(PDF) L’Italia, per quanto riguarda il nucleare, ha avuto una storia importante: negli anni Trenta del XX secolo il gruppo di ricerca del Regio Istituto Fisico dell’Università di Roma fu tra i primi a indagare il comportamento dei diversi elementi sottoposti a bombardamento neutronico, rivoluzionando la conoscenza fisica del tempo.
Il gruppo, passato alla storia come “i ragazzi di via Panisperna” (dalla sede dell’Istituto), era guidato da Enrico Fermi e composto da Franco Rasetti, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Bruno Pontecorvo, Ettore Majorana e il chimico Oscar d’Agostino: tra i risultati più importanti che gli scienziati italiani raggiunsero in quegli anni vi furono il primo modello di nucleo atomico, che venne proposto da Majorana in seguito alla scoperta del neutrone da parte di James Chadwick nel 1932, la teoria del decadimento beta, per la quale Fermi vinse successivamente il premio Nobel, e gli studi sulla produzione di radioisotopi tramite irraggiamento neutronico. Questi ultimi produssero risultati curiosi già nel 1934, quando il bombardamento dell’uranio e del torio diede origine a bario radioattivo: Fermi non comprese inizialmente la portata della sua scoperta e pensò di aver trovato dei nuovi elementi, che addirittura battezzò.
A intuire che i nuclei atomici potessero essersi spezzati fu invece una donna, la chimica tedesca Ida Noddack, che però all’epoca non riuscì a giustificare matematicamente la sua ipotesi. Fu di Fermi, invece, l’intuizione che i neutroni lenti potessero essere più efficienti di quelli veloci, intuizione che venne confermata inserendo della paraffina (sostanza ricca di idrogeno e dunque buona moderatrice) tra la sorgente di neutroni e il campione bersaglio. In questo modo, il gruppo di via Panisperna riuscì a studiare con molta accuratezza le probabilità di cattura neutronica di diversi elementi.
Nel 1938 fu scoperta ufficialmente la reazione di fissione nucleare, a opera di una scienziata austriaca, Lise Meitner, e di Otto Hahn, ma il gruppo di via Panisperna non ebbe tempo per studiare questo nuovo fenomeno: il clima politico in Italia stava iniziando a farsi sempre più ostile con l’avvicinarsi della guerra. Bruno Pontecorvo si era già trasferito a Parigi nel 1936, e si era iscritto al Partito Comunista Francese (in seguito diserterà a favore dell’Unione Sovietica); nel marzo del 1938 Majorana scomparve senza lasciare tracce; inoltre, le leggi razziali del settembre 1938 costrinsero Emilio Segrè ed Enrico Fermi (la cui moglie, Laura Capon, era di origini ebraiche) ad abbandonare l’Italia e a fuggire negli USA.
Anche Rasetti emigrò in America, stabilendosi in Canada. Nel 1939 Fermi si stabilì a Chicago e iniziò a insegnare all’università, dove gli venne data la possibilità di proseguire le sue ricerche sulle reazioni nucleari, che vennero poi integrate assieme a quelle di molti altri scienziati nel “Progetto Manhattan”. Fermi fu il primo a capire che l’uranio poteva dare luogo a una reazione a catena di fissioni controllate e dimostrò di avere ragione il 2 dicembre del 1942, con l’avvio del Chicago Pile-1, il primo reattore nucleare artificiale, noto anche come “Pila di Fermi”. Il fatto che sia stato un italiano a dare l’avvio all’era atomica dimostra che, almeno a quel tempo, all’Italia non mancavano certo menti scientifiche di prim’ordine, il che ci fa comprendere come il nostro paese sia riuscito a diventare una delle più importanti potenze nucleari a livello globale, seppure per poco tempo.
