulle società, introdotta nel 1954, è
congegnata in modo da favorire i grandi gruppi.
3)
Cospicui investimenti in infrastrutture e di sostegno al
reddito nel Mezzogiorno (Cassa del Mezzogiorno). Questi investimenti sono insufficienti
a far decollare uno sviluppo autonomo del Meridione, che di fatto finisce per svolgere il
duplice ruolo di fornitore di manodopera alle grandi imprese del Nord
(rappresentando un serbatoio di forza-lavoro che contribuisce a tenere bassi i
salari) e di domanda per i manufatti prodotti dalle industrie del Nord.
4)
Proprietà statale di mezzi di produzione in settori
strategici: creazione dell'Eni, che consente di fornire al sistema produttivo
le risorse energetiche di cui ha bisogno, anche in contrasto con i grandi
monopoli internazionali (la qual cosa nel 1962 costerà la vita a Mattei);
sviluppo della siderurgia pubblica (Iri, «Piano Sinigaglia»).
5)
Forti investimenti
diretti dello Stato e delle imprese statali, che giungono a rappresentare un terzo degli
investimenti industriali totali. Falliscono, invece — et
pour cause tentativi di coordinare l'intervento
diretto dello Stato nell'economia
introducendo elementi di programmazione economica: Piano Vanoni (1955), costituzione del ministero per
le Partecipazioni Statali (1956). Il che
rende assai impropria la definizione dello Stato come «imprenditore globale» cara a
Pasquale Saraceno.
6)
Progressiva apertura agli scambi internazionali:
dall'ingresso nell'orbita economica statunitense con il Piano Marshall (i cui
aiuti andarono in misura prevalente a Fiat, Pirelli, Finsider, Edison)13,
sino alla fondazione, nel 1957, del Mercato Comune Europeo; il tutto viene
effettuato senza smantellare del tutto le barriere all'importazione di
prodotti stranieri, quindi continuando a seguire la politica di «fabbricare
fabbricanti».
Sulla base di queste
premesse si può affrontare con qualche serietà il tema del grande sviluppo
economico che il capitalismo italiano conobbe a partire dalla seconda metà
degli anni Cinquanta e sino al 1962. Come è noto, si tratta di un
argomento che viene spesso banalizzato parlando di «miracolo economico». Ma i
miracoli non esistono: né in economia, né altrove. Lo sviluppo economico italiano
degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta non fa eccezione. Esso coincise in
verità con un periodo di ricostruzione e rappresentò più propriamente una «ripresa economica
straordinariamente rapida» che succedette alla immane distruzione di
capitali che aveva avuto luogo con la seconda guerra mondiale14.
In verità, gli
elevatissimi tassi di sviluppo che effettivamente si ebbero in quegli anni (un tasso di
incremento del prodotto interno lordo del 5% medio dal 1950 al 1958, che crebbe al
6-7% nel 1959-1961)15 furono resi possibili da una serie di condizioni
poco «miracolose» e molto concrete:
1)
una forte ripresa degli scambi internazionali;
2)
prezzi bassi delle materie prime, a cominciare da quelle
energetiche;
3) un forte intervento pubblico in
economia;
4)
oneri fiscali inferiori a quelli dei paesi concorrenti
(grazie anche all'evasione
fiscale);
5) salari bassi.
L'ultimo aspetto è quello
fondamentale: in effetti, se nel periodo considerato i principali indici economici italiani si
avvicinarono notevolmente a quelli dei paesi capitalistici più avanzati, ciò
avvenne in misura molto minore per quanto riguarda i salari. L'accrescimento dei salari risultò assai
inferiore a quello della
produttività: in concreto, a fronte dí un raddoppio della produttività del lavoro, si ebbe un
aumento dei salari pari appena al 30%; tanto che si poté a buon diritto affermare che «la
caratteristica fondamentale dell'attuale
situazione economica italiana è quella dell'
eccezionalmente basso andamento dei redditi da lavoro
dipendente sul reddito nazionale, il più basso di quello registrato nei paesi
capitalisticamente avanzati»16.
Per conseguenza, le imprese videro
crescere in misura notevolissima i profitti
ed il tasso di autofinanziamento, che nel 1959 raggiunse 1'80% degli investimenti complessivi lordi: nello stesso anno,
l'emissione di azioni e obbligazioni
coprì soltanto il 12% degli investimenti privati, e gli impieghi degli istituti di credito mobiliare soltanto l'8%17.
Contemporaneamente, si accrebbe
il peso della grande industria sia
rispetto al prodotto nazionale complessivo
(il fatturato delle maggiori imprese crebbe in misura all'incirca doppia rispetto alla crescita del reddito nazionale),
sia in termini di assorbimento di forza-lavoro. E, ovviamente, anche in
termini dí potere economico (e non
solo). In questi anni cresce notevolmente il processo di concentrazione tra imprese (dal
1955 al 1960 l'incidenza del capitale delle prime 15 società per azioni sul
totale del capitale azionario passò dal 17% al 19,8%)18; e questo nonostante che, nell'Italia Settentrionale e in
parte di quella Centrale, sorgessero
numerose nuove imprese attorno ai grandi poli industriali (o comunque in rapporto con essi).
In definitiva, gli anni
del «miracolo economico», se da un lato vedono l'affermarsi (per la prima volta
nella storia d'Italia) di una borghesia industriale degna di questo nome ed un
ruolo indubbiamente progressivo della borghesia di Stato, dall'altro vedono l'irrobustirsi
delle maglie del potere oligopolistico dei grandi monopoli privati. Si tratta per
di più di un potere in cui il necessario allargamento della base finanziaria
avviene in modo da tutelare (nel modo meno oneroso possibile) gli assetti di
comando caratteristici del capitalismo familiare all'italiana. Un esempio
per tutti: nel 1962 — sotto l'accorta regia della Mediobanca di Cuccia — viene
allargata la base finanziaria dell'Ifi, la finanziaria della famiglia
Agnelli che controlla non soltanto la Fiat, ma qualcosa come l'11% del sistema
industriale italiano; la cosa viene fatta attraverso il collocamento in Borsa di
azioni privilegiate: in questo modo la famiglia Agnelli può mantenere í1
controllo sulla società senza dover investire altro denaro.
La tentazione di far ruotare i
profitti attorno alle due variabili fondamentali dei prezzi di monopolio
e dei bassi salari, anziché
spingere sugli investimenti attraverso
un reale allargamento della base finanziaria delle società possedute, è insomma una
tentazione irresistibile per i centri di comando della borghesia italiana. L'economia italiana la
pagherà a caro prezzo.
3. La via italiana alla crisi (1963-1972)
A gennaio 1963 viene
firmato il contratto nazionale dei metalmeccanici, che prevede discreti
aumenti salariali. Ma già l'anno precedente una serie di scioperi aveva costretto
la Fiat ad intavolare negoziati anche con la Fiom, con la quale da 8 anni
l'azienda si rifiutava anche solo di trattare; e nello stesso 1962 i disordini
di Piazza Statuto a Torino avevano tra l'altro evidenziato con chiarezza la
ripresa in forme nuove di una forte conflittualità operaia. Il risultato era
stato un contratto aziendale che prevedeva tra l'altro la contrattazione degli
incentivi (prima assolutamente discrezionali) e una qualche forma di controllo
sindacale sui tempi di lavoro.
Si tratta di risultati
tutt'altro che dirompenti, tenuto conto del fatto che, stando agli stessi dati
ufficiali della Fiat, nel periodo 1954-1960 il salario di un operaio di terza
categoria era cresciuto del 38%, a fronte di un fatturato quasi raddoppiato
(+98%), e di profitti netti addirittura quadruplicati. Ed era inoltre un
fenomeno del tutto fisiologico, alla luce del fatto che nel 1962 l'Italia aveva
raggiunto la piena occupazione. Tra l'altro, proprio a motivo della scarsità di
manodopera, già da qualche anno in molte imprese manifatturiere del triangolo
industriale sí era avuto uno «slittamento salariale» (Con stipendi di fatto
superiori a quelli contrattuali): pertanto ín molti casi i contratti del
1962/63 non avevano fatto altro che riallineare i salari contrattuali a quelli
di fatto19.
Ma il padronato non
accettò questa nuova situazione. Tentò di recuperare i margini di profitto aumentando
i prezzi, ciò che comportò un aumento dell'inflazione. A questo punto le autorità
monetarie si trovarono di fronte ad un bivio: salvare l'equilibrio monetario interno e
negli scambi con l'estero (nel 1962 si era avuto un lieve disavanzo della
bilancia dei pagamenti, che si accrebbe l'anno successivo), o favorire il
mantenimento di un elevato tasso di sviluppo e proseguire nella politica di
liberalizzazione degli scambi già avviata. Si risolsero per la prima soluzione: e, di
concerto con le autorità politiche, operarono una dura stretta creditizia.
Risultato: la bilancia dei pagamenti tornò in attivo e l'inflazione fu domata, ma al
prezzo di una severa recessione; il che comportò una severa caduta del tasso
di accumulazione, una caduta degli investimenti nell'industria
dell'ordine del 20%, ed un forte aumento della disoccupazione (+200.000 unità nel
solo 1964). Ovviamente, questo consentì di contenere le spinte salariali per
qualche anno — la qual cosa rappresentava il vero obiettivo della manovra
—.
In questa circostanza la
borghesia italiana (unitamente ai suoi rappresentanti politici e monetari) mise
ín evidenza tutti i propri i salari bassi venivano dí fatto considerati come la vera
«variabile indipendente» dello sviluppo; molto minore era l'importanza attribuita
agli aumenti di produttività del lavoro. Come si vedrà, questo atteggiamento
rappresenterà una costante sino ai nostri giorni. Ma non è tutto: nel 1963
comincia a prodursi in misura massiccia un fenomeno che diventerà un'altra
costante per molti anni della storia italiana, ossia l'esportazione di
capitali. L'occasione è offerta da due provvedimenti assunti dal governo di
centro-sinistra da poco insediatosi: l'introduzione della imposta cedolare sui
redditi dei titoli azionari e la nazionalizzazione dell'energia elettrica.
Quello dell'esportazione dei capitali
è un fenomeno che si presta a diverse considerazioni. Intanto, esso conferma la natura di
classe dei provvedimenti di politica
monetaria assunti nel 1963. Infatti, come è stato osservato, alla luce dell'esportazione di
capitali «sostenere che la bilancia dei pagamenti era passiva, e che tale passivo giustificava una
politica di restrizione della produzione interna, era doppiamente in malafede.
In primo luogo perché, seguendo questa
strada, si comprimeva la produzione interna e si creava disoccupazione soltanto per
compensare le fughe di capitali; il che significava lasciare lavoratori
disoccupati per consentire ai finanzieri di portare i loro capitali al riparo dal fisco. In
secondo luogo perché le fughe di capitali avvenivano... attraverso le banche»; e quindi la Banca
d'Italia avrebbe potuto esercitare
maggiori controlli, «invece di lamentarsi, accusare gli speculatori, ma nella
sostanza chiudere un occhio e permettere che le fughe di banconote continuassero» 20.
