I partiti e i movimenti ecologisti, nati nella fase finale o
subito dopo la fine del ciclo di lotte operaie e studentesche degli anni
Sessanta e Settanta del secolo scorso, rappresentano una summa delle
caratteristiche sociali, politiche e culturali analizzate nei paragrafi
precedenti: sono movimenti «single issue», cioè concentrati prevalentemente,
se non esclusivamente, su tematiche ambientali; la loro base sociale è
costituita in maggioranza da individui istruiti provenienti da strati sociali
medio-elevati; sono eredi di una sola delle due correnti culturali
sessantottine descritte da Boltanski e Chiapello, cioè della critica artistica,
mentre appaiono meno interessati ai temi della critica sociale; sono fortemente
influenzati dai valori del movimento femminista e dai paradigmi teorici di
cultural e gender studies; sono assertori del rovesciamento gerarchico fra
bisogni immateriali e bisogni materiali, sulla scia di intellettuali postmodernisti
come Anthony Giddens e Ulrich Beck; sono stati i primi a coniare lo slogan
postideologico «non siamo di sinistra né di destra»; sono pacifisti per
principio e assertori della lotta non violenta; non sono movimenti antisistema,
in quanto non pensano che il mondo si debba cambiare attraverso il rovesciamento
rivoluzionario (ancorché non violento) del capitalismo, ma sono convinti che lo
si possa e debba cambiare «a partire da sé», cambiando cioè valori, punti di
vista e comportamenti dei singoli individui.
Forse l'elenco appena stilato non riflettere fedelmente le
caratteristiche che il movimento può avere assunto in certi momenti e in certi
paesi ma ritengo che, nell'insieme, tracci un identikit sufficientemente
accurato di queste forze politiche che, a mezzo secolo dal loro esordio sulla
scena politica mondiale, presentano un bilancio a dir poco deludente. Non hanno
mai ottenuto, se non occasionalmente e quasi solo in Germania, grandi successi
elettorali; quando e dove ci sono riusciti e sono entrati a far parte di
qualche coalizione governativa (non sempre in alleanza con forze di sinistra),
ciò è stato possibile solo grazie al prevalere delle correnti «realiste» del
movimento a spese di quelle radicali, contribuendo spesso a legittimare politiche
economiche liberiste o addirittura scelte di politica estera in contrasto con i
loro principi pacifisti (vedi il ruolo del verde tedesco Joschka Fischer,
ministro degli affari esteri della Germania e Vice-Cancelliere nel Governo di
Gerhard Schròder dal 1998 al 2005, che ha contribuito a legittimare gli interventi
militari occidentali nei Balcani). Hanno fatto meglio sul piano nelle lotta per
la difesa dell'ambiente — vedi le battaglie contro il nucleare e la privatizzazione
dell'acqua. Ma anche in questo non sono ascrivibili esclusivamente a loro, ma
piuttosto all'impegno di ampie coalizioni politiche e sociali di cui essi
rappresentano solo una parte (raramente maggioritaria). Se poi consideriamo i
risultati raggiunti sul fronte di quello che è il vero, grande tema ambientale
della nostra epoca, vale dire il riscaldamento globale, il bilancio è
fallimentare. Né potrebbe essere altrimenti, perché denunciare la catastrofe
senza indicarne le cause, senza cioè far capire a tutti che nessun
miglioramento potrà essere ottenuta dal modo di produzione capitalistico, significa
rimuovere il fatto che viviamo in un mondo in cui gli interessi di politica,
tecnologia e finanza sono talmente integrati che solo una rivoluzione —
comunque la si voglia e possa immaginare — può rovesciare i rapporti di forza
che hanno determinato l'interminabile sequenza di fallimenti dei vertici
mondiali sull'ambiente.
Commentando l'esito dell'ultimo di questi eventi, tanto
spettacolari quanto inutili, la conferenza di Parigi del dicembre 2015, Giovanni
Battista Zorzoli ha messo in luce(1) come l'unico reale passo
avanti, rispetto agli esiti derisori dei vertici precedenti, sia consistito nel
fatto che i 193 paesi partecipanti hanno finalmente riconosciuto (bontà loro)
la natura antropica della crescita della temperatura del globo - un atto dovuto
visto che nemmeno le teorie degli scienziati negazionisti assoldati dalle
multinazionali riescono più a negarne l'evidenza empirica. Peccato, aggiunge
l'autore dell'articolo, che «l’accordo che vale per un secolo» ventilato da
Hollande e strombazzato dal sistema globale dei media, preveda una riduzione di
emissioni che comporterebbe comunque una crescita rompo della temperatura
sufficiente a provocare danni catastrofici. Peccato soprattutto che si tratti
di impegni volontari non vincolanti che non prevedono adeguate procedure di
verifica. Per ottenere questo «successo», ironizza Zorzoli, sono convenute
Parigi cinquemila persone fra politici, funzionari, tecnici, esperti e altri
membri del circo mediatico globale: un esodo che ha comportato, oltre a spese
folli, un notevole costo ambientale.