Uno dei primi italiani a comprendere l’importanza del nucleare in ottica di autonomia energetica e di indipendenza dalle fonti fossili condivideva con Fermi il nome di battesimo: parliamo ovviamente di Enrico Mattei. Negli anni Cinquanta, Mattei aveva ristrutturato l’Agip (Azienda Generale Italiana Petroli), incorporandola poi nella neonata Eni, e ne aveva fatto un player di primo piano sul mercato globale del petrolio: questo gli aveva procurato numerosi nemici tra le compagnie petrolifere americane, che sostanzialmente gestivano l’estrazione del petrolio come un unico cartello e che volevano fare dell’Italia un paese raffinatore e non estrattore. La vendetta delle “sette sorelle” (espressione con cui Mattei stesso prese a indicare spregiativamente le sette principali aziende petrolifere americane) fu quella di ridurre le forniture all’Italia e contemporaneamente di mandarle petrolio di scarsa qualità. In tale circostanza, Mattei penso bene di svincolare l’Italia dalla dipendenza dal greggio statunitense in due modi: da un lato, con totale spregiudicatezza, iniziò a stipulare contratti di scambio petrolifero con paesi del blocco sovietico e con paesi in via di sviluppo, ai quali garantiva il 75% dei proventi dell’estratto, battendo in questo modo la concorrenza anglosassone; dall’altro, entrò nel programma nucleare italiano con la società Agip Nucleare. Quest’ultima divenne poi azionista al 75% (il restante 25% era dell’IRI, l’Istituto per la ricostruzione industriale) della centrale elettronucleare di Latina, prima centrale nucleare dell’Europa continentale, costruita in soli quattro anni, tra il 1958 e il 1962.
Oltre all’Eni di Mattei, l’altro grande sponsor del nucleare in Italia era il CNRN (Comitato nazionale per le ricerche nucleari), guidato negli anni Cinquanta da Felice Ippolito.
Trattandosi di un comitato senza personalità giuridica, il CNRN non poteva gestire risorse economiche, ma Ippolito riuscì comunque a ottenere importanti stanziamenti di fondi e a convincere la politica della necessità di una gestione pubblica della rete elettrica nazionale e dell’importanza delle tecnologie nucleari: nel 1959 iniziò la costruzione della seconda centrale nucleare italiana e nel 1960 quella della terza; nello stesso anno il CNRN divenne CNEN (Comitato nazionale per l’energia nucleare), sempre con Ippolito come segretario. Nel 1962 nacque ufficialmente l’Enel (Ente nazionale per l’energia elettrica), e Felice Ippolito entrò nel suo consiglio di amministrazione.
Felice Ippolito ed Enrico Mattei si possono certamente considerare i padri del programma nucleare civile italiano.
Solo il primo dei due però riuscì ad assistere all’accensione del primo reattore nucleare italiano: Enrico Mattei venne infatti assassinato nel 1962, per mezzo di una bomba piazzata nel suo aereo privato. Gli esecutori materiali dell’omicidio e i mandanti non sono stati mai scoperti, almeno a livello ufficiale, anche perché inizialmente il fatto fu catalogato come un incidente; tuttavia, il pentito di mafia Giovanni Buscetta dichiarò, molti anni dopo, che l’omicidio era stato ordinato dal boss italoamericano Angelo Bruno come “favore” della mafia americana alle compagnie petrolifere, i cui interessi erano stati danneggiati dalle iniziative di Mattei1. Ovviamente, sarebbe stupido sostenere che l’omicidio di Enrico Mattei fosse dovuto al suo sostegno al programma nucleare italiano: è infatti molto più probabile che gli americani lo volessero morto a causa dei contratti di fornitura che si era aggiudicato in Medio Oriente, spiazzando le sette sorelle. Tuttavia si può constatare che gli interessi della mafia, quantomeno in questa circostanza, coincidessero con quelli delle compagnie petrolifere e non con quelli dell’industria nucleare2.