Ma non è tutto: infatti la
nazionalizzazione dell'energia elettrica non fu un esproprio puro e semplice. Al contrario: l'indennizzo
ammontò a 1500 miliardi di lire dell'epoca. Fu il governatore della Banca
d'Italia, Guido Carli, a volere — e ottenere
— che questi soldi fossero versati direttamente alle società, nella convinzione che essi
sarebbero stati adoperati per investimenti produttivi. Tutto sbagliato: non più della metà di
tale cifra finì in questo modo (l'altra metà finì
in speculazioni immobiliari e valutarie); e fu soprattutto la Sip (passata sotto il
controllo dell'Iri) ad adoperare il denaro ottenuto per investimenti nella rete telefonica.
Nel complesso, dal 1964 gli
investimenti industriali effettuati dalle imprese private crollano ad un
misero 3,6% annuo, Sono invece le partecipazioni statali ad effettuare i maggiori investimenti. Ma
cominciano anche ad accumulare debiti e ad
assorbire aziende private in crisi. In compenso, le imprese private tornano a vedere
profitti. In che modo? Non attraverso «costosi» investimenti in impianti di produzione, ma per
mezzo di più economiche modifiche organizzative interne: cioè forti aumenti
dei ritmi di lavoro, ricorso agli
straordinari, agli incentivi individuali ed al cottimo; così da ottenere un aumento della produzione
a fronte di una diminuzione della forza-lavoro occupata21. Mentre il
centro-sinistra si trastulla con la «programmazione economica», destinata a restare un libro dei
sogni, il padronato reagisce alla crisi
in maniera piuttosto miope: puntando tutto sull'intensificazione dei ritmi
di lavoro, e niente
sull'allargamento del mercato interno. Ancora una volta, i salari bassi come unica leva
competitiva. Nel frattempo, le condizioni
reali dei lavoratori nelle città industriali del Nord peggioravano, anche per l'assenza di
strutture sociali adeguate a reggere l'ondata migratoria dal Sud.
Il tappo doveva saltare. E saltò. Nel
giugno del 1969 un gruppo di operai e impiegati della Pirelli crea il primo Comitato
Unitario di Base (cuB), negli stessi giorni
avviene il primo sciopero «selvaggio» (cioè autorganizzato) all'Officina 54
della Fiat a Mirafiori. Nel settembre scoppia l'«autunno caldo», dando il via ad una serie di
lotte che consentiranno di conquistare tanto il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, la
settimana lavorativa dí 40 ore e il diritto di
assemblea (dicembre 1969), quanto lo Statuto dei lavoratori (1970) ed il
riconoscimento dei Consigli di fabbrica (1971). La controffensiva delle classi dominanti
non si fa attendere, ed è condotta secondo diverse direttrici. La strategia della tensione, messa
in opera dai servizi segreti (italiani e USA) e dai fascisti, ne è
parte integrante: nel dicembre 1969, pochi
giorni dopo l'imponente manifestazione operaia che aveva sancito la chiusura
positiva del contratto di lavoro, scoppia una bomba alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano. Si tenta
inoltre uno spostamento a destra del
quadro politico, con i disordini fascisti di Reggio Calabria e la formazione di un governo di centro-destra. La
risposta più importante — e che qui
più interessa — viene però data sul piano economico, e segue le due direttrici del decentramento e della
finanziarizzazione.
4. Decentramento produttivo e finanziarizzazione
(1970-1980)
Se consideriamo il periodo che va
dagli anni Cinquanta agli anni Novanta dal punto di vista dei cambiamenti nella dimensione
delle imprese, cí accorgiamo del succedersi di due
linee di tendenza tra loro contraddittorie.
Nei primi due decenni assistiamo ad
un importante fenomeno di concentrazione industriale, conseguente a due processi: in primo luogo la creazione di un mercato nazionale, che
comporta un forte ridimensionamento delle attività artigianali tradizionali e più in generale
l'uscita dal mercato di numerose piccole imprese
a dimensione locale-regionale (entrambi i fenomeni sono particolarmente
evidenti nel Mezzogiorno); in secondo luogo, l'integrazione economica europea, che impone una
ristrutturazione dell'apparato produttivo nei
settori più esposti alla concorrenza internazionale. Entrambi i processi
concorrono a far sì che il peso delle piccolissime imprese (quelle con meno di 10 addetti)
passi in vent'anni da un terzo (1951) ad un quinto (1971) dell'occupazione
manifatturiera totale.
Dopo il 1971, però, lo scenario
cambia completamente. Riprende a crescere l'occupazione nelle imprese sotto i 50 addetti: dal
42% del 1971 si passa al 48% del 1981,
per giungere al 58% del 1991. Il processo opposto si registra nella media e grande
impresa: le imprese con più di 500 addetti, in particolare, vedono scendere la percentuale relativa
di forza-lavoro occupata di ben 11 punti dal 1971
al 1991. Ancora più eclatante quanto accade alle imprese con più di 1.000 dipendenti: se dal 1961
alla fine del decennio l'occupazione ín queste
imprese era cresciuta del 34,7% (a fronte di una crescita dell'occupazione nell'industria del 17,6%),
negli anni Settanta il percorso si inverte: dal
1971 al 1980 si ha un calo del 9,7% (a fronte di una crescita dell'occupazione del 12 %)22;
e il calo dell'occupazione nella grande industria continuerà per tutto il ventennio
successivo.
È dal censimento del 1971 che
possiamo fare datare l'«irresistibile ascesa» delle piccole e medie imprese italiane. Si tratta di
un fenomeno che ha dato luogo ad una folta
letteratura apologetica, che ne ha fatto l'elemento (positivamente)
caratterizzante l'economia italiana: così, sin dagli anni Settanta si è parlato di «Italia dei
distretti industriali» (Becattini), di «terza Italia» (Bagnasco), di «capitalismo molecolare» (Bonomi).
Secondo queste impostazioni, sono le
piccole e medie imprese a rappresentare il punto di forza dell'economia italiana,
contraddicendo tutte le teorie economiche che fanno delle economie di scala un importante —
se non indispensabile — vantaggio
competitivo.
La verità, come spesso succede, è
molto più prosaica delle teorie con cui si cerca di spiegarla. Il successo delle Pmi nasce dai
problemi della grande industria. Quest'ultima,
infatti, grazie all'accresciuta forza e consapevolezza della classe operaia, non può più
adoperare la leva dei bassi salari e vede quindi ridursi drasticamente i margini di profitto. E
reagisce esternalizzando produzioni, per colpire il sindacato
e la capacità di contrattazione della classe operaia. Questo si traduce, come
subito denunciato dal sindacato, in salari più bassi, straordinari più frequenti, diffusione
del lavoro nero, più in generale minori tutele
per il lavoro. Del resto, i numeri parlano da soli: posti pari a 100 i salari delle
imprese maggiori, i salari delle imprese da 20 a 50 addetti erano pari a 67 nel 1974-7 e pari a 71 ancora
alla fine degli anni Ottanta23.
Come ovvio risultato, la quota dei profitti lordi sul valore aggiunto risultò più alta nelle piccole
imprese che nelle grandi in tutto il periodo considerato.
Di poco posteriore alla strategia del
decentramento produttivo, fu quella della finanziarizzazione.
Essa si delineò con chiarezza a seguito dei due eventi economici fondamentali che
segnarono l'inizio degli anni Settanta: la fine della convertibilità del dollaro in oro (agosto
1971), che diede inizio a ripetute crisi valutarie
internazionali e costrinse la lira alla fluttuazione del cambio (1973); e la
crisi petrolifera del 1973, che sancì la fine del periodo delle materie prime a basso prezzo (e
colpì l'Italia in misura particolare). Ed ecco cosa successe, secondo uno dei migliori studi di
sintesi sulle vicende della Borsa italiana: «A scorrere l'elenco delle società
via via ammesse al listino azionario della
Borsa milanese... si percepisce, forse meglio che da qualsiasi altro osservatorio, la
tendenza dell'élite del capitalismo italiano a esercitare, dalla crisi petrolifera del 1973, sempre meno
l'industria e sempre più la finanza, intesa non
come mezzo- per sostenere la crescita della produzione, ma come attività a sé stante, vera
e propria 'industria’
capace di realizzare nelle sue operazioni
la parte principale dei profitti»24.
Il passo ora citato inquadra con
precisione il processo di abbandono della grande industria da parte delle principali
dinastie imprenditoriali italiane, e ne data (correttamente) l'inizio agli anni Settanta. E in questi
anni che «molte grandi imprese — ma il
fenomeno fu internazionale — iniziano a potenziare le unità specializzate
nell'intermediazione finanziaria; intervenendo direttamente in operazioni di arbitraggio e
sui titoli, esse 'contaminano' [sic] i loro profitti con elementi propri di altre forme di reddito
(interesse, guadagni speculativi) e l'apporto
della gestione extra-industriale al risultato operativo diventa sempre crescente, contribuendo a spostare gli
obiettivi primari dalla produzione alla massa
di manovra disponibile per gli interventi di breve impegno e di molta resa». In altri termini, in
questi anni inizia la sostituzione
della produzione industriale con speculazioni finanziarie quale mezzo per realizzare profitti. Il motivo di questo
fenomeno è dato dalla crisi di sovrapproduzione
e di accumulazione del capitale che dagli anni Settanta si prolunga sino ai nostri giorni (e che spinge, come
scriveva già Grossmann negli anni
Venti, verso due forme di «esportazione dei capitali»: verso la Borsa e verso l'estero). È in questo contesto che
le grandi famiglie del capitalismo
italiano imboccano la strada della «finanziarizzazione». Molte società prima a carattere industriale vengono così
trasformate in società finanziarie
che, «più che dirette a reperire risorse» per le attività industriali dei gruppi di appartenenza, appaiono «volte a
realizzare vantaggi di tipo speculativo» in quanto tali25.
Sfogliando l'elenco delle società quotate alla Borsa di Milano si può toccare
con mano l'entità di questa trasformazione. Così, nel solo 1973 sono quotate ín Borsa, con funzione di holding finanziarie: la Concerie Italiane Riunite (CIR; nel 1976
verrà acquisita dal gruppo De
Benedetti e ridenominata Compagnie Industriali Riunite); la Gilardini Industriale, costituita nel 1905, e venuta in
possesso di De Benedetti (nel 1976 passerà
a Fiat, e nel 2000 sarà incorporata nella Magneti Marelli); la Nazionale Partecipazioni Finanziaria; la Riva
Finanziaria, nata il 1946 come Simic;
l'Acqua Marcia, costituita nel 1867 (ora fa parte del Gruppo Caltagirone). Negli anni successivi sarà la volta della
Finrex (1974) e delle Terme Demaniali
dí Acqui (1978). Negli anni Ottanta avremo l'Italmobiliare (1980), Gemina (1981), Cofide (1985), Cam
Finanziaria e Sogefi (1986), Ferruzzi
Finanziaria (1988) e Franco Tosi (1989). Negli anni Novanta, il definitivo svuotamento di Olivetti e la sua
trasformazione in scatola finanziaria.