Per inciso, non si è nemmeno riusciti, scrive ancora
Zorzoli, a introdurre quel carbon pricing
che avrebbe consentito di orientare gli investimenti, malgrado le pressioni
esercitate in tal senso da un centinaio di multinazionali «preoccupate che gli
effetti del riscaldamento globale compromettano i loro investimenti futuri»(2).
Non so fino a che punto tale preoccupazione meriti di essere presa sul serio, ma
non credo sia il caso di scommettere su una «presa di coscienza», ambientalista
da parte della maggioranza delle aziende capitaliste né tanto meno, sulla loro
conversione ai principi della «responsabilità sociale d'impresa». Il fine di
ogni singolo capitalista resta la realizzazione del massimo profitto immediato,
anche a costo di danneggiare gli interessi della sua stessa classe (per tacere
di quelli dell'umanità); resta cioè la logica che ha indotto 19 grandi imprese(3)
ad analizzare come il collasso dell'ambiente planetario potrebbe offrire
inedite opportunità di profitto: dallo sviluppo di prodotti per proteggersi
dalle ondate di calore, alla ricostruzione di infrastrutture distrutte dalle
catastrofi ambientali, dai farmaci per combattere le malattie provocate dalle
mutazioni climatiche, ai cibi geneticamente modificati per far fronte alle
carestie, dal miglioramento delle tecnologie per le previsioni del tempo alle
«tecnologie di sicurezza» per gestirei conflitti provocati dalla riduzione
delle risorse disponibili e difendere i confini dei paesi ricchi dalle invasioni
da parte di popolazioni ridotte alla fame.
Di fronte a questo disastro, l'enciclica Laudato sì(4) di papa Francesco
è stata un'irruzione di aria fresca, nella misura in cui ha restituito al
discorso ecologista una congrua dose di critica anticapitalista, assai più
radicale di quella che possono esibire tutti i documenti prodotti da mezzo
secolo di cultura «verde pallido». Al punto che credo valga la pena di proporne
qui di seguito una lunga serie di citazioni: 1) sull'intreccio fra crisi
ambientale e capitalismo: «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e
un'altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale»(5);
«L’imposizione di uno stile egemonico di vita legato a un modo di produzione
Può essere tanto nocivo quanto l'alterazione degli ecosistemi»(6);
2) contro la presunta neutralità della tecnica: «i prodotti della tecnica non
sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di
vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati
gruppi di potere»(7); «oggi il paradigma tecnocratico è diventato
così dominante che è molto difficile prescindere dalle sue risorse, e ancora
più difficile è utilizzare le sue risorse senza essere dominati dalla sua
logica»(8); 3) contro le privatizzazioni: «l'accesso all'acqua
potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale,
perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per
l'esercizio degli altri diritti umani»(9); «La tradizione cristiana
non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà
privata»(10); 4) infine (citando un documento dei vescovi della
Bolivia) l'invito a riconoscere le responsabilità differenti che paesi ricchi,
paesi in via di sviluppo e paesi poveri hanno nei confronti delle catastrofi
ambientali, e a far sì che ognuno ne paghi i costi in proporzione alle
effettive responsabilità: «i paesi che hanno tratto beneficio da un alto
livello di industrializzazione, a costo di un enorme emissione di gas serra,
hanno maggiore responsabilità di contribuire alla soluzione dei problemi che hanno
causato»(11). Per quanto l'enciclica di papa Francesco riconosca la
stretta relazione fra minaccia ambientale e capitalismo in modo assai più chiaro
ed esplicito di molti intellettuali sedicenti ecologisti, la sua resta tuttavia
una critica «depotenziata» nella misura in cui –al pari delle culture verdi -
indica la soluzione del problema in un percorso di «conversione» individuale,
in una presa di coscienza che induca in primo luogo le persone a cambiare stili
di vita e di consumo. Porre la persona al centro del discorso; partire da sé;
cambiare le proprie relazioni con il partner, i figli, i parenti, gli amici, i
membri delle comunità di appartenenza e gli esseri umani in generale; mettere
la solidarietà al posto della competizione; riconoscere e tollerare le differenze;
neutralizzare le proprie e altrui aggressività; risolvere i conflitti con il
confronto e il dialogo; cambiare pratiche e abitudini di vita quotidiana, rovesciare
i rapporti di forza con il potere mobilitando dal basso le coscienze individuali
e di gruppo: questi i «comandamenti» che emergono da tutte le culture politiche
esaminate in questo capitolo, che configurano una sorta di conversione laica
che somiglia non poco alla conversione cristiana, anche se su una serie di temi
- come quello dei diritti civili - i due punti di vista entrano in
competizione. Sono i nuovi comandamenti che modellano l'azione e gli obiettivi
dei movimenti e delle culture «alternative» che hanno occupato il campo della
sinistra radicale dopo il collasso che queste hanno subito dopo gli anni
Settanta del secolo scorso.