La centrale nucleare di Latina raggiunse la prima criticità nel novembre del 1962, tre mesi dopo la morte di Mattei: il reattore, di tipo MAGNOX (quindi refrigerato a gas e moderato a grafite), aveva una potenza elettrica di 153 MW, che all’epoca lo rendeva il più potente reattore d’Europa e il più potente reattore a gas del mondo. All’avvio della centrale di Latina fecero seguito, a stretto giro di posta, l’accensione della centrale del Garigliano (che montava un reattore BWR da 150 MWe) e di quella di Trino Vercellese (il cui reattore era un PWR da 260 MWe). Nel 1964, l’Italia era il terzo paese al mondo per potenza nucleare installata, dopo gli USA e il Regno Unito e davanti alla Francia e all’Unione Sovietica; era inoltre l’unico paese ad avere reattori di tutte le tipologie studiate fino a quel momento (gas-grafite, acqua bollente e acqua pressurizzata) e possedeva il reattore più potente al mondo, quello di Trino Vercellese, che gli ingegneri di tutto il pianeta venivano a studiare per cercare di replicarne il modello nei loro paesi. Il primato italiano durò fino al 1966; nel frattempo anche Felice Ippolito veniva fatto uscire di scena, stavolta per via giudiziaria.
Il declino di Ippolito era iniziato nel 1963, con una serie di attacchi giornalistici che mettevano in dubbio la sua gestione del denaro pubblico. Al coro si erano poi uniti diversi politici: Saragat, in particolare, che all’epoca era segretario del PSDI (Partito Socialista Democratico Italiano), sostenne pubblicamente che dotarsi di un programma nucleare civile senza un programma nucleare militare fosse come «avere una segheria che produce soltanto segatura». Quasi “ordinata” dal rumore mediatico e politico arrivò infine l’inchiesta della magistratura, aperta unicamente sulla base delle indiscrezioni giornalistiche: le accuse erano abuso d’ufficio e peculato.
Dopo un processo abbastanza discusso, in cui furono provate come false quasi tutte le accuse, Ippolito venne condannato a undici anni di reclusione per aver utilizzato privatamente l’auto del CNEN e per aver donato gadget ai giornalisti in occasione del lancio di Enel. Al di là della pena, che tutti i giuristi giudicheranno poi decisamente eccessiva, occorre notare che l’indagine sulle presunte malversazioni in Enel coinvolse solo Ippolito (membro del consiglio di amministrazione), ma non il presidente o l’amministratore delegato. Possiamo probabilmente ascrivere a quell’episodio la nascita del genere letterario della “sentenza fantasia”, di grande successo in Italia. In appello la condanna di Felice Ippolito venne poi ridotta a soli cinque anni, dei quali ne scontò poco più di due: fu lo stesso Saragat, divenuto presidente della Repubblica, a concedere a Ippolito la grazia. Il processo a Felice Ippolito ottenne comunque l’effetto (voluto o meno) di frenare il programma atomico italiano: per quasi un decennio in Italia non si parlò più di nuove centrali.
Non si può ovviamente dimostrare che il caso Ippolito fosse stato montato contro la nascente industria nucleare, ma molti storici e politologi sostengono oggi questa tesi3.
D’altra parte, le commistioni tra industria petrolifera e politica divennero evidenti pochi anni dopo: nel 1974 saltò fuori infatti che i partiti politici italiani – tutti i partiti politici italiani – ricevevano fondi illeciti dall’Enel e dalle compagnie petrolifere perché portassero avanti politiche energetiche contrarie al nucleare. Le mazzette ammontavano al 5% dei guadagni extra maturati grazie alle leggi approvate di volta in volta e venivano spartite tra i partiti in base al numero di seggi parlamentari: la magistratura di Genova mise sotto indagine tutti i segretari amministrativi dei partiti di governo.
In seguito allo “scandalo dei petroli” (poi rinominato “primo scandalo dei petroli”, dal momento che negli anni Ottanta ci fu un bis), il repubblicano La Malfa ritirò la sua delegazione dal governo Rumor, causandone la caduta.
Rientrò in maggioranza successivamente solo dopo che, da parte degli altri partiti, gli fu promesso di rispondere allo scandalo dei petroli con una legge sul finanziamento pubblico dei partiti. La legge Piccoli venne approvata meno di un mese dopo: tra le varie norme che conteneva, vi era anche quella che istituiva il reato di finanziamento illecito ai partiti.