In quasi tutti questi casi, si tratta di ex società manifatturiere trasformate
in veicoli per operazioni finanziarie. Esse portano non di rado impressa nel loro stesso nome la storia di una radicale
metamorfosi del capitalismo italiano.
Una metamorfosi che ha condotto le imprese finanziarie italiane a pesare sulla capitalizzazione di Borsa per
qualcosa come il 37% (a fronte del 15%
della Francia, del 25% del Regno Unito, del 30% della Germania, dove pure le banche hanno storicamente un peso
significativo in Borsa)26.
Nel nuovo regime dei cambi
flessibili, con la lira fluttuante, si ebbe un'impennata dell'inflazione, con il risultato di
comprimere i salari reali e di premiare gli speculatori che avevano portato i capitali all'estero. Il movimento dei lavoratori rispose
chiedendo una revisione del meccanismo della scala mobile, e l'introduzione del punto unico di
contingenza (1975). Nel corso del 1975 la crisi
economica si approfondì (per la prima volta dal dopoguerra, il PIL risultò negativo), e nel gennaio del 1976 le banche statunitensi furono sconsigliate dal concedere
nuovi prestiti all'Italia. Nel 1977, contestualmente all'avvicinamento del Pci alla compagine
governativa, si ebbe la cosiddetta svolta dell'Eur:
le confederazioni sindacali si dichiararono disponibili non soltanto alla «moderazione salariale», ma
anche a favorire la «mobilità» del lavoro
per consentire la ristrutturazione nel settore industriale. Contemporaneamente, lo
Stato si fece carico di numerose crisi industriali, acquisendo dai privati aziende sull'orlo del
fallimento o introducendo particolari
ammortizzatori sociali. In questa fase, il ruolo preminente dello Stato non è più quello di
imprenditore (anche se l'Iri è ormai il primo gruppo industriale del Paese, e già nel 1974 il settore
pubblico copre il 28,8% del fatturato e il
29,6% dei dipendenti delle prime 350 società italiane), ma quello di socializzatore
delle perdite maturate dalle imprese private e di ammortizzatore
del conflitto sociale. Il tutto a carico del bilancio pubblico, pagato quasi esclusivamente
con le tasse dei lavoratori. Che così la crisi la pagano due volte.
5. I «ruggenti anni Ottanta» (1980-1989)
Sul finire degli anni Settanta il
ripristino del potere della borghesia è pressoché completo. Ma è la grave sconfitta
patita dal movimento operaio alla Fiat nel 1980 a chiudere il ciclo iniziato con le lotte dell'«autunno
caldo». Nel 1980 la crisi dell'auto, anche grazie al secondo shock
petrolifero (1979), assume proporzioni mondiali e coinvolge tanto i produttori
americani quanto gli europei
(con la sola eccezione della Volkswagen). Quanto alla Fiat, l'indebitamento (6.800 miliardi) è ormai pari
al fatturato e più del doppio del patrimonio
netto. A questo punto Umberto Agnelli chiede al governo due cose: la svalutazione della lira e la libertà
di licenziare. La prima richiesta non andrà a
buon fine; per quanto riguarda la seconda la Fiat farà da sé. L'11 settembre viene
annunciato il licenziamento dí 14.400 lavoratori, successivamente trasformato in cassa integrazione
a zero ore per 23.000 lavoratori per
due anni. Inizia uno sciopero di 35 giorni con blocco degli stabilimenti, che
termina con una bruciante sconfitta, anche a seguito della marcia dei capi intermedi
contro lo sciopero27. I 23.000 lavoratori messi in cassa integrazione a zero
ore (che presto diventeranno 33.000), tra cui centinaia di delegati di
fabbrica, resteranno fuori dalla Fiat sino al 1987, ín violazione di ogni accordo; al
loro rientro, saranno collocati in «reparti confino». Centocinquanta di loro si toglieranno la vita28.
Comincia un periodo di dura
restaurazione in fabbrica, ed una svolta a destra nel Paese.
Gli anni Ottanta, sono generalmente
ricordati dalla pubblicistica corrente come anni spensierati e di modernizzazione29.
È una prospettiva che è difficile condividere:
sarebbe molto più corretto considerarli come il decennio dei debiti.
I
nnanzitutto del debito pubblico: che
si inerpica sulla strada che lo porterà a raggiungere, a fine decennio, il
100% del PIL. E una conseguenza degli elevatissimi tassi di interesse
(nel 1980 sono al 19%, come conseguenza di un'inflazione che giunge a superare il 20%), ma anche
dei bilanci fortemente in perdita delle imprese statali: dal 1980 al 1984 lo
Stato versò a Irí, Eni, Enel, Efim e Gepi
poco meno di 30.000 miliardi di liren. Né va dimenticato un ulteriore aspetto,
ossia l'attivazione di ammortizzatori sociali per alleviare gli effetti della crisi:
alla crescita del debito pubblico è tutt'altro che estraneo il saldo occupazionale
fortemente negativo prodottosi tra il 1981 e il 1985, che vide l'industria italiana perdere 3.700.000
posti di lavoro.
Ma anche la bilancia commerciale
presenta saldi molto negativi «non soltanto nei settori del petrolio e delle fonti di energia,
ma anche nei prodotti agricoli, nelle carni,
nel latte, nei prodotti chimici, nelle macchine per ufficio, negli autoveicoli». Sono in
attivo soltanto i settori tradizionali del made in Italy e poco altro: «le macchine utensili,
i motocicli, i prodotti tessili e del- l'abbigliamento, cuoio e calzature, legno e
mobilio, gomma e plastica» — ed è
facile osservare che si tratta per lo più di settori di modesto livello tecno-
logico, molto esposti alla concorrenza
internazionale dei paesi di nuova industrializzazione
(Taiwan, Singapore, Hong Kong, Corea del Sud) e di Stati che
proprio negli anni Ottanta fanno ingresso nella Comunità Europea (Spagna, Grecia e Portogallo)31.
Infine, i debiti delle
imprese private. I tempi in cui l'autofinanziamento rappresentava l'80% delle spese per
nuovi investimenti sono ormai un lontano ricordo. Di mezzo ci sono gli anni Settanta, in cui
l'indebitamento delle imprese aveva conosciuto una
progressione pressoché costante32. Negli anni Ottanta questo processo continua,
sia pur con caratteristiche in parte differenti.
Per un verso, infatti,
abbiamo un gonfiamento delle rendite finanziarie e un conseguente forte sviluppo del
mercato borsistico, il quale a sua volta alimenta scalate a società e processi di fusione tra
imprese. Il meccanismo è
questo: nonostante la montagna del debito pubblico, ed anzi proprio a causa di essa, la corresponsione di tassi di interesse elevati su una massa sempre crescente di debito pubblico creava opportunità di rendite finanziarie
per risparmiatori, ma soprattutto per gruppi finanziari, aziende di credito e speculatori33. Queste rendite alimentano la Borsa di Milano, che conosce un vero e proprio boom dal 1982 al 1987: a trainare la sua crescita sono soprattutto i fondi comuni di investimento, che raccolgono denaro dai risparmiatori. Questo denaro è a sua volta utilizzato per spregiudicate operazioni societarie. Un esempio su tutti: ai risparmiatori si rivolge Mario Schimberni, che vuole fare di Montedison una public company, ossia una società ad azionariato frammentato, gestita dai manager (ossia dallo stesso Schimberni). In questa iniziativa sarà scalzato da Raul Gardini, genero di Serafino Ferruzzi ed erede dell'impero da lui fondato.
questo: nonostante la montagna del debito pubblico, ed anzi proprio a causa di essa, la corresponsione di tassi di interesse elevati su una massa sempre crescente di debito pubblico creava opportunità di rendite finanziarie
per risparmiatori, ma soprattutto per gruppi finanziari, aziende di credito e speculatori33. Queste rendite alimentano la Borsa di Milano, che conosce un vero e proprio boom dal 1982 al 1987: a trainare la sua crescita sono soprattutto i fondi comuni di investimento, che raccolgono denaro dai risparmiatori. Questo denaro è a sua volta utilizzato per spregiudicate operazioni societarie. Un esempio su tutti: ai risparmiatori si rivolge Mario Schimberni, che vuole fare di Montedison una public company, ossia una società ad azionariato frammentato, gestita dai manager (ossia dallo stesso Schimberni). In questa iniziativa sarà scalzato da Raul Gardini, genero di Serafino Ferruzzi ed erede dell'impero da lui fondato.
E qui vediamo l'altra
faccia del debito delle imprese. Fedele al suo motto, secondo cui «chi non ha debiti
non ha idee», Gardini impegna cifre notevolissime nella scalata a Montedison, per poi dar vita
ad una joint-venture tra Eni e Montedison, che nelle sue
intenzioni deve diventare un colosso mondiale nella chimica. L'avventura,
come è noto, si concluderà negli anni Novanta con la rescissione della joint-venture, con
esborsi miliardari, con il suicidio a piede libero di Gardini e
quello in carcere di Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni e partner di Gardini nell'avventura
Enimont; ma soprattutto con il fallimento
della Montedison — travolta da 20.000 miliardi di debiti — e la distruzione
della chimica italiana.
La vicenda Montedison è
una buona metafora degli anni Ottanta: il capitalismo predatorio all'italiana di questi anni, che
nelle imprese che affronta mette soltanto
«idee» e relazioni politiche (in particolare con il Psi di Craxi e la Dc di Forlani e De Mita),
facendo sì che i soldi li mettano gli altri (i risparmiatori, le banche pubbliche o direttamente lo
Stato), non produce né il rafforzamento
dell'apparato produttivo né la creazione di imprese di dimensione europea.
Produce soltanto una montagna di debiti, che la collettività, e più
precisamente i lavoratori, si troveranno a pagare negli anni Novanta.
