martedì 27 dicembre 2016

Verde Pallido


I partiti e i movimenti ecologisti, nati nella fase finale o subito dopo la fine del ciclo di lotte operaie e studentesche degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, rappresentano una summa delle caratteristiche sociali, politiche e culturali analizzate nei paragrafi precedenti: sono movimenti «single issue», cioè concentrati prevalentemente, se non esclusivamente, su tematiche ambientali; la loro base sociale è costituita in maggioranza da individui istruiti provenienti da strati sociali medio-elevati; sono eredi di una sola delle due correnti culturali sessantottine descritte da Boltanski e Chiapello, cioè della critica artistica, mentre appaiono meno interessati ai temi della critica sociale; sono fortemente influenzati dai valori del movimento femminista e dai paradigmi teorici di cultural e gender studies; sono assertori del rovesciamento gerarchico fra bisogni immateriali e bisogni materiali, sulla scia di intellettuali postmodernisti come Anthony Giddens e Ulrich Beck; sono stati i primi a coniare lo slogan postideologico «non siamo di sinistra né di destra»; sono pacifisti per principio e assertori della lotta non violenta; non sono movimenti antisistema, in quanto non pensano che il mondo si debba cambiare attraverso il rovesciamento rivoluzionario (ancorché non violento) del capitalismo, ma sono convinti che lo si possa e debba cambiare «a partire da sé», cambiando cioè valori, punti di vista e comportamenti dei singoli individui.
Forse l'elenco appena stilato non riflettere fedelmente le caratteristiche che il movimento può avere assunto in certi momenti e in certi paesi ma ritengo che, nell'insieme, tracci un identikit sufficientemente accurato di queste forze politiche che, a mezzo secolo dal loro esordio sulla scena politica mondiale, presentano un bilancio a dir poco deludente. Non hanno mai ottenuto, se non occasionalmente e quasi solo in Germania, grandi successi elettorali; quando e dove ci sono riusciti e sono entrati a far parte di qualche coalizione governativa (non sempre in alleanza con forze di sinistra), ciò è stato possibile solo grazie al prevalere delle correnti «realiste» del movimento a spese di quelle radicali, contribuendo spesso a legittimare politiche economiche liberiste o addirittura scelte di politica estera in contrasto con i loro principi pacifisti (vedi il ruolo del verde tedesco Joschka Fischer, ministro degli affari esteri della Germania e Vice-Cancelliere nel Governo di Gerhard Schròder dal 1998 al 2005, che ha contribuito a legittimare gli interventi militari occidentali nei Balcani). Hanno fatto meglio sul piano nelle lotta per la difesa dell'ambiente — vedi le battaglie contro il nucleare e la privatizzazione dell'acqua. Ma anche in questo non sono ascrivibili esclusivamente a loro, ma piuttosto all'impegno di ampie coalizioni politiche e sociali di cui essi rappresentano solo una parte (raramente maggioritaria). Se poi consideriamo i risultati raggiunti sul fronte di quello che è il vero, grande tema ambientale della nostra epoca, vale dire il riscaldamento globale, il bilancio è fallimentare. Né potrebbe essere altrimenti, perché denunciare la catastrofe senza indicarne le cause, senza cioè far capire a tutti che nessun miglioramento potrà essere ottenuta dal modo di produzione capitalistico, significa rimuovere il fatto che viviamo in un mondo in cui gli interessi di politica, tecnologia e finanza sono talmente integrati che solo una rivoluzione — comunque la si voglia e possa immaginare — può rovesciare i rapporti di forza che hanno determinato l'interminabile sequenza di fallimenti dei vertici mondiali sull'ambiente.
Commentando l'esito dell'ultimo di questi eventi, tanto spettacolari quanto inutili, la conferenza di Parigi del dicembre 2015, Giovanni Battista Zorzoli ha messo in luce(1) come l'unico reale passo avanti, rispetto agli esiti derisori dei vertici precedenti, sia consistito nel fatto che i 193 paesi partecipanti hanno finalmente riconosciuto (bontà loro) la natura antropica della crescita della temperatura del globo - un atto dovuto visto che nemmeno le teorie degli scienziati negazionisti assoldati dalle multinazionali riescono più a negarne l'evidenza empirica. Peccato, aggiunge l'autore dell'articolo, che «l’accordo che vale per un secolo» ventilato da Hollande e strombazzato dal sistema globale dei media, preveda una riduzione di emissioni che comporterebbe comunque una crescita rompo della temperatura sufficiente a provocare danni catastrofici. Peccato soprattutto che si tratti di impegni volontari non vincolanti che non prevedono adeguate procedure di verifica. Per ottenere questo «successo», ironizza Zorzoli, sono convenute Parigi cinquemila persone fra politici, funzionari, tecnici, esperti e altri membri del circo mediatico globale: un esodo che ha comportato, oltre a spese folli, un notevole costo ambientale.