Grazie a tale norma, molte delle accuse ai politici coinvolti nello scandalo dei petroli furono derubricate e per almeno due dei principali indagati (Andreotti e Aggradi) si determinò il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione; per gli altri, il Parlamento non concesse alla procura l’autorizzazione a procedere.
A pagare, alla fine, fu solo chi le tangenti le aveva versate: fu infatti condannato l’amministratore delegato di Esso (filiale italiana di Exxon) Vincenzo Cazzaniga. Nell’estate del 1975, il Senato americano chiamò a testimoniare i vertici di Exxon a proposito della vicenda italiana: la multinazionale confermò di aver autorizzato pagamenti per un totale di 27 milioni di dollari in un periodo di dieci anni, ai quali va aggiunta una cifra compresa tra 14 e 22 milioni di dollari che Esso versò senza autorizzazione da parte della parent company. I dirigenti di Exxon aggiunsero che gli amministratori italiani avevano garantito che il tutto era perfettamente legale (negli USA in effetti lo sarebbe stato).
Oggi, molti italiani sono convinti che a volere il nucleare siano “i poteri forti”: a guardare la storia, si direbbe esattamente il contrario, a meno di non voler ascrivere i più potenti uomini politici italiani degli anni Settanta e le principali multinazionali petrolifere del pianeta ai poteri deboli.
Lo scandalo dei petroli, combinato con la crisi petrolifera dovuta alla guerra del Kippur, diede comunque nuovo slancio al programma nucleare italiano: nel 1970 era già iniziata la costruzione della centrale di Caorso e nel 1975 venne varato un piano energetico nazionale che prevedeva una forte espansione del parco reattori. Nel 1978 iniziò la costruzione della centrale di Montalto di Castro e venne proposto anche un secondo impianto a Trino Vercellese: in quel momento il nucleare soddisfaceva circa il 6% della domanda di energia elettrica nazionale.
Tuttavia, nel 1986 l’incidente di Černobyl’ influenzò pesantemente l’opinione pubblica, e il referendum dell’anno successivo registrò un’importante maggioranza di italiani contrari al nucleare. Sebbene nessuno dei quesiti referendari riguardasse la chiusura delle centrali italiane, né tantomeno vietasse la costruzione di impianti futuri – si chiedeva agli elettori di esprimersi sugli incentivi ai comuni che ospitavano impianti, sulla possibilità per lo Stato di decidere sulla localizzazione di un impianto nel caso in cui gli enti locali non fossero riusciti a mettersi d’accordo e sulla possibilità per Enel di gestire impianti nucleari all’estero –, i governi che si susseguirono tra il 1987 e il 1990 (governi Goria, De Mita, Andreotti) decisero di seguire il trend d’opinione che il referendum aveva reso evidente e decretarono l’uscita dell’Italia dal nucleare.
Le centrali di Trino e Latina si avvicinavano comunque alla fine della loro vita operativa e quella del Garigliano era già ferma per problemi tecnici: l’unico vero agnello sacrificale fu Caorso, operativa da meno di cinque anni. L’impianto di Montalto di Castro, già iniziato, venne convertito in una centrale termoelettrica tradizionale, e lo stesso accadde al sito che era stato individuato per la centrale di Trino 2. Nel 1990, ventott’anni dopo essere stata la sede del reattore più avanzato al mondo, l’Italia diventava il primo paese a chiudere un programma nucleare attivo.
La dismissione di questo programma non è stata propriamente indolore, né priva di conseguenze, sebbene oggi per molti sia difficile ricollegare alcune criticità del nostro sistema energetico a quella decisione. Prima di tutto l’Italia si trovò nella scomoda posizione di dover rimborsare Enel e Ansaldo Nucleare, ovvero le aziende che avevano messo i soldi per la costruzione dell’impianto di Caorso e alle quali era stato garantito un rientro economico attraverso la vendita di energia elettrica: questa penale è stata la componente primaria degli oneri nucleari nella bolletta elettrica italiana per diversi anni. Il fatto poi di non aver potuto accantonare i fondi necessari al decommissioning durante il funzionamento operativo ha poi fatto sì che anche i soldi per lo smantellamento si siano dovuti prelevare dalle bollette.