6. «Signori, la
festa è finita» (dal 1990 ad oggi)
«Signori, la festa è
finita»: così, nel giugno del 1990, Gianni Agnelli apostrofò gli azionisti della Fiat. Alla
luce di quanto abbiamo visto, è lecito domandarsi chi avesse
«festeggiato» negli anni Ottanta. Certamente, non i lavoratori dell'industria
manifatturiera, né i giovani (in particolar modo del Mezzogiorno). Qualcuno, però, negli
anni Ottanta aveva avuto motivo di far festa: tra loro ví erano proprio gli azionisti Fiat,
che — risolto come abbiamo visto il problema
della conflittualità operaia — avevano beneficiato di ingenti investimenti in
tecnologia dei primi anni Ottanta (generosamente sostenuti dallo Stato) ed erano riusciti a rivedere un
utile cospicuo grazie alla ripresa europea del
mercato dell'automobile ed al successo della «Uno». Come se non bastasse, a
questo si era aggiunta anche la «mano visibile» del governo italiano, che nel 1986 aveva
regalato l'Alfa Romeo alla casa torinese, bloccando all'ultimo momento la
firma dell'accordo di vendita della società automobilistica pubblica alla
Ford. Basso il prezzo: appena 1.000 miliardi di lire (equivalenti ai
contributi che la Fiat all'epoca percepiva dallo Stato), per di più pagabili in comode rate decennali.
Avendo già acquisito la Lancia, l'Auto Bianchi e
la Ferrari, la Fiat aveva così il controllo dell'intera produzione automobilistica nazionale.
Poi, però, anziché investire nello
stesso settore dell'auto i profitti realizzati, la Fiat aveva spinto sempre
più l'acceleratore sulla «diversificazione» degli investimenti. Questa scelta
avvenne alla luce del sole, come risultato dello scontro tra l'ing. Ghidella e l'ing. Romiti:
quest'ultimo fu appoggiato da Gianni Agnelli (e da Mediobanca), e vinse. Fu lo stesso Agnelli a raccontare così la faccenda ai dirigenti
Fiat: «ho dovuto affrontare un conflitto d'interpretazione del ruolo della Fiat all'interno del
Gruppo. Per Ghidella prevale la visione autocentrica,
mentre per me la Fiat è una holding
industriale e finanziaria»34. Difficile contestare il giudizio
espresso da Agnelli: nell'87 il gruppo Fiat contava qualcosa come 750 società controllate, guadagnava come gli altri 60 gruppi industriali
messi assieme, e totalizzava il 4% del PII, nazionale, e già alla metà degli anni Ottanta le
partecipazioni Fiat capitalizzavano ormai un quarto dell'intera Borsa italiana. Tra esse c'erano società
come Snia, Gemina
(Rizzoli e «Corriere della Sera»), Magneti Marelli, Unicem, Sorin, Olcese, Toro
Assicurazioni, Rinascente. In altri termini, in questi anni già si profila quella
trasformazione della Fiat in holding finanziaria che poi sarà realizzata pienamente
nel corso degli anni Novanta. Per quanto riguarda gli assetti di controllo, basterà dire che
all'inizio del 1987 viene costituita la Accomandita Giovanni Agnelli e soci,
società non quotata a cui vengono conferite il 75% delle azioni Ifi che erano
di proprietà degli Agnelli. La proprietà familiare della Fiat è messa al sicuro ancora per un po': però
al prezzo di rendere fragile
la base finanziaria della società.
La combinazione di quelle due scelte
compiute negli anni Ottanta, da nn lato il dirottamento degli utili provenienti dall'auto su
altri settori di attività, dall'altro la blindatura su base familiare del controllo societario (con
conseguente insufficienza strutturale della base finanziaria della società), è
all'origine della crisi della
Fiat che esplode negli anni Novanta. Una crisi da cui neppure le due svalutazioni della
lira del 1992 e del 1995 (rispettivamente del 30% e del 10%) riusciranno a risollevarla. E la cosa
non può stupire se si pensa che la Fiat nel decennio compreso tra la metà degli
anni Ottanta e i primi anni Novanta ha
destinato agli investimenti in ricerca 4 miliardi di dollari. Nello stesso periodo la
Volkswagen (che all'epoca aveva le stesse dimensioni di Fiat) ne ha spesi 20, Bmw (che era più
piccola) ha speso 8 míliardi35.
6.1. Addio alla grande industria
Il caso della Fiat, però, è
tutt'altro che isolato. Tanto che si è potuto parlare di un vero e proprio «addio
alla grande industria». Può sembrare eccessivo, ma le cose stanno proprio così.
Basta gettare uno sguardo ai titoli
di Borsa: Montedison è stata cancellata dal listino. Olivetti anche. Fiat continua a perdere
colpi (negli anni della bolla speculativa della
new economy la sua capitalizzazione di Borsa è stata superata da quella di Tiscali...).
Pirelli va abbastanza male nei suoi settori storici (pneumatici e cavi), e la
sua più importante partecipazione è oggi rappresentata dal gruppo Telecom (oltreché da un impero
immobiliare nato dalle aree dismesse dei suoi impianti industriali). Va male
anche il business manifatturiero
tradizionale dei Benetton. Tra le imprese industriali di qualche entità resistono praticamente
solo Eni, Enel e Finmeccanica — tutte quante ancora controllate dallo Stato —.
Questo quadro desolante ci è
confermato dalle ricerche di Mediobanca sulle imprese multinazionali. Cominciamo con le
dimensioni: su 274 multinazionali mondiali, le 18
principali multinazionali tedesche nel 2001 hanno fatturato 737 miliardi di curo; le 24 francesi,
478 miliardi di euro; le 15 italiane, 170 miliardi di euro. Tra esse, di
dimensione comparabile agli omologhi europei sono soltanto Fiat [e i dati si riferiscono
ad un periodo precedente l'aggravarsi della
crisi], Eni e Telecom [che tra l'altro è una società di servizi e non
manifatturiera]. E veniamo all'occupazione: le multinazionali tedesche impiegano 2.700.000
lavoratori, quelle francesi 1.900.000, le nostre appena 600.000. Quanto ai settori, se a livello
mondiale il 31,4%, circa un terzo del fatturato delle multinazionali, è
prodotto nei due settori più avanzati, elettronica e chimica, per quanto
riguarda l'Italia soltanto 1'1,1% del fatturato proviene dall'elettronica, e solo
il 3 % dalla chimica (4,1% in tutto). Non è finita. Gli utili prodotti da queste società sono decisamente
miseri: soltanto 3
multinazionali italiane su 15 (Italcementi, Eni e Telecom) hanno avuto buoni risultati nel
2001. In compenso, le imprese italiane hanno, a parte l'Ení, debiti elevati e scarso capitale
proprio. Inoltre, sono all'ultimo posto nelle spese per ricerca e sviluppo, a cui è destinano soltanto
il 2,4% del fatturato
(contro il 3,7% della media europea, il 4,7% degli USA, ed il 5,7% del Giappone).
L'unica cosa in cui sono imbattibili è la capacità di tenere basso il costo
della forza-lavoro anche in presenza di rilevanti aumenti di produttività: infatti, a
fronte di un incremento del valore aggiunto per addetto dell'89,5% nel periodo 1992-2001, il costo
della forza-lavoro è aumentato appena del
15,9% (in valori nominali); si tratta di un dato inferiore a quello dí tutti gli altri principali paesi
presi in considerazione dalla ricerca36.
Ma questo non invidiabile primato non ha affatto allontanato la crisi.
Di fronte a tutto questo, viene
spontaneo chiedersi se dobbiamo dire addio anche alle grandi famiglie del capitalismo
italiano. Stando alla vera e propria frana del sistema industriale italiano che abbiamo descritto più sopra, ci si aspetterebbe di sì. Ma è
necessario ricredersi. Niente di questo è successo: praticamente nessuna delle principali famiglie
è scomparsa. Tanto le famiglie storiche del
capitalismo italiano quanto i parvenu mantengono
saldamente le loro
posizioni. In che modo? Le mantengono avvalendosi della stessa struttura del
controllo societario che adoperano da decenni: quella delle «strutture piramidali» o «a scatole cinesi».
Bisogna prima di tutto partire da un
dato: la concentrazione del controllo delle società quotate da parte di uno o più soci è maggiore in
Italia che negli altri principali
paesi europei: «per circa tre quarti delle società quotate è infatti presente un azionista di
controllo». In particolare, «la concentrazione proprietaria delle principali società quotate italiane
è superiore in misura notevole rispetto a
quelle delle imprese tedesche e francesi e, ín misura minore, rispetto a quelle delle
imprese spagnole»37.
Non solo: in Italia negli ultimi anni
la .concentrazione è cresciuta. Ed è cresciuta, in particolare, la
concentrazione attraverso le «scatole cinesi». Si tratta di uno strumento che consente
agli azionisti più importanti di una determinata società di controllare un
quota del capitale assai maggiore di quel-la effettivamente detenuta, e quindi fa sì che si abbia
la concentrazione del controllo senza che ci sia la
concentrazione della proprietà 38.
Ma come funzionano in concreto le «scatole
cinesi»? Praticamente abbiamo a che fare con una catena di società, che può
essere anche molto lunga. Il primo anello
della catena è una società in accomandita per azioni. Si tratta rigorosamente
di una società non quotata, e quindi non contendibile. Spesso è di diritto olandese o lussemburghese, per pagare
meno tasse (del dovuto). Con questo sistema gli
Agnelli hanno il controllo della Fiat, Marco Tronchetti Provera quello di Pirelli e di Telecom. Il
tutto, con un risparmio considerevole rispetto
all'acquisizione diretta di queste società. Quanto considerevole? Qualcuno si è preso
la briga di fare due conti, e i risultati sono questi: «la famiglia Agnelli governa su un impero che
vale cento rischiando di tasca propria, in
proporzione, non più di dodici», mentre «Tronchetti regna su Telecom con solo lo 0,54%
del capitale»39.
L'uso del meccanismo delle «scatole
cinesi» accomuna praticamente tutte le dinastie imprenditoriali italiane che controllano società quotate
in Borsa. In concreto, in questo
modo sono controllati 130 miliardi di curo, ossia il 30% del valore totale della Borsa italiana. In
questo contesto, i piccoli investitori quale
ruolo giocano? La risposta è facile: il
ruolo di mettere i soldi nelle società controllate da
quei signori, rendendo loro possibile di controllarle senza doverle possedere. Questo Per quanto riguarda la struttura del controllo.
Non meno importante è però determinare
quale sia oggi l'oggetto del controllo.