Per inciso, non si è nemmeno riusciti, scrive ancora Zorzoli, a introdurre quel carbon pricing che avrebbe consentito di orientare gli investimenti, malgrado le pressioni esercitate in tal senso da un centinaio di multinazionali «preoccupate che gli effetti del riscaldamento globale compromettano i loro investimenti futuri»(2). Non so fino a che punto tale preoccupazione meriti di essere presa sul serio, ma non credo sia il caso di scommettere su una «presa di coscienza», ambientalista da parte della maggioranza delle aziende capitaliste né tanto meno, sulla loro conversione ai principi della «responsabilità sociale d'impresa». Il fine di ogni singolo capitalista resta la realizzazione del massimo profitto immediato, anche a costo di danneggiare gli interessi della sua stessa classe (per tacere di quelli dell'umanità); resta cioè la logica che ha indotto 19 grandi imprese(3) ad analizzare come il collasso dell'ambiente planetario potrebbe offrire inedite opportunità di profitto: dallo sviluppo di prodotti per proteggersi dalle ondate di calore, alla ricostruzione di infrastrutture distrutte dalle catastrofi ambientali, dai farmaci per combattere le malattie provocate dalle mutazioni climatiche, ai cibi geneticamente modificati per far fronte alle carestie, dal miglioramento delle tecnologie per le previsioni del tempo alle «tecnologie di sicurezza» per gestirei conflitti provocati dalla riduzione delle risorse disponibili e difendere i confini dei paesi ricchi dalle invasioni da parte di popolazioni ridotte alla fame.
Di fronte a questo disastro, l'enciclica Laudato sì(4) di papa Francesco è stata un'irruzione di aria fresca, nella misura in cui ha restituito al discorso ecologista una congrua dose di critica anticapitalista, assai più radicale di quella che possono esibire tutti i documenti prodotti da mezzo secolo di cultura «verde pallido». Al punto che credo valga la pena di proporne qui di seguito una lunga serie di citazioni: 1) sull'intreccio fra crisi ambientale e capitalismo: «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un'altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale»(5); «L’imposizione di uno stile egemonico di vita legato a un modo di produzione Può essere tanto nocivo quanto l'alterazione degli ecosistemi»(6); 2) contro la presunta neutralità della tecnica: «i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere»(7); «oggi il paradigma tecnocratico è diventato così dominante che è molto difficile prescindere dalle sue risorse, e ancora più difficile è utilizzare le sue risorse senza essere dominati dalla sua logica»(8); 3) contro le privatizzazioni: «l'accesso all'acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l'esercizio degli altri diritti umani»(9); «La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata»(10); 4) infine (citando un documento dei vescovi della Bolivia) l'invito a riconoscere le responsabilità differenti che paesi ricchi, paesi in via di sviluppo e paesi poveri hanno nei confronti delle catastrofi ambientali, e a far sì che ognuno ne paghi i costi in proporzione alle effettive responsabilità: «i paesi che hanno tratto beneficio da un alto livello di industrializzazione, a costo di un enorme emissione di gas serra, hanno maggiore responsabilità di contribuire alla soluzione dei problemi che hanno causato»(11). Per quanto l'enciclica di papa Francesco riconosca la stretta relazione fra minaccia ambientale e capitalismo in modo assai più chiaro ed esplicito di molti intellettuali sedicenti ecologisti, la sua resta tuttavia una critica «depotenziata» nella misura in cui –al pari delle culture verdi - indica la soluzione del problema in un percorso di «conversione» individuale, in una presa di coscienza che induca in primo luogo le persone a cambiare stili di vita e di consumo. Porre la persona al centro del discorso; partire da sé; cambiare le proprie relazioni con il partner, i figli, i parenti, gli amici, i membri delle comunità di appartenenza e gli esseri umani in generale; mettere la solidarietà al posto della competizione; riconoscere e tollerare le differenze; neutralizzare le proprie e altrui aggressività; risolvere i conflitti con il confronto e il dialogo; cambiare pratiche e abitudini di vita quotidiana, rovesciare i rapporti di forza con il potere mobilitando dal basso le coscienze individuali e di gruppo: questi i «comandamenti» che emergono da tutte le culture politiche esaminate in questo capitolo, che configurano una sorta di conversione laica che somiglia non poco alla conversione cristiana, anche se su una serie di temi - come quello dei diritti civili - i due punti di vista entrano in competizione. Sono i nuovi comandamenti che modellano l'azione e gli obiettivi dei movimenti e delle culture «alternative» che hanno occupato il campo della sinistra radicale dopo il collasso che queste hanno subito dopo gli anni Settanta del secolo scorso.