Coloro che si impegnano in simili pratiche respingono le
critiche che vengono loro rivolte da chi li accusa di avere rinunciato alla
lotta anticapitalista: accantonare le velleità rivoluzionarie, ribattono, non
significa rinunciare a migliorare il mondo e noi, con la nostra azione di
lavoratori, consumatori, cittadini «consapevoli» diamo in questo senso un
contributo concreto e più efficace di mille proclami ideologici. Ma è vero? Oppure
in questo modo si contribuisce soprattutto a migliorare il nostro mondo di
bianchi, occidentali, membri di strati sociali medio alti (nel che,
intendiamoci, non c'è nulla di male) ma non si sposta alcunché in termini di
rapporti di forza fra sfruttatori e sfruttati, fra oppressori e oppressi? Per
far capire che tale dubbio è giustificato, mi limito ad analizzare un esempio
concreto, spendendo qualche parola sulle reti del cosiddetto commercio «equo e
solidale». L'obiettivo di questo movimento è decisamente ambizioso: si propone
infatti di cambiare le regole del commercio internazionale riequilibrandole a
favore dei paesi poveri. Ciò dovrebbe avvenire promuovendo nuove forme di
partnership commerciale basate sul dialogo, la trasparenza e il rispetto
reciproci in modo, da perseguire relazioni più eque fra i partner. Il ruolo del
«nemico» è incarnato dalle grandi catene commerciali dei paesi ricchi, le
quali, nella misura in cui esercitano un controllo oligopolistico sulle catene
internazionali di intermediazione, riescono a massimizzare (e a trasformare in
profitto) il valore aggiunto della merce acquistata dal consumatore finale. Per
contrastarne il dominio, ci si impegna ad attivare canali di scambio diretti
fra produttori e consumatori onde garantire i diritti dei lavoratori e
produttori del sud, offrire loro redditi più elevati e promuovere uno sviluppo
sostenibile, impedendo l'espropriazione di enormi aree di terreno coltivabile e
la loro trasformazione in monocolture gestite con tecnologie inquinanti
(antiparassitari, Ogm, ecc.).
È evidente che tutto ciò può funzionare solo mobilitando la
partecipazione attiva dei consumatori dei paesi ricchi, il che fa sì che il
cuore del movimento — organizzazione, finanziamenti, comunica-zione, ecc. —
resti perlopiù situato al nord. È a partire da quest'ultima considerazione che
l'economista senegalese Ndongo Samba Sylla elabora una critica radicale(12)
di obiettivi, metodi e ideologia del commercio equo e solidale. E possibile, si
chiede Sylla, che l'economia di mercato possa essere messa al servizio dei poveri
e dell'ambiente? La risposta degli ideologi del movimento è sì: lo scambio
iniquo fra nord e sud è causato da una «distorsione» del mercato, causata a sua
volta da gruppi economici privi di scrupoli e disposti a tutto pur di aumentare
a dismisura i loro profitti. Ma ciò osserva Sylla, significa dimenticare che l'imperativo
di tutto il capitalismo — non solo di pochi gruppi privi di scrupoli — è la massimizzazione
del profitto e l'accumulazione illimitata del capitale. Se questo è vero, è
lecito immaginare che sia possibile rendere «responsabile» un sistema che per
definizione non tollera alcun limite etico? Evidentemente no, risponde Sylla, che
poi, per sostenere tale punto di vista, ricorda come il commercio e solidale
sia, di fatto, un effetto collaterale della globalizzazione/liberalizzazione
del commercio internazionale: prima della globalizzazione, i paesi poveri
potevano infatti difendersi dalla colonizzazione economica erigendo barriere
doganali contro prodotti dei paesi ricchi, per cui è chiaro che, senza
l'apertura dei mercati, nemmeno il commercio equo e solidale avrebbe potuto
nascere e svilupparsi. Ma se l'equo e solidale è la continuazione del libero
commercio, come si può pensare che gli eccessi del mercato possano essere
eliminati usando i suoi stessi metodi e principi?