Questo oggetto, lo abbiamo visto,
non sono più le grandi imprese manifatturiere. Per un motivo molto
semplice: perché negli ultimi anni le principali famiglie del capitalismo italiano sono state protagoniste di una
vera e propria migrazione
generalizzata dal settore manifatturiero e industriale a quello dei servizi e precisamente
dei servizi di pubblica utilità —. Quanto è avvenuto è stato così sintetizzato da un giornalista economico: «I
gruppi industriali italiani cadono
come birilli, l'uno dopo l'altro, nelle mani di strutture internazionali più attrezzate alla competizione globale; mentre
ciò che resta delle grandi famiglie,
vecchie e nuove, cerca riparo sotto l'ombrello delle non proprio innovative
utility»40,
Ma cosa ha reso possibile questa fuga
dalla grande industria? La risposta è semplice: le massicce privatizzazioni effettuate
nel corso degli anni Novanta. Può sembrare
paradossale, se si pensa a tutti i Soloni che ci avevano spiegato come le
privatizzazioni sarebbero servite non soltanto a diminuire il debito pubblico,
ma anche a creare «un mercato finanziario sviluppato»41. Ora,
questo obiettivo si componeva, a sua volta, di due obiettivi-condizioni. In primo luogo, la
diffusione dell'investimento azionario a livello di massa, presentato come un fattore di «democrazia
economica»42. In secondo luogo, la quotazione in Borsa di un numero maggiore di imprese private. In che modo le
privatizzazioni avrebbero potuto contribuire a raggiungere questi obiettivi? Così: le
società da privatizzare sarebbero state quotate in Borsa, facendone delle public companies
(aziende ad azionariato molto frammentato) ed
invogliando i risparmiatori ad acquisirne delle quote. In questo modo la quantità dei titoli trattati
alla Borsa di Milano sarebbe cresciuta, lo
«spessore» del mercato — come si dice ín gergo — sarebbe aumentato, e questo avrebbe
indotto alla quotazione molti proprietari di imprese private che sinora non avevano preso in
considerazione tale possibilità.
Questa operazione è riuscita solo a
metà: la prima metà. Molti risparmiatori hanno partecipato alle privatizzazioni. Ma in
Italia il modello delle public companies non si è
affermato. I capitalisti italiani, salvo pochissime eccezioni, si sono ben guardati dal
portare le proprie imprese in Borsa, tant'è vero che dal 1999 ad oggi il numero delle società
quotate si è ridotto. In compenso, i più forti
tra loro hanno acquisito le società privatizzate assumendone il controllo. In questo modo,
«la maggior parte delle principali società privatizzate ad azionariato diffuso sono state
oggetto di successive acquisizioni che hanno portato in alcuni casi al loro
delisting [cancellazione dal listino di Borsa, ndr]
o alla determinazione di un assetto dí controllo fortemente concentrato»43.
Tra le società privatizzate, le
attenzioni dei capitalisti industriali del nostro Paese si sono rivolte verso i servizi di pubblica
utilità. C'è addirittura un caso in cui la stessa
società, nel volgere di pochi anni, è entrata nell'orbita di 3 distinti nomi storici del
capitalismo italiano: è il caso di Telecom, che prima viene privatizzata dandone il controllo di fatto
(con appena lo 0,6% del capitale!) agli
Agnelli, sia pure attraverso un patto di sindacato con altri soci; poi subisce
la scalata dí Olivetti (nel frattempo diventata una scatola finanziaria nelle mani di Colaninno);
infine passa sotto il controllo della Pirelli di Tronchetti Provera. Ma anche famiglie meno
blasonate condividono la passione per le
società in via di privatizzazione. È il caso dei Benetton, che hanno acquisito il controllo totale
di Autostrade (e in precedenza avevano comprato GS e Autogrill, e sí erano messi in cordata con
Tronchetti Provera per Telecom).
Il perché di questa passione
generalizzata è presto detto: queste società rappresentano una fonte di profitti certa, che può godere
di una rendita di monopolio (o, quando va
male, oligopolistica); si tratta tra l'altro di una fonte di profitti
sottratta non soltanto alle fasi alterne del ciclo economico (le bollette si pagano sempre), ma anche
alla concorrenza internazionale. Il percorso quindi è questo: le grandi famiglie del capitalismo
italiano sbarcano dal settore manifatturiero,
dove perdono colpi non riuscendo a sostenere la concorrenza internazionale, e si imbarcano sulla
scialuppa di salvataggio rappresentata dalle
società pubbliche in via di privatizzazione. La riprova? L'impressionante coincidenza tra il
momento del passaggio aí servizi pubblici e la crisi nei settori di origine.
Così, la Fiat si lancia
nell'avventura di Edison al peggiorare della situazione nel settore auto. Pirelli si
compra Telecom nel 2001, quando si avvertono i primi segni della crisi nei suol comparti
tradizionali, ed in particolare nel settore cavi e sistemi di telecomunicazione, crisi che nel 2002 si
aggraverà drasticamente
(perdita netta di 58,4 milioni di euro e giro d'affari ín calo del 13,2%). Infine, Benetton nei
primi mesi del 2003 lancia un'OPA[offerta pubblica di acquisto in Borsa] sulle azioni di
Autostrade. Negli stessi giorni il principale
quotidiano economico italiano metteva in luce come il conto economico della società nel 2002
avesse visto la contrazione di tutte le voci principali, dal fatturato
(-5 %) al risultato operativo (-15%), per finire con una perdita netta di 9,8 milioni di
euro (contro l'attivo di 148 dell'anno prima).
Insomma, come ha osservato
Giangiacomo Nardozzi, «la grande stagione delle privatizzazioni ha sì lasciato la gran parte delle attività dismesse
in mani italiane, ma a costo
di indebolire lo slancio competitivo di importanti pezzi dell'industria,
offrendo occasioni di più facili profitti»44. Va aggiunto che tra le imprese da privatizzare
non mancavano quelle industriali. Queste imprese, però, i «nostri» capitalisti le hanno lasciate a
società transnazionalí fuori d'Italia.
Riepilogando: «Krupp ha comprato la Acciai Speciali Terni diventando il primo produttore
mondiale di laminati piani in acciaio inossidabile. La Nestlé con Italgel è entrata nel settore
dei surgelati, con Motta, Alemagna e Antica
Gelateria del Corso nei gelati, completando la sua gamma di prodotti. La Pilkington, con la Siv, ha
raddoppiato la sua quota in Europa nei
vetri per autoveicoli raggiungendo con il 36% la Saint Gobain. Prendendo l'Alcantara
dall'ENI, il gruppo giapponese Toray ha raggiunto il 50% della produzione mondiale di tessuti tipo
suede a base di ultramicrofibre. Con la
Inca, la Dow Chemical è entrata in un mercato dal quale era assente: i granuli di Pet
per bottiglie di acque minerali. La General Electric ha preso la Nuovo Pignone che, con una quota del
25%, rappresenta il maggior
produttore mondiale nei compressori per impianti petroliferi. Una delle vendite più dolorose
per l'industria italiana italiana è stata la Elsag Bailey finita alla Abb, colosso svizzero-svedese,
leader mondiale nei flussometri e tra i primi
nell'automazione industriale»45. È inutile aggiungere che tutte queste acquisizioni, a
differenza della quasi totalità di quelle effettuate dai capitalisti di casa nostra, sono funzionali
ad un ulteriore sviluppo nel settore
manifatturiero delle multinazionali acquirenti.
6.2. Le piccole e medie imprese nella crisi
Questo per quanto riguarda i grandi
nomi dell'industria manifatturiera italiana. E le piccole e medie imprese? La
questione non può essere trascurata, se si pensa che «i sistemi produttivi in cui hanno un ruolo preminente
le imprese micro,
piccole e medie assorbono in Italia una quota di addetti all'industria
manifatturiera che va dal 35 al 40 per cento del totale... Questi sistemi, presi tutti insieme, sono un
pezzo molto rilevante del sistema produttivo italiano, più grosso di Fiat più Eni più Iri»46.
Vediamo quindi quali sono le linee di
tendenza.
Intanto, le piccole e medie imprese
sono sempre più piccole. Se ai cerisimenti del 1981 e 1991 la dimensione media in termini di
addetti delle aziende italiane
risultava pari a 4,5, essa nel 2001 è scesa a 3,9. Il 95 per cento delle aziende italiane oggi ha
meno di 10 dipendenti; anche nell'industria la dimensione media è appena di 6,5
addetti47. Per dirla con Mario Sarcinelli, «la piccola dimensione si è
accentuata nella struttura industriale italiana negli anni 90. Tra il '96 e il
'99 il peso della classe d'imprese composta da 1-2 addetti è aumentato; quella con 100 dipendenti e
oltre rappresentava meno di un quarto
dell'occupazione nelle industrie e nei servizi»48. Volendo
esprimere tutto questo in termini paradossali, si potrebbe dire che il nanismo industriale italiano cresce.
Si tratta però di capire il perché.
Il nanismo è in primis la logica
conseguenza del controllo familiare delle imprese. E non è un caso che anche il carattere familiare
del capitalismo italiano si sia rafforzato negli ultimi anni: la percentuale
di persone fisiche residenti che detengono la
proprietà o il controllo diretto dell'impresa è infatti giunta all'89,9% del totale49.
Il controllo familiare di un'impresa ha precise implicazioni negative sia in termini di governance, sia
in termini di finanziamento.
Con riferimento al governo
dell'impresa, è evidente che la selezione del management su base familiare-dinastica (una base che
oltretutto col passare delle generazioni sí
amplia talora a dismisura, creando ovvi problemi di ingovernabilità dell'impresa) si
rivela nella maggior parte dei casi inefficiente: essa risulta in generale inadeguata a gestire la
crescita aziendale e comunque a governare un'entità complessa qual è oggi l'impresa.
Ma il tema più delicato è quello del
finanziamento: come constata Fortis, «uno degli aspetti più critici del sistema
delle Pmí italiane» è per l'appunto rappresentato dal fatto che esse, «essendo in larga
maggioranza ad aziona-fiato famigliare, ormai
presentano un livello inadeguato di capitalizzazione». Per logica conseguenza, le Pmi
sono in genere molto indebitate, con una forte prevalenza del debito bancario e soprattutto di
quello a breve termine (nel caso delle
imprese sino a 50 addetti, nel 2000 l'incidenza dei debiti a breve termine superava il 70%
del totale). Non solo: a differenza di quanto le ricorrenti giaculatorie confindustriali
indurrebbero a ritenere, prestiti bancari alle
imprese sono in aumento. Basti pensare che il volume dei prestiti
alle imprese non finanziarie è salito del 70% nel periodo 1995-2002, e del 4% nel
solo 2002 (in quest'ultimo anno è cresciuto addirittura del 7,2% il credito alle imprese con
meno di 20 addetti)50. Il punto è che, in assenza dí un'adeguata
patrimonializzazione, i finanziamenti non servono a finanziare investimenti, ma solo il
circolante: in altri termini, consentono il galleggiamento dell'impresa, non il suo sviluppo e la
sua crescita.
Ma c'è di più: come ha
rilevato Ciocca nell'intervento già citato, «superata la recessione del 1992-93, la quota dei profitti sul
reddito nazionale, il saggio del profitto sul capitale investito, il rendimento
degli attivi d'impresa sono tendenzialmente
aumentati», situandosi «su valori in media superiori a quelli degli anni precedenti la recessione»51.
Ora, se questo è vero una domanda sorge
spontanea: dove sono finiti i profitti realizzati dalle Pmi? La risposta è obbligata: nel
patrimonio personale dell'imprenditore e della sua famiglia. La situazione è stata così descritta
da Marcello De Cecco in un suo brillante
saggio: «mediante lo svuotamento sistematico dei bilanci, gli imprenditori italiani sono
riusciti a costituirsi fortune familiari che, sommate tra loro, raggiungono
dimensioni totali veramente ragguardevoli.