Coloro che si impegnano in simili pratiche respingono le critiche che vengono loro rivolte da chi li accusa di avere rinunciato alla lotta anticapitalista: accantonare le velleità rivoluzionarie, ribattono, non significa rinunciare a migliorare il mondo e noi, con la nostra azione di lavoratori, consumatori, cittadini «consapevoli» diamo in questo senso un contributo concreto e più efficace di mille proclami ideologici. Ma è vero? Oppure in questo modo si contribuisce soprattutto a migliorare il nostro mondo di bianchi, occidentali, membri di strati sociali medio alti (nel che, intendiamoci, non c'è nulla di male) ma non si sposta alcunché in termini di rapporti di forza fra sfruttatori e sfruttati, fra oppressori e oppressi? Per far capire che tale dubbio è giustificato, mi limito ad analizzare un esempio concreto, spendendo qualche parola sulle reti del cosiddetto commercio «equo e solidale». L'obiettivo di questo movimento è decisamente ambizioso: si propone infatti di cambiare le regole del commercio internazionale riequilibrandole a favore dei paesi poveri. Ciò dovrebbe avvenire promuovendo nuove forme di partnership commerciale basate sul dialogo, la trasparenza e il rispetto reciproci in modo, da perseguire relazioni più eque fra i partner. Il ruolo del «nemico» è incarnato dalle grandi catene commerciali dei paesi ricchi, le quali, nella misura in cui esercitano un controllo oligopolistico sulle catene internazionali di intermediazione, riescono a massimizzare (e a trasformare in profitto) il valore aggiunto della merce acquistata dal consumatore finale. Per contrastarne il dominio, ci si impegna ad attivare canali di scambio diretti fra produttori e consumatori onde garantire i diritti dei lavoratori e produttori del sud, offrire loro redditi più elevati e promuovere uno sviluppo sostenibile, impedendo l'espropriazione di enormi aree di terreno coltivabile e la loro trasformazione in monocolture gestite con tecnologie inquinanti (antiparassitari, Ogm, ecc.).
È evidente che tutto ciò può funzionare solo mobilitando la partecipazione attiva dei consumatori dei paesi ricchi, il che fa sì che il cuore del movimento — organizzazione, finanziamenti, comunica-zione, ecc. — resti perlopiù situato al nord. È a partire da quest'ultima considerazione che l'economista senegalese Ndongo Samba Sylla elabora una critica radicale(12) di obiettivi, metodi e ideologia del commercio equo e solidale. E possibile, si chiede Sylla, che l'economia di mercato possa essere messa al servizio dei poveri e dell'ambiente? La risposta degli ideologi del movimento è sì: lo scambio iniquo fra nord e sud è causato da una «distorsione» del mercato, causata a sua volta da gruppi economici privi di scrupoli e disposti a tutto pur di aumentare a dismisura i loro profitti. Ma ciò osserva Sylla, significa dimenticare che l'imperativo di tutto il capitalismo — non solo di pochi gruppi privi di scrupoli — è la massimizzazione del profitto e l'accumulazione illimitata del capitale. Se questo è vero, è lecito immaginare che sia possibile rendere «responsabile» un sistema che per definizione non tollera alcun limite etico? Evidentemente no, risponde Sylla, che poi, per sostenere tale punto di vista, ricorda come il commercio e solidale sia, di fatto, un effetto collaterale della globalizzazione/liberalizzazione del commercio internazionale: prima della globalizzazione, i paesi poveri potevano infatti difendersi dalla colonizzazione economica erigendo barriere doganali contro prodotti dei paesi ricchi, per cui è chiaro che, senza l'apertura dei mercati, nemmeno il commercio equo e solidale avrebbe potuto nascere e svilupparsi. Ma se l'equo e solidale è la continuazione del libero commercio, come si può pensare che gli eccessi del mercato possano essere eliminati usando i suoi stessi metodi e principi?