Queste sono argomentazioni astratte, petizioni di principio,
qualcuno potrebbe obiettare: il vero problema è capire se la cosa funziona, se
riesce realmente a migliorare le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori
e produttori del sud. Per dimostrare che ciò non avviene, o avviene in misura
limitata, Sylla ricorda che il movimento è diviso in due grandi filoni: il
modello integrato e quello basato sulla certificazione del prodotto. Il primo è
quello rimasto fedele al progetto inziale di attivare reti di relazioni dirette
fra produttori e consumatori, reti che si autofinanziano, utilizzano varie
forme di volontariato, coinvolgono il più possibile i produttori nella gestione
delle varie attività, ecc. Si tratta di un modello destinato, per forza di
cose, a non superare certe dimensioni e a restare confinato in una serie di
nicchie di cultura alternativa. Il secondo modello, essendosi posto l'obiettivo
di raggiungere il maggior numero possibile di consumatori, ha dovuto scendere a
patti con il diavolo, si è cioè alleato con la grande distribuzione per fare
approdare i prodotti del commercio equo e solidale sui suoi scaffali. Si tratta
di un'evoluzione analoga a quella subita dai prodotti «biologici»: il
dispositivo della certificazione neutralizza di fatto la connotazione
«alternativa» dei Prodotti, trasformandoli in marchi commerciali come tutti gli
altri: il marketing trionfa sull'ideologia. Le conseguenze di tale processo non
sono solo culturali: il successo del marchio equo e solidale, al pari di quello
del marchio bio, fa crescere la domanda, e la crescita della domanda impone di
adottare gli stessi metodi produttivi dei prodotti normali per poter competere
con loro (il che ha determinato l'inclusione di grandi piantagioni nelle reti
del movimento con buona pace dell'obiettivo di sostenere i piccoli produttori).
Così le imprese multinazionali possono appuntarsi medaglie politicamente
corrette e santificarsi agli occhi del consumatore — un fenomeno che abbiamo
potuto verificare nel corso dell'Expo milanese sull'alimentazione: con lo
slogan «nutrire il mondo», e sbandierando progetti di sviluppo sostenibile,
marchi bio, naturali, equi e solidali, ecc. si è spacciata una kermesse delle
multinazionali agroalimentari per una fiera di prodotti «alternativi».
Per concludere: il commercio equo e solidale può essere
considerato un'alternativa globale alla globalizzazione neoliberista? No,
risponde Sylla, perché buona parte del valore aggiunto (anche se in misura
minore che nei circuiti commerciali mainstream) va al nord, mentre nelle tasche
dei produttori resta relativamente poco; e no perché, al di là delle buone
intenzioni, il suo risultato è stato, nella migliore delle ipotesi, quello di
proteggere i produttori e le loro famiglie dalla povertà estrema, senza farli
però uscire veramente dalla povertà, nella peggiore, quello di indurre alcuni
ricchi di buona volontà a lavorare inconsapevolmente per la propria categoria,
invece che per i poveri che si illudono di aiutare. Analoghe considerazioni
valgono per tutte le pratiche che credono di poter cambiare il mondo facendo
leva sulle persone «di buona volontà».
Carlo Formenti - La Variante Populista - Derive&Approdi - 2016
1.
G. B. Zorzoli, Ecosistemi ed ego-sistemi,
«alfabeta2», https://www.alfabeta2.it/2015/12/23/ecosistemi-ed-ego-sistemi/.
2.
Ibidem.
3.
Vedi l'articolo al seguente indirizzo http://www.motherjones.com/environment/2015/12/climate-change-business-opportunities.
4.
Papa Francesco, Laudato sì. Enciclica sulla cura
della casa comune, San Paolo, Milano 2015.
5.
Ivi, p. 132.
6.
Ivi, p. 137.
7.
Ivi, p. 108.
8.
Ibidem.
9.
Ivi, p. 50.
10. Ivi,
p. 97.
11. Ivi,
p. 156. Su questo tema, vedi anche T. Piketty, L'Occidente inquina di più. Ora
paghi per i suoi consumi, «MicroMega», http://temierepubblica.it/micro-consumi/micromega-online/1%E2%80%99occidente-inquina-di-piu-ora-paghi-per-i-suoi-consumi/.
12. Vedi
N. S. Sylla The Fair Trade Scandal. Marketing,
poverty to benefit the Rich PlutoPress, London 2014