Le loro imprese
continuano ad essere indebitate con le banche, mentre gli imprenditori appaiono come i migliori
clienti potenziali per le nuove attività di consulenza finanziaria che le banche hanno iniziato da
quando il Tesoro italiano ha cominciato,
qualche anno fa, a remunerare a tassi assai meno convenienti per gli
investitori il proprio debito»52.
Quindi, cospicui patrimoni personali
e familiari a fronte di una scarsa patrimonializzazione delle imprese, con
quello che ne consegue: dimensioni rachitiche e crescita asfittica delle imprese stesse.
L'alternativa a tutto questo, in
teoria, ci sarebbe: aprire l'azienda ad altri soci, ad investitori istituzionali o quotarla in Borsa53.
Ma ovviamente questo comporterebbe, per il nanocapitalista italico, il rischio di perdere il
controllo della società. E
quindi si preferisce ricorrere esclusivamente (o quasi) a prestiti bancari — e si resta nani —.
Vale però la pena dí notare che l'alternativa tra apertura del capitale a
terzi e crescita patrimoniale da un lato, e stentata sopravvivenza mantenendo il controllo familiare
dell'impresa dall'altro, rappresenta — prima o
poi — un'alternativa secca, che non consente scappatole o «terze vie». Infatti, come
ricordava Marx, «con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, cresce
il volume minimo del capitale individuale, necessario per far lavorare un'azienda nelle sue
condizioni normali», ossia «aumenta il volume
minimo dí capitale che è necessario al capitalista individuale per la messa in opera
produttiva del lavoro»54. Per capire come tutto questo si traduca in concreto
nella situazione attuale, è sufficiente rifarsi a un recente testo sui mercati
finanziari europei: «l'omogeneizzazione dei mercati mondiali ha determinato in molte industrie un
sostanziale aumento delle economie di
scala e un incremento delle dimensioni minime di investimento... Tutto ciò richiede di norma risorse
finanziarie eccedenti quelle aziendalmente
disponibili per la crescita, e il mercato internazionale dei capitali è pronto a fornirle
purché si sia in grado di dimostrare che dalla crescita, dalle fusioni e dalle acquisizioni deriveranno
guadagni adeguati al capitale investito. In
tal modo il mercato internazionale dei capitali diviene il vero giudice del merito e della
fattibilità delle strategie e dei progetti di impresa. Per l'Europa continentale ciò significa sottrarre
il giudizio sulla condotta delle imprese ai
gruppi di controllo che l'avevano tradizionalmente esercitato in modo esclusivo»55. Qui ci si
riferisce alle grandi imprese: ma è un
discorso che ovviamente vale a maggior ragione per le piccole e medie. Insomma: al processo di concentrazione e
centralizzazione dei capitali non è
possibile sottrarsi — se non al prezzo di sopravvivere ín nicchie limitate; o in una relazione di indipendenza formale, ma
dipendenza sostanziale — caratterizzata
da una precarietà di fondo — dal grande capitale (come avviene ad esempio nel rapporto di subfornitura).
Alla luce di quanto precede, non c'è
davvero da stupirsi della crisi che oggi colpisce le piccole e medie imprese italiane e i
tanto decantati «distretti industriali». Se
proprio ci si deve stupire di qualcosa, è del fatto che così
tante imprese di piccole dimensioni abbiano potuto sopravvivere così a lungo normalmente, ed anzi spesso facendo non pochi profitti. Ma anche a questo riguardo lo stupore è fuori luogo: effettivamente è possibile rintracciare un insieme ben determinato di fattori che hanno consentito alle imprese italiane di vendere le loro merci a prezzi relativamente convenienti. Vediamoli:
tante imprese di piccole dimensioni abbiano potuto sopravvivere così a lungo normalmente, ed anzi spesso facendo non pochi profitti. Ma anche a questo riguardo lo stupore è fuori luogo: effettivamente è possibile rintracciare un insieme ben determinato di fattori che hanno consentito alle imprese italiane di vendere le loro merci a prezzi relativamente convenienti. Vediamoli:
1) I salari bassi. Bassi — si intende —
non soltanto in relazione alle grandi imprese, ma anche alle imprese concorrenti degli altri
paesi industrialmente avanzati. Non stiamo
parlando di eventi lontani nel tempo: come ci ricorda Ciocca, negli anni Novanta «la dinamica
delle retribuzioni in termini reali si è attenuata anche rispetto a quella della produttività».
Nonostante il gergo un po' criptico, è
facile capire cosa il testo appena citato significhi; tant'è vero che lo stesso autore
subito dopo aggiunge: «il salario non è fra i principali problemi presenti
dell'economia italiana»56. Ma, a ben vedere, è precisamente per questo motivo che
le buste paga — soprattutto alla luce del carovita che imperversa attualmente — non appaiono
ulteriormente comprimibili. Si tratta quindi
di un fattore non riproponibile (o, se si vuole, ormai «anelastico»). Ma c'è un problema, se
vogliamo, ancora più serio: l'utilizzo esclusivo o preminente della leva del costo della
forza-lavoro come fattore di competitività è un
disincentivo all'innovazione di processo (è in certo qual modo regressivo, risospingendo
indietro la frontiera dei profitti, dal plusvalore relativo al plusvalore assoluto)57,
e spinge ad una competizione basata esclusivamente sul prezzo dei prodotti e non sulla loro qualità (contenuto tecnologico, innovazione,
ecc.). Cosicché si finisce, naturalmente, per competere con imprese dei paesi cosiddetti emergenti,
le quali comunque si giovano di un
costo della forza-lavoro molto inferiore a quello italia-
no e quindi, dalla competizione su questo terreno, hanno tutto da guadagnare. Dunque, si tratta anche di un fattore che dà benefici nel breve ma ha effetti distruttivi nel lungo periodo.
no e quindi, dalla competizione su questo terreno, hanno tutto da guadagnare. Dunque, si tratta anche di un fattore che dà benefici nel breve ma ha effetti distruttivi nel lungo periodo.
2) Le svalutazioni competitive. Per decenni la competitività delle imprese italiane è stata «dopata» per
mezzo di svalutazioni competitive della lira (le quali, giova ricordarlo, rappresentano una delle più
classiche forme di politica dí classe e
socializzazione delle perdite, oltreché di ingiusto privilegio attribuito ai debitori nei
confronti dei creditori). Per avere un'idea delle dimensioni di questo «doping» basterà
ricordare che «tra il 1971 e il 1993 la diminuzione del tasso di cambio nominale, nei
confronti delle principali monete, è stata prossima al 70 per cento»38. Piccolo problema:
con Pento questa storia è finita,
anche se la svalutazione iniziale dell'euro nei confronti del dollaro (durata sino
all'inizio del 2002) può aver dato l'illusione che le cose non fossero granché cambiate.
Non aver capito che questo nuovo vincolo costringeva a cambiair gioco
costituisce uno dei più gravi errori strategici compiuti dall'imprenditoria
italiana.
3 ) Un'evasione fiscale spropositata. Che l'evasione fiscale e
contributiva (grazie all'evasione in
senso stretto ed al lavoro nero) abbia costituito nel corso degli anni uno dei maggiori
(indebiti) vantaggi competitivi per le piccole e medie imprese è così poco un mistero, che alcuni
autori ne parlano in premessa dai loro
ragionamenti su piccole imprese e distretti industriali59. Del
resto, persino Antonio Fazio, che difficilmente potrebbe essere considerato un
acceso giacobino, ha potuto parlare di «abnorme estensione del lavoro irregolare» 60. Ed
è il meno che si possa dire, in presenza di dati come questi: una media italiana di lavoro
irregolare pari al 14,5% delle unità lavorative totali nel
2000, che diventa il 22% nel Mezzogiorno (con punte del 29, 25 e 24% in
Calabria, Campania e Sicilia) ma che anche nella regione più «virtuosa» (il
Piemonte) è comunque superiore al 10%; il che, tradotto in cifre assolute, fa oltre 3 milioni
e mezzo di lavoratori al nero secondo le elaborazioni condotte dalla Banca d'Italia su dati Istat.
Ma secondo l'Eurispes nel 2003 le cose
stanno ancora peggio: la percentuale sul totale dovrebbe oscillare addirittura tra il 30% e
il 48% del totale, e le cifre assolute assommare
a qualcosa tra i 7 e gli 11 milioni di lavoratori in nero; in tal caso l'economia sommersa (che sfugge del tutto al fisco)
varrebbe non meno di 317 miliardi di
euro (il 27% dell'intero prodotto interno lordo! )6'1.
Alla luce di questi dati, davvero non
sorprende che l'Agenzia delle Entrate stimi l'ammontare totale dell'evasione fiscale annua come superiore a 200 miliardi
di curo..
Il problema per quest'ultimo
«fattore competitivo» è ovviamente in primo luogo se questa forma di — chiamiamola così —
incentivazione sottobanco sia nel lungo
periodo sostenibile per il nostro «sistema paese»: e la risposta non può che essere
negativa. Ma è anche un altro: íl fatto cioè che questo enorme gettito mancato si traduce inevitabilmente
in servizi pubblici inefficienti,
inadeguata spesa per l'istruzione (siamo al 4,9% del PIL, contro una media OCSE del 5,9%), un
bassissimo tasso di laureati (pari a un terzo rispetto a molti paesi europei ed al Giappone, e a
poco meno di un quarto rispetto agli
USA), carenze infrastrutturali croniche, ecc.
7. Conclusioni sulla borghesia italiana
Quanto sopra è più che sufficiente a
spiegare l'attuale, gravissima crisi del capitalismo italiano. Una crisi che ci sta regalando,
dal primo trimestre del 2001 ad oggi, «la più
lunga fase di ristagno in mezzo secolo»62. Ma che è cominciata non appena gli effetti
dell'ultima svalutazione competitiva, quella del 1995, hanno cominciato ad
affievolirsi. Questo è il significato delle cifre riportate nella relazione letta dal
Governatore della Banca d'Italia il 31 maggio 2003: «In cinque anni, tra il 1997 e il 2002,
la produzione industriale ha segnato in
Italia un aumento del 3 per cento. In Francia l'incremento è stato intorno all'i_ 1, in
Germania del 12; nell'area dell'euro, escludendo l'Italia, sí situa al 14 per cento... La quota
delle esportazioni italiane nel mercato mondiale era progressivamente salita, tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, dal 2 al 4,5 per
cento... Dalla metà degli anni Novanta è iniziato un declino della competitività che ha riportato
la partecipazione italiana agli scambi
mondiali al livello raggiunto alla metà degli anni Sessanta. A prezzi costanti,
la quota di mercato è diminuita dal 4,5 per cento nel 1995 al 3,6 nel 2002. La perdita è diffusa
in tutti i mercati»63. Come ormai sappiamo, il 2003 è andato ancora peggio".