Queste sono argomentazioni astratte, petizioni di principio, qualcuno potrebbe obiettare: il vero problema è capire se la cosa funziona, se riesce realmente a migliorare le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori e produttori del sud. Per dimostrare che ciò non avviene, o avviene in misura limitata, Sylla ricorda che il movimento è diviso in due grandi filoni: il modello integrato e quello basato sulla certificazione del prodotto. Il primo è quello rimasto fedele al progetto inziale di attivare reti di relazioni dirette fra produttori e consumatori, reti che si autofinanziano, utilizzano varie forme di volontariato, coinvolgono il più possibile i produttori nella gestione delle varie attività, ecc. Si tratta di un modello destinato, per forza di cose, a non superare certe dimensioni e a restare confinato in una serie di nicchie di cultura alternativa. Il secondo modello, essendosi posto l'obiettivo di raggiungere il maggior numero possibile di consumatori, ha dovuto scendere a patti con il diavolo, si è cioè alleato con la grande distribuzione per fare approdare i prodotti del commercio equo e solidale sui suoi scaffali. Si tratta di un'evoluzione analoga a quella subita dai prodotti «biologici»: il dispositivo della certificazione neutralizza di fatto la connotazione «alternativa» dei Prodotti, trasformandoli in marchi commerciali come tutti gli altri: il marketing trionfa sull'ideologia. Le conseguenze di tale processo non sono solo culturali: il successo del marchio equo e solidale, al pari di quello del marchio bio, fa crescere la domanda, e la crescita della domanda impone di adottare gli stessi metodi produttivi dei prodotti normali per poter competere con loro (il che ha determinato l'inclusione di grandi piantagioni nelle reti del movimento con buona pace dell'obiettivo di sostenere i piccoli produttori). Così le imprese multinazionali possono appuntarsi medaglie politicamente corrette e santificarsi agli occhi del consumatore — un fenomeno che abbiamo potuto verificare nel corso dell'Expo milanese sull'alimentazione: con lo slogan «nutrire il mondo», e sbandierando progetti di sviluppo sostenibile, marchi bio, naturali, equi e solidali, ecc. si è spacciata una kermesse delle multinazionali agroalimentari per una fiera di prodotti «alternativi».
Per concludere: il commercio equo e solidale può essere considerato un'alternativa globale alla globalizzazione neoliberista? No, risponde Sylla, perché buona parte del valore aggiunto (anche se in misura minore che nei circuiti commerciali mainstream) va al nord, mentre nelle tasche dei produttori resta relativamente poco; e no perché, al di là delle buone intenzioni, il suo risultato è stato, nella migliore delle ipotesi, quello di proteggere i produttori e le loro famiglie dalla povertà estrema, senza farli però uscire veramente dalla povertà, nella peggiore, quello di indurre alcuni ricchi di buona volontà a lavorare inconsapevolmente per la propria categoria, invece che per i poveri che si illudono di aiutare. Analoghe considerazioni valgono per tutte le pratiche che credono di poter cambiare il mondo facendo leva sulle persone «di buona volontà».

Carlo Formenti - La Variante Populista - Derive&Approdi - 2016


1.     G. B. Zorzoli, Ecosistemi ed ego-sistemi, «alfabeta2»,  https://www.alfabeta2.it/2015/12/23/ecosistemi-ed-ego-sistemi/.
2.      Ibidem.
4.     Papa Francesco, Laudato sì. Enciclica sulla cura della casa comune, San Paolo, Milano 2015.
5.     Ivi, p. 132.
6.     Ivi, p. 137.
7.     Ivi, p. 108.
8.     Ibidem.
9.     Ivi, p. 50.
10. Ivi, p. 97.
11. Ivi, p. 156. Su questo tema, vedi anche T. Piketty, L'Occidente inquina di più. Ora paghi per i suoi consumi, «MicroMega», http://temierepubblica.it/micro-consumi/micromega-online/1%E2%80%99occidente-inquina-di-piu-ora-paghi-per-i-suoi-consumi/.
12. Vedi N. S. Sylla The Fair Trade Scandal. Marketing, poverty to benefit the Rich PlutoPress, London 2014