In mancanza di un valido sostituto per l’energia nucleare, l’Italia non ha più avuto una strategia energetica nazionale definita e si è più che altro affidata alle iniziative dei singoli operatori (inizialmente solo Eni ed Enel, poi molti altri in seguito alla liberalizzazione del mercato energetico introdotta dal decreto Bersani 1999). A seguito dell’aumento dei consumi avvenuto negli anni Novanta e Duemila, l’Italia si è ritrovata ad aumentare sia l’import di energia primaria (sotto forma di combustibili fossili) sia quello di elettricità.
Se per quanto riguarda i primi si può se non altro dire che siamo in buona compagnia (i paesi che dipendono in larga parte da gas e petrolio estratto altrove sono moltissimi), per quanto riguarda l’elettricità l’Italia è il primo net importer al mondo per quantità: acquistiamo infatti dall’estero 35-40 TWh annui, pari al 12-15% del nostro fabbisogno nazionale – percentualmente ci superano solo paesi come il Lussemburgo e San Marino, che importano il 100% del loro fabbisogno elettrico, il quale però corrisponde a pochi TWh annui. Ironicamente, i paesi da cui l’Italia importa energia elettrica sono tutti paesi nucleari: Francia, Svizzera e Slovenia. Considerata la percentuale di nucleare nel mix energetico francese e considerato che la Svizzera a sua volta importa elettricità dalla Francia, si può stimare che oggi l’8- 10% del fabbisogno elettrico italiano sia in realtà soddisfatto dall’atomo, una percentuale in effetti superiore a quella di molti paesi che posseggono reattori propri.
Nel 2007, in realtà, iniziò un debole tentativo da parte dell’Italia di riportare in auge il nucleare, per iniziativa di alcuni esponenti dell’allora governo di centrosinistra (in particolare Massimo d’Alema); successivamente, la caduta del governo nel 2008 e la vittoria alle elezioni della coalizione di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi diedero ulteriore forza a questo tentativo e si arrivò alla firma di un memorandum d’intesa con la Francia per la costruzione di un certo numero di unità EPR in territorio italiano. Nel 2011, però, l’incidente di Fukushima – così ben raccontato dai media italiani, come abbiamo visto all’inizio del libro – diede linfa vitale alla campagna referendaria per abrogare le nuove norme volte a riportare il nucleare in Italia. Il 12 e il 13 giugno 2011 il popolo italiano si espresse nuovamente contro l’energia nucleare: tra le cose che giocarono a sfavore ci fu anche la polarizzazione dell’opinione pubblica riguardo alla figura di Silvio Berlusconi e il fatto che nello stesso referendum si votasse anche per abrogare una delle sue leggi ad personam, quella sul legittimo impedimento.
Ma al di là delle bollette (più care rispetto alla media europea), della dipendenza elettrica ed energetica e delle difficoltà di dismissione dei siti delle ex centrali (difficoltà dovute a tempi burocratici lunghissimi e al fatto che nessuno ha voglia di pagare per il decommissioning), il danno più grave provocato dall’uscita dell’Italia dal nucleare è stato sicuramente quello psicologico: il terrorismo fatto dalle campagne referendarie ci ha lasciato infatti in eredità un paese profondamente disinformato, terrorizzato da ciò che non conosce, dove dominano la tecnofobia, il complottismo e la sindrome di NIMBY.
Nel prossimo capitolo cercherò di sviscerare e demolire un po’ alcune delle frasi fatte più comuni degli italiani riguardo alla possibilità di reintrodurre il nucleare nel Belpaese.
"L'Avvocato dell'Atomo" Luca Romano - Fazi Editore
1. “Buscetta: ‘Cosa Nostra uccise Enrico Mattel’”, in «la Repubblica», 23 maggio 1994.
2. Il giornalista Mauro de Mauro, che indagò sulla morte di Enrico Mattei, venne a sua volta fatto sparire dalla mafia, così come il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, che si ritrovò anche lui a seguire quella pista.
3. Giuseppe Sircana, “Ippolito, Felice”, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 62, Roma, Treccani, 2004.