Siamo al declino di un modello di
specializzazione, di un modello dimensionale, in ultima analisi di un modello di
capitalismo. E una situazione che può spingere l'Italia inesorabilmente ai margini dell'economia europea,
relegandola ad un ruolo
periferico nella divisione internazionale del lavoro. E’ il fallimento della borghesia
italiana: tanto del drappello delle «grandi famiglie» quanto dell'esercito dei
«piccoli».
Ovviamente, sarebbe
sbagliato considerare la crisi italiana al di fuori del quadro di una crisi di accumulazione
del capitale di portata mondiale, che è di lunga durata ma che sembra essersi decisamente approfondita
negli ultimi anni. In questa
crisi si inserisce la progressiva erosione — in tutti i paesi capitalistici avanzati — del salario
diretto (tramite la precarizzazione dei rapporti di lavoro), di quello indiretto (tramite lo
smantellamento dello «stato sociale» ) e di quello differito (per
mezzo dell'attacco alle pensioni). In questa crisi si inseriscono anche i conflitti bellici che
non a caso hanno conosciuto una vera e
propria escalation nell'ultimo decennio65. Altri relatori illumineranno le dinamiche della
crisi che si presentano oggi a livello internazionale.
Ciò detto, una cosa è
indubbia: se la crisi è mondiale, il caso italiano sembra però assumere una particolare
gravità. In questa gravità va riconosciuto il fallimento della borghesia italiana, la sua
incapacità di essere classe dirigente. Bisogna però intendersi sul significato di «classe dirigente», per
evitare di cadere in
posizioni moralistiche ed astratte. Nell'attuale fase storica la borghesia dei paesi
capitalisticamente avanzati ha un solo modo per essere classe dirigente: quello di svolgere
diligentemente il proprio compito di «funzionario del capitale», di strumento
dell'accumulazione del capitale; in questo senso — e solo in questo — la borghesia può
oggi essere «classe dirigente». Quando Claudio
Napoleoni, in un suo per altri versi memorabile articolo sulla crisi del 1963, osservava che gli
imprenditori «non hanno fatto che sfruttare fino in fondo le convenienze che il particolare mercato
italiano offriva loro», e da
qui faceva discendere l'insostenibilità di ogni tesi che, «dal ruolo svolto dagli imprenditori
nella produzione, voglia dedurre la legittimità della pretesa della borghesia a
porsi come classe dirigente», era
quindi vittima di un equivoco: perché, se il loro comportamento opportunistico favorisce l'accumulazione
del capitale, precisamente per mezzo di tale comportamento i capitalisti sono classe dirigente.
Dello stesso equivoco sono M fondo vittime
tutti coloro - e sono molti - i quali ritengono oggi possibile giustificare l'attività
dell'impresa capitalistica in quanto essa sarebbe rivolta - almeno indirettamente - a «fini sociali» . A
questo riguardo bisognerà rispondere, con
Guido Rossi, che «l'impresa capitalistica non può sopportare, per la sua stessa natura,
una destinazione a 'fini sociali'. L'impresa capitalistica ha solo in se
stessa e nel proprio sviluppo il suo scopo mediato e finale»66.
Detto in altri termini: il borghese (il proprietario dei mezzi di produzione) ha un solo
dovere: quello di essere un buon «funzionario del capitale».
Certo, è un dovere che produce
conseguenze paradossali. Una su tutte: quanto più il borghese (il proprietario dei mezzi di
produzione, l'imprenditore) svolge con efficacia il proprio compito di
«funzionario del capitale», tanto più vede svanire il proprio ruolo in quanto tale. Infatti, quanto più
si procede sulla strada
della concentrazione e centralizzazione dei capitali, tanto più perde di importanza la
figura classica del proprietario come perno dell'organizzazione della produzione. Si tratta di un
fenomeno che Marx —con lo straordinario acume
che lo contraddistingueva — osservò trattando della società per azioni e ponendone in rilievo il
duplice carattere progressivo: da un lato essa
trasforma «i proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici
capitalisti monetari», e quindi radicalizza la tendenza di fondo del modo di produzione
capitalistico, operando la completa separazione del lavoro dalla proprietà dei mezzi di
produzione; dall'altro nella società per azioni
il capitale «acquista direttamente la forma di capitale sociale (capitale di individui
direttamente associati) contrapposto al capitale privato»: in tal senso «le imprese azionarie
capitalistiche sono da considerarsi... come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato»67.
Il fatto è che in Italia la borghesia
ha svolto assai male la propria missione di funzionario del capitale. Ce lo
dice già il fatto che il capitalismo italiano viene tuttora a buon diritto definito come un capitalismo
familiare. Non solo: con lo stesso buon
diritto è stato individuato, tra i tratti tipici del capitalismo italiano, «il
peso delle famiglie nella grande impresa»68. Ora, non si
tratta di una
caratteristica formale astratta, da ascrivere ai «caratteri nazionali» degli italiani (come il
gesticolare mentre si parla, arrivare in ritardo agli appuntamenti e simili). No: si
tratta di un dato di fatto, di una «sopravvivenza storica» che ha pesanti conseguenze sul piano
pratico ed economico. Infatti il carattere familiare della proprietà:
a)
fa sì che i dirigenti d'impresa non soltanto in genere
non godano di sufficiente autonomia operativa rispetto alla proprietà, ma spesso
addirittura coincidano con il proprietario e con i suoi discendenti, che in
tal caso vengono prescelti a quel
ruolo unicamente a motivo della consanguineità con il fondatore (modalità di
selezione che non costituisce propriamente l'ultimo grido in fatto di
modernità...);
b)
fa sì che la coincidenza dei ruoli tra manager e
proprietario si verifichi anche in società di grandi dimensioni, e non soltanto
— come scriveva Burnham — «nella sfera delle 'piccole industrie', la cui
importanza storica è irrilevante»69.
[1] Questo lavoro nasce
nell'ambito dell'attività di ricerca del Centro Studi per le Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES-PROTEO). Alcuni
risultati di tale ricerca, qui ripresi e
sviluppati, sono stati presentati in alcuni articoli pubblicati sui numeri
2/2002, 2-3/2003, 1/2004 della
rivista «Proteo»: Cent'anni di
improntitudine. Ascesa e caduta della Fiat, La scialuppa del Titanic. Dalla crisi
ai servizi pubblici: il punto d'approdo delle grandi famiglie del capitalismo italiano, Il
calabrone ha perso le ali. Le piccole e medie imprese
nella crisi.
[2] Vedi U. Bertone, Capitalisti d'Italia, Boroli, Novara 2003, pp. 37, 41.
[3] R. Balducci, Capitale finanziario e struttura
industriale, in F. Vicarelli (a cura di),Capitale industriale e capitale finanziario:
il caso italiano, Il Mulino, Bologna 1979, p. 362.
[4] Del resto i Consigli di gestione — apertamente osteggiati dagli
angloamericani — non erano mai stati formalmente riconosciuti: il decreto predisposto in
proposito dal ministro Morandi non fu mai approvato.
[5] «Nel periodo gennaio 1945-febbraio 1948 l'intero ammontare dei
finanziamenti concessi dagli
Istituti speciali è ripartito tra 222 imprese, 15 delle quali ne assorbono il 28,5%»: R. Balducci,
cit., p. 367.
[6] Cit. in V. Castronovo, FIAT 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Rizzoli, Milano
1999, p. 791.
[7] Soltanto dal 1954 al 1958 furono quasi 2,000 gli
iscritti e simpatizzanti di partiti di sinistra licenziati dalla Fiat: cfr. G. Carocci, Inchiesta alla nAT. Indagine su taluni aspetti della lotta di classe
nel complesso ni', in «Nuovi Argomenti», 1958, pp. 3-31. Va inoltre aggiunto che le nuove assunzioni venivano effettuate
attraverso vere e proprie schedature che consentivano di evitare
operai con idee di sinistra. Le schedature della Fiat (oltre 350.000 schede!) furono rinvenute, suscitando grande
scandalo, nel 1970.
[8] G. Arnendola, Lotta di classe e sviluppo economico dopo la
liberazione, in Tendenze del capitalismo italiano, Atti del Convegno dell'Istituto Gramsci (23-25
marzo 1962), Editori Riuniti, Roma 1962, vol. i, pp. 179-180.
[9]
Vedi in proposito P.
Peluffo (a cura di), Storia del
Mediocredito Centrale, Laterza,
Roma-Bari 1997, pp. 45 sgg.
[10] A. Pesenti, V. Vitello, Tendenze attuali del capitalismo italiano, in Tendenze del capitalismo italiano, cit., vol. i, p. 65.
[11] Ivi, p. 66.
[12] Nel 1959, ad
esempio, le imposte dirette fornirono appena iI 20,9% del gettito, a fronte del 79,1% rappresentato dalle imposte
indirette: G. Grilli, L. Raffaelli, Orientamenti di
politica tributaria, in Tendenze del capitalismo italiano, cit., vol. li, p. 327.
[13] Dei 1470 milioni di
dollari di aiuti del Piano Marshall le società citate assorbirono da sole oltre il 30%. La
Fiat ricevette da sola il 26,4% dei fondi devoluti al settore meccanico e siderurgico:
complessivamente, ad essa andò più del 12 `)/0 della totalità degli aiuti concessi all'industria
italiana; inoltre, il Piano creava le premesse per una ripresa economica che avrebbe
rilanciato la domanda di autovetture sul mercato italiano ed europeo.
[14] Si veda in proposito E Janossy, La fine dei miracoli economici, tr. it.
Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 19, 86; in particolare sul «miracolo» italiano
vedi pp. 95-105.
[15] Ma nell'industria il
ritmo di incremento fu addirittura del 9% medio, e fu del-1'11,4% nel 1959, del
13,6% nel 1960 e del 9,5% nel 1961: vedi A. Pesenti, V. Vitello, Tendenze attuali del capitalismo italiano, cit.,
pp. 13-14.
[16] R. Spesso,
intervento in Tendenze del capitalismo
italiano, cit., vol. 1, p. 285; vedi anche la comunicazione di G. Longo, «Miracolo economico» e commercio estero
nello sviluppo dell'economia
italiana nel secondo dopoguerra, ivi, vol. 11, in particolare pp. 369370.
[17] D'Alessandro, Autofinanziamento d'impresa, Roma, 1962,
p. 40; F. di Pasquantonio, intervento in Tendenze del capitalismo italiano, eh., vol.
I, p. 222. L'elevato tasso di autofinanziamento
non era un fenomeno soltanto italiano: nel 1965 esso era all'85% negli Usa: vedi la prefazione di Adolf Berle all'edizione
italiana di A.A. Berle jr., G.C. Means, Società per azioni e proprietà
privata, Einaudi, Torino 1966, p.
xxv.
[18] P. Ciofi, Alcuni aspetti dello sviluppo dei monopoli
negli anni 1950-1960, in Tendenze del
capitalismo italiano, cit., vol. Il, p. 142.
[19] V. Giacché, Una legge nelle stagioni della politica
industriale: storia della Sabatini, in Peluffo (a cura di), Storia del Mediocredito Centrale, cít., pp. 246 sgg.
[20] A. Graziani, Lo sviluppo dell'economia italiana, Dalla ricostruzione alla moneta
europea, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 88.
[21] Ivi,p. 89.
[22] Dati riportati in S. Brusco, S, Paba, Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo
dopoguerra agli anni novanta, in F. Barca (a cura di), Storia del
capitalismo italia no dal dopoguerra ad
oggi, Donzelli, Roma 1997, p.
271; U. Bertone, Capitalisti d'Italia, cit.,
p. 113.
[23] S. Brusco, S. Paba,
op, cit., pp. 324 e 308. Gli autori
notano inoltre che i differenziali sono certamente
più alti ancora. in guado non si hanno dati relativamente alle imprese sino a 20 addetti, pur aggiungendo che
«molti india inducono a pensare che nei distretti industriali i differenziali
salariali siano nettamente più bassi».
[24] G. De Luca, Dall'economia industriale all'«industria della finanza»: le società
quotate al listino azionario della Borsa di Milano dal 1861 al 2000, in Le società quotate alla Borsa valori di Milano dal 1861 al 2000. Profili
storici e titoli azionari, a cura
di G, De Luca, Scheiwiller, Milano 2002, pp. 25-27.
[25] Ivi, pp. 63-64.
[26] Dati riportati in P.
Ciocca, La nuova finanza in Italia, Bollati
Boringhieri, Torino 2000, p. 246.
[27] La cosiddetta «marcia
dei 40 mila». Anche se in piazza non erano più di 12.000.
[28] Per le vicende dei
cassintegrati FIAT si veda L'altra faccia
della FIAT, a cura del Coordinamento Cassintegrati, Massari, Roma 1990.
[29] La recente
santificazione di Craxi come
«modernizzatore» operata da Piero Fassíno (nel libro Per passione, Rizzali, Milano 2003) la
dice lunga sulla scarsa sincerità e la poca convinzione
con la quale acche la parte del Pci formalmente contraria al «patto di san Valentino» combatté la battaglia referendaria
contro l'attacco craxiano alla scala mobile.
[30] U. Bertone, Capitalisti d'Italia, cit., pp. 125-126.
[31] A. Graziani, Lo sviluppo dell'economia italiana, cit.,
pp. 148-150.
[32] Si veda ad esempio U.
Marani, Finanziamenti e investimenti
industriali in Italia (1966-1976), Boringhieri, Torino 1980.
[33] A. Graziani, Lo sviluppo
dell'economia italiana, cit., p. 146.
[34] G. Agnelli, discorso ai
dirigenti della Fiat, 25 novembre 1988. (corsivi miei)..
[35] Dati citati da A. Fazio,
«Il Sole 24 Ore», 12 ottobre 2002.
[36] R & S, Multinationals: Financial
Aggregates (274 Companies). 2002 edition, Milano, gennaio
2003. La ricerca è scaricabile dal sito internet www.mbres,it. Per la cronaca,
i dati sulla produttività ed il costo
del lavoro sono stati riportati anche da «Il Sole 24 Ore», i128 gennaio 2003. In una tabella e non nel titolo,
come è ovvio...
[37] Consob, Relazione per l'anno 2002, pp. 4, 7.
[38] L'ex Presidente della
Consob, Spaventa, ha così descritto la situazione: «l'esercizio del controllo con un impegno più modesto nella proprietà
viene sovente ottenuto ricorrendo a
lunghe e complicate strutture piramidali» (Incontro
annuale con il mercato finanziario, 8 aprile 2002, p. 11).
[39] Vedi, rispettivamente, M.
Mucchettí, op. ci1., p. 52, ed il
titolo in prima pagina del quotidiano finanziario
«MF» del 17 luglio 2003.
[40] 0. De Paolini, La classe che non c'è più, «Borsa &
Finanza», 19 ottobre 2002.
[41] Su questo ed altri
aspetti delle motivazioni addotte per le privatizzazioni vedi R. Martufi, L.Vasapollo, Vizi privati... senza. pubbliche virtù. Lo stato delle privatizzazioni
e il Reddito Sociale Minimo, Mediaprint, Napoli 2003, p. 82.
[42] Al riguardo vale la pena
di riproporre quanto scriveva Lenin poco meno di 90 anni fa: «La 'democratizzazione' del possesso di azioni,
dalla quale i sofisti borghesi e gli opportunisti `pseudosocialdemocratici' si
ripromettono (o fingono di ripromettersi) la `democratizzazione del capitale',
l'aumento di importanza e di funzione della piccola produzione, ecc., nella realtà costituisce un mezzo
per accrescere la potenza dell'oligarchia finanziaria» (V.I. Lenin, L'imperialismo,
fase suprema del capitalismo, 1916-7; tr. it. in Scritti
economici, a cura di U. Cenoni, Roma 1977, p. 535).
[43] Consob, Relazione per l'anno
2002, p. 3.
[44] «Il Sole 24 Ore», 20 ottobre 2002.
[45] S. Cingolani, I boiardi son
spariti, dove sono i capitalisti?, «Il Riforrnista», 17/5/2003.
[46] S. Brusco, S. Paba, Per una storia dei
distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni novanta, in F. Barca (a cura di), Storia del
capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Donzelli, Roma 1997, p.
320.
[47] P. Ciocca, L'economia
italiana: un problema di crescita, relazione letta alla Società Italiana degli
Economisti, Salerno, 25 ottobre 2003, n. 25.
[48] M. Sarcinelli, Imprese, la
sfida di essere grandi, «Il Sole 24 Ore», 22 febbraio 2003.
[49] Indagine sulle imprese manifatturiere, cit., p. 7. Del pari significativo che le
uniche imprese a fare eccezione siano proprio quelle grandi.
[50] Vedi: M. Fortis, cit.,
p. 74; Indagine sulle imprese
manifatturiere. Ottavo rapporto sull'industria
italiana e la politica industriale, Capitalia, Roma, dicembre 2002, p. 34; Relazione del governatore sull'esercizio 2002, maggio 2003, pp. 260,
268. Considerazioni ulteriori meriterebbero le modalità di erogazione del credito, che in Italia
avvengono attraverso il «multiaffidamento» (ossia il rapporto contemporaneo
con più banche, al fine di poter operare in maniera meno trasparente), ed alle prospettive derivanti
dall'adozione dei nuovi requisiti patrimoniali previsti dall'accordo
internazionale che va sotto il nome di «Basilea H»: i due temi sono legati tra
loro, nel senso che l'accordo, basando ín misura maggiore la
valutazione del merito di credito su elementi oggettivi (ossia quantitativi), rafforza l'esigenza di
una maggiore trasparenza dei bilanci delle imprese. Precisamente per questo motivo esso è così aversato in Italia dalle rii e dal commercialista che le rappresenta al governo.
[51] P. Ciocca, L'economia
italiana, cit., p. 4.
[52] M. De Cecco, Piccole imprese, banche, cOninzercialisti. Note sui protagonisti della seconda indusirializzaziane italiana, relazione al convegno L'economia italiana e l'Europa. Vent'anni di
tasformazioni, crisi e opportunità, Urbino, 14 marzo 2003, p. ll (vedi anche pp. 5-6).
[53] L'apertura
di un'impresa italiana ad investitori istituzionali è evento così raro che
merita articoli (tra l'ammirato ed il perplesso) sui giornali. Si veda ad esempio
E. De Rosa, Ai fondi i tesori del made in Italy, «Il
Corriere della Sera», 10 novembre 2003.
[54] K. Marx, Il Capitale, L m, cap. 15, cit., p. 303.
Coerentemente, Marx vedeva nelle «imprese azionarie capitalistiche» una forma
superiore di configurazione societaria rispetto alle imprese di proprietà di un singolo
capitalista: vedi Il Capitale, 1. Fu, cap. 27, partic. pp. 522-523.
[55] G.M. Gros-Pietro, E.
Reviglio, A. Torrisi, Assetti
proprietarie mercati finanziari europei, Il Mulino, Bologna 2001,
p. 347. È appena il caso di notare come il passo citato riprenda di fatto
(consapevolmente o meno) l'analisi marxiana.
[56] P. Ciocca, L'economia italiana, cit., p. 6. A
fugare ogni dubbio al riguardo basterebbero i dati riportati dall'autore alla
nota n. 18 della sua relazione.
[57] Questo e non altro è il
significato concreto di quanto si legge in un passo della Relazione sul 2002: «La moderazione salariale e la maggiore flessibilità
dei rapporti di lavoro sono da alcuni anni
all'origine della crescita del numero di occupati, sebbene soprattutto in attività
caratterizzate da bassi livelli di produttività» (p. 94; corsivi miei).
[58] Considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia, 31 maggio 2003, p. 15.
[59] S. Brusco, S. Paba,
op. cit., p. 265.
[60] Nelle Considerazioni finali, cit., p. 20.
[61] Vedi Relazione sul 2002, cit., pp. 139-140, 149; S. Tamburello, Economia
sommersa a quota 317 miliardi nel
2003, «Corriere della Sera», 25 agosto 2003. Cfr. anche E Schneider — D.H. Ernste, Shadow
EC0120121iCS: Size, Causes and Consequences, in «journal of Economie Literature», 2000, p. 104.
[62] P. Ciocca, L'economia italiana, cot,, p. 1.
[63] Considerazioni
finali del governatore della
Banca d'Italia, 31 maggio 2003, pp. 15-16.
[64] V. Chierchia, E. Pagnotta, made in Italy soffre ancora, «Il Sole 24 Ore», 23 gennaio 2004.
[65] In argomento si veda Il piano inclinato del capitale, a cura di L. Vasapollo, jaca Book, Milano 2003.
[66] Vedi,
rispettivamente: C. Napoleoni, Nota sulla
congiuntura economica italiana (1964), riprodotto in A. Graziani (a cura di), L'economia italiana: 1945-1970, Il Mulino, Bologna 1972, p. 301; G. Rossi, &forma dell'impresa o riforma dello
Stato? (1976), in G. Rossi, Trasparenze
e vergogna. Le società e la borsa, II Saggiatore, Milano 1982, p. 20.
[67] K. Marx, Il Capitale,l.
III, cap. 27,
Editori Riuniti, Roma 1968, vol. III, torno I, pp. 518 sgg.
[68] N.
Colajanni, L'economia italiana dal
dopoguerra a oggi, Sperling & Kupfer, Milano 1989.
[69] J.
Burnham, La rivoluzione
manageriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